Aria pulita

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di Fernando Pardini

E’ un periodo affollato. Meglio, affannato. Gli assaggi guidaioli si susseguono di gran lena e non riesco così a trovare il tempo per scrivere (di altro) come vorrei. Schiacciato dagli impegni, peraltro pieni di suggestioni, accade che la vertigine delle degustazioni e delle ripetute trasferte impongano ritmi inconsueti anche al cervello, ormai quasi incapace di soffermarsi a dovere sulle cose. E’ un periodo di pensieri ingolfati, questo è, in cui la regola non scritta (ma personalmente sacrosanta) di parlare solo e soltanto delle cose che amo ripiega mestamente di fronte al turbinio degli eventi, restando all’angolo. D’altronde i noti (mis)fatti in materia di frodi commerciali ed accomodamenti vari in campo vitivinicolo sembrano forzare gli scritti nella direzione che non è la mia. Sì, intuisco invelenito il clima mediatico attorno al mondo del vino, ché sembra non lasciar spazio alla misura, alla riflessione e al buon senso. Un vortice di sensazioni contrastanti, un turbinio di voci che rimbombano fastidiosamente: dall’elenco sembrano epurate le parole fiducia, rispetto, umiltà, professionalità. Io non mi occupo né di “politica” né di filosofia del vino, non di marketing né di strategie mercantili; non mi occupo di economia né di massimi sistemi. Di fronte a questi argomenti sto alla finestra, a volte aprendola per ascoltare, più spesso richiudendola dal momento in cui mi accorgo che l’aria sa di tappo. Sì, perché quando anche l’aria sa di tappo significa che le giornate son poco propizie. Meglio ritrarsi.

Poi per fortuna in soccorso arrivano i segni; succede più di quanto non si pensi ad occuparsi di vino e campagna. O quantomeno a me sembra così. Spesso sono segni piccoli, scarti emozionali, prospettive inconsuete, barlumi, vini irriducibili e uomini contro, capaci però di restituire un senso (e una risposta) alle giornate più affollate e all’aria contaminata dai discorsi, dai veleni e dalle immancabili ovvietà sul mondo mio amato vitivinicolo. Negli ultimi giorni due segni consecutivi, una manna: il primo ha la forma (e la sostanza) di una bottiglia di vino, emblematica, che subito mi ha riportato all’uomo quindi ai ricordi miei più cari. Il secondo invece è un uomo, che se volete è anche un vino, che se volete è poi la sostanza tutta del discorso o il significato stesso di un mestiere, quello di vignaiolo. Sono storie come altre, ne convengo, ma sono storie da cui ripartire per imparare, casomai nel corso del viaggio ci fossimo dimenticati i bagagli. Ah, a proposito di dimenticanze, ché non vorrei: entrambi i segni hanno parlato al cuore. Entrambi i segni sono stati per me aria pulita da respirare.

Per il primo vino che vi racconto non sono state necessarie partenze. L’ho incontrato, inatteso e opportunamente “anonimizzato”, durante una serata finalmente pacifica trascorsa assieme allo zoccolo duro della complicità esistenziale. Da diversi anni non assaggiavo più “quel genere” di vini, ma al solo odorarlo mi ha trasmesso immediatamente “sentimento”, provenienza e stile: aveva colore giallo acceso quel bicchiere, schiuma sottile e odori di Lunigiana, nespolosi, uvosi, aspri, taglienti, di rara incisività. Poi l’ho bevuto e lui, all’aria, ha assunto un altro passo, ammansendosi: è stato il miracolo dell’equilibrio che si realizzava, con la perdita degli orpelli e delle ruvidezze aromatiche della prim’ora. Quel profilo sapido, diretto, minerale, contrastato (impettito da una gentile carbonica) concretizzava mirabilmente, una volta di più, il concetto di “dolce non dolce” di veronelliana memoria. Sul fondo del bicchiere restavano agrume lieve e mentuccia. Ah, il Cento Vigne 2006 di Fabio! Sì, Fabio Morelli da Corneda di Barbarasco (attenti, non Barbaresco), piccolo borgo a un passo da Aulla (qui fa provincia Massa, quindi siamo in Toscana, eppure non lo diresti), colui che è stato, nelle assidue frequentazioni giovanili, nientepopodimeno che il mio Peppino Cantarelli in minore! Ma attenti, alla sua mitica Hostaria del Buongustaio non ci trovavi champagne e prelibatezze gastronomiche provenienti da chissaddove, bensì solo e soltanto i salumi e gli insaccati della sua Lunigiana, i caci e le mirabolanti pietanze casalinghe preparate dalla moglie Bruna (la zuppa di funghi resta un ricordo indelebile), soprattutto i dialettici suoi vini partigiani, alfieri liquidi di una viticoltura fatta di sacrificio, passione e intuizione, ricavati da uve selezionate dallo stesso Fabio presso alcuni fidatissimi contadini dei luoghi, poi vinificate artigianalmente nella cantina museo del borgo vecchio di Corneda. Sì, dal 1997 l’Hostaria del Buongustaio non c’è più. Molti appassionati di cose e persone genuine – appassionati di ogni dove badate bene – sono rimasti orfani di una emozione e di una storia in più da raccontare. Ebbene, il mite Fabio fu “scoperto ed esaltato” mediaticamente da Luigi Veronelli, che si imbatté in quel posto per caso, nel corso di una delle sue amate escursioni in terra di Lunigiana. Luigi, da par suo, quell’uomo e quei luoghi li ha letteralmente cantati, decretandone da lì a poco un successo senza precedenti. Quanto a me, ignaro delle frequentazioni veronelliane, quel posto magico, umile e appartato lo frequentavo che ero un ragazzino, una trentina di anni fa, accompagnato da mio padre. Poi ho continuato, in modo più consapevole, a frequentarlo con le compagnie giovanili fino alla fine della sua storia. Sono state serate di libagioni e musica, dibattiti, outing politici e innamoramenti. I fatti della vita, a tratti ingiustamente laceranti e dolorosi, hanno portato Fabio e Bruna a ritirarsi anzitempo, dopo che anzitempo è venuto tragicamente a mancare il futuro, cioè il figlio, colui che avrebbe dovuto essere il continuatore della storia. Eppure ancor oggi Fabio, nella sua vecchia casa del borgo vecchio, è una esperienza da vivere. Piccolo instancabile Virgilio, non smette i panni del difensore d’ufficio delle prelibatezze intime e nascoste della sua Lunigiana ma soprattutto non smette i panni, tanto amati, di vignaiolo/vinificatore simbolo della sua terra, terra tanto bella quanto avara di proposte enologiche degne di tal nome. Sulle etichette, rigorosamente scritte e pittate a mano, leggo: “solo per i miei amici” ma, soprattutto, “vino a modo mio”, tanto a modo suo da stagliarsi individuo e riconoscibile fra mille, fiero testimone di una viticoltura contadina pura ed orgogliosa, che cerca di raccogliere i respiri puliti di un tempo per racchiuderli in questi piccoli gioielli di fattura artigianale dove la grammatica enologica è tutto men che ortodossia, dove però la passione e l’esperienza umane riescono miracolosamente a fare di più e meglio di qualsiasi trattato di enologia applicata. Da quei vini “obliqui e umorali” non avrete la perfezione, questo no, ma avrete indelebile il ricordo.

Nel frattempo, di fronte al bicchiere di oggi, sto pensando che è già più di un anno che non sento Fabio, io che ho sempre sperato di esserne amico. Ancora non ho mantenuto la promessa fattagli: trascorrere insieme una intera giornata, con lui a guidarmi fra i microartigiani e le famiglie “gastronome” della sua Lunigiana, per farmi conoscere i segreti e i gesti che stanno dietro al pane, all’olio, alla pasta, ai mieli, alle confetture, ai ai caci contadini o ai vigneti “ sparpagliati” della sua predilezione. Mi accorgo così che insistere nel mio ondivago prender tempo, di fronte allo specchio di un bicchiere che parla e scava, è soprattutto un errore dello spirito. Perché oggi come oggi non si può fare a meno di questi vini, così come non si può fare a meno di aria (e gente) pulita.

Il secondo segno ha alla base la ferma volontà del sottoscritto di colmare un vuoto. Quindi ha una premeditazione. Peraltro coltivata da tempo. Con la storia di prima diversi tratti in comune: non i luoghi certo, non l’estro, in quest’ultimo caso esclusivamente vignaiolo, non le frequentazioni personali. Però la “pasta” delle persone è la medesima, lo sento, e il sentimento trainante delle loro esistenze passa per l’amore incondizionato verso la propria terra, un amore esclusivo e senza filtri, coltivato nell’arco di una vita intera; ogni loro gesto, consapevole e inconsapevole, è stato per lei. Eppoi dietro queste storie diverse e sconosciute una all’altra passa l’ombra maestra di Luigi Veronelli… sì, ancora lui. Fu lui a parlarmene, fu lui per esempio a ricordarmi di quei suoi incontri piemontesi. Ricordo alcuni suoi scritti: “ conservo la chiave della cantina (e del cuore) di Domenico Ivaldi, vignaiolo emblematico di Strevi. Quando ero rattristato me ne correvo da lui per lasciarmi cullare dai suoi passiti centenari….”. Domenico Ivaldi è storia di mani e braccia, sguardi e rughe, stomaco e cuore; è storia maledettamente terragna che il tempo e la presunta modernità hanno inteso (invano) seppellire negli angoli remoti della dimenticanza. Domenico Ivaldi è una persona di straordinaria umiltà e calore, contadino per antonomasia. Nella incantata Val Bagnario, a due passi da Acqui Terme, ha letteralmente inventato il moscato e il brachetto passiti. Ne ha consegnato ai posteri, sì ai posteri, versioni memorabili capaci di domare il tempo e nel tempo esaltarsi. Da quella cantina old fashioned, dalle vecchie vasche di cemento, dalle semplici stuoie si è concretizzato un sogno liquido fatto di gesti e cose piccole.

E’ stato un dono grande quello fattomi da Domenico quel giorno. Perché assaggiare un rarissimo Brachetto passito del 1961 è una esperienza che da sola vale il viaggio, e pure il ritorno. Perché è uno di quei gesti che restano e che da soli rendono tutta la grandezza insita nella condivisione e nella accoglienza, pilastri irrinunciabili della sensibilità umana. In quel bicchiere la quintessenza del vino contadino, l’impalpabile magia del tempo che si arresta come in ossequioso rispetto. Tutt’attorno bottiglie scure su cui riesco a intravederne le annate, e che bellamente mi scuotono: 1898 tanto per dirne una. Amorevolmente conservata, l’ultima bottiglia assaggiata assieme a Luigi Veronelli. Al momento di quell’incontro aveva 103 anni ( la bottiglia non l’uomo!). Non ho quindi che da ringraziare Michela Marenco ( “rampolla” di una delle dinastie del vino più celebri dell’acquese) ed il suo irrefrenabile trasporto verso la sua terra per le “entrature” nei confronti di Domenico e per la compagnia di un giorno. Quel contadino lì, in silenzio e senza proclami, ha aperto una strada e scavato un solco. Lungo tutta una vita ci ha regalato l’emozione pura di un frutto della terra cresciuto con amore. Non so cosa la terra gli abbia restituito in cambio. Eppoi non gli ho chiesto se fosse felice. Però gli occhi mi hanno ispirato incanto e serenità. Tutto il resto non conta.

Foto: etichetta di Centovigne; Domenico Ivaldi con la compagna (al centro) e Michela Marenco.

FERNANDO PARDINI

3 COMMENTS

  1. Egr.Sig.Fernando Pardini, Le scrivo in riferimento all’articolo pubblicato il 28.07.08 dal titolo Aria pulita. Prima di tutto mi presento: sono Ivaldi Enrica, una parte di quella famosa discendenza non incline a continuare il lavoro del sig. Ivaldi Domenico, più precisamente la primogenita.Su segnalazione di alcuni amici ho scoperto, solo di recente, che è stato scritto un articolo su mio papà.Peccato che la sorpresa e l’emozione iniziale hanno presto lasciato posto alla delusione e alla rabbia. Io non so se è stato “l’intervistato” a suggerirLe alcuni “tristi” passaggi, ma sta di fatto che prima di diffamare le persone è meglio accertarsi che ciò che si scrive corrisponda al vero. Mi riferisco al suo appellativo dato a noi 4 figli. Oltre che con mio padre, ha parlato con altre persone? Ad esempio, con qualcuno dei miei fratelli? Credo di no,altrimenti sarebbe venuto a conoscenza di altre verità:che abbiamo sempre lavorato con mio papà sin da giovanissimi, che in età adulta abbiamo sacrificato le nostre ambizioni personali per la Terra….di nostro padre. Tutto è avvenuto con molta naturalezza: dentro di noi c’è sempre stato(credo dalla nascita!) un amore per il lavoro e per le nostre vigne che ha permesso, a mio papà, di fare quello che ha fatto dagli anni 80 ad oggi, o almeno fino all’ultimo giorno in cui ha deciso di non produrre più. Ma un giorno, abbiamo capito che lui non aveva bisogno di figli a cui tramandare, ma solo di braccia. Non sto a raccontarLe i particolari, Le dico solo che “in silenzio e senza proclami” ci siamo dovuti allontanare x trovarci lavori che ci permettessero di avere un futuro. Detto questo, io e i miei fratelli, continuiamo ad andare a vendemmiare e a fare altri lavori nelle vigne che sono rimaste, sacrificando ferie, ecc…., ma non credo che lei sia venuto a conoscenza nemmeno di questo! Forse non l’hanno nemmeno informat che la Sig.ra al centro della foto, non è la moglie e quindi non è nostra madre, ma la convivente. Naturalmente mi ha fatto molto piacere leggere le cose che ha scritto su mio papà, è sicuramente un uomo che nel suo lavoro non ha avuto eguali….

  2. Gentile Enrica
    alla sua delusione fortissima per un articolo tanto tremendo nei confronti suoi e della sua famiglia, assolutamente diffamatorio, ne convengo ( ma scheziamo?!) associo il mio sbigottimento perché forse davvero mi sono perso dei passaggi. Mi dispiace molto della delusione, è ovvio. Veramente sbalorditivo, perché a tutto avrei pensato alla lettura di un pezzo del genere men che alla delusione e alla offesa: per esempio avrei pensato al contrario esatto della delusione. Però Enrica mi perdoni: chiaro che l’unica ( ripeto l’unica) riga che ho scritto non l’ho inventata, ci mancherebbe ( che sono un indovino?) e chiaro che non rappresenti assolutamente una offesa, dal momento in cui una scelta esistenziale differente da parte di un figlio ( come mi sembra anche lei sottolinei nella sua lettera: “qui volevano solo braccia”, “ci siamo dovuti allontanare!…queste sì affermazioni quantomeno critiche) è tutto men che una offesa. E in quella riga, ne convenga, non può leggere un giudizio di merito, perché non c’è alcun giudizio di merito!. Chiaro pure che la signora mi è stata presentata come moglie, e chiaro pure che non chiedo mai di vedere lo stato di famiglia quando vado a visitare un vignaiolo, ma non è un problema per me cambiare il commento alla foto introducendo la parola “compagna” anziché moglie. Mi pare però che traspaia, dalle sue parole, un rammarico che poco c’entra con l’entusiastico articolo che ho scritto ( perché se c’è stato un articolo, nella mia carriera, da intendersi quale paradigma dell’entusiasmo e della immedesimazione, questo è il caso del pezzo scritto per suo padre). Mi pare che c’entri con affari personali, della sua famiglia, questo sì, e mi sembra eccessivo addossare ad uno scribacchino ingenuo le incomprensioni nate altrove, gli scorni o le disillusioni.
    Toglierò ogni riferimento ai figli, ci mancherebbe, e ribadisco che nelle 4 ore di racconti nella fattoria di suo padre, nessuno mi ha parlato di voi come compartecipi all’avventura vignaiola. Neanche una parola. Per cui, a ben vedere, è meglio togliere ogni riferimento.
    Con stima
    Fernando Pardini

  3. Egr.Sig.Pardini, la ringrazio per avermi risposto, avevo dei dubbi che lo facesse. Cosa piu’ importante, e che ho molto apprezzato, sono state le sue doverose correzioni che ha effettuato in modo così tempestivo. Mi spiace che abbia frainteso il senso delle mie parole, non sono state una critica al suo meraviglioso articolo nella sua totalità,( si rilegga l’ultima frase), ma una critica alla sua ingenuità di giornaslista che non ha verificato se la “fonte “fosse veramente attendibile riguardo quell’unica frase infelice. Purtroppo mi sono sentita in dovere di difendere l’identità mia e dei miei fratelli, al di là di quello che abbiamo fatto per mio padre( merito che mai ci ha riconosciuto e che mai ci riconoscerà, ma questi sono problemi di famiglia!) ,noi, oggi, siamo persone che non possiamo piu’ accettare che la verità sia nascosta. Le auguro un buon lavoro e, avendo letto e apprezzato altri suoi articoli , non si consideri solo uno “scribacchino”. Cordialmente .
    Enrica Ivaldi

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