La storia di una bottiglia e del suo vagabondare

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di Aurora Tosi

Aurora, giovane poetessa versiliese, “corrotta” dal babbo enologo, ci ha regalato alcuni racconti di stampo vinoso. Ecco qua il primo.

Ho conosciuto molti mondi nel mio vagabondare. Poi ne conobbi uno davvero strano e insolito. Un lungo muro infinito e impossibile da superare correva lontano e ai suoi piedi una polverosa e vuota strada, percorsa da uomini che camminavano avanti e indietro, sognando desiderosi ciò che era al di là della muraglia. Un mondo così grigio non lo avevo mai visto. Poi arrivai io e -non si sa perché- quegli uomini sorpresi alla mia vista mi gettarono di là, forse sperando un qualche segno del mondo misterioso; e io credetti di non tornare mai più indietro.

Ma per ironia della sorte, mi ritrovai stretta tra le mani di un uomo, così forte e bello da sembrare il sole che brillava sopra la sua testa. La sua pelle calda e scura, odorosa della terra dei colli che lo circondavano. Fui accecata dalla luce abbagliante di quel luogo, dopo l’eterno grigio del muro, che -meraviglia!- era solo un orizzonte lontano. Fui bendata e trasportata in un mezzo “ciotolante” tra profumi di fiori e uno strano odore dolciastro accompagnato dal ronzio delle api. Tutto era d’oro, malgrado il buio incombesse sul mio cuore e sul mio volto, mi sentivo vuota e invece tutto quello che mi circondava era così ricco e pieno. Vagai a lungo per quei luoghi eterni di amore e di fatica umana, nel calore inebriante del meriggio. L’erba era fresca e morbida, sotto i rapidi gentili piedi dell’uomo, sentii lievi fruscii attorno alle mie braccia e uno scricchiolante mormorio di foglie a me sconosciute, filari di piccole rigogliose pianticelle dalle curiose pigne d’oro e di rubino che scendevano allegre e vivaci accompagnavano il nostro passaggio, per le felici colline baciate dal cielo turchino. E perfino la terra rideva, tingendosi di morbidi colori, plasmati dal tempo e dall’usura. Tutto era vivo e il respiro dell’uomo appariva come una lenta melodia d’amore.

Giungemmo a una lunga strada per un dolce declivio fino a una vecchia fattoria sulla cima e io chiesi il nome del posto, ma l’uomo continuò silenzioso il suo canto. Fui portata poi in una fredda stanza e attesi in segreto in un piccolo angolo vuoto e scuro, spesso gli uccellini cantavano sul tetto, ma io mai mi mossi e attesi. E infine fui ricompensata. Passarono gaie le stagioni con i loro colori, i loro quadri e i loro frutti e venne il tempo di un sapore dolce e avvolgente e zuccherino, squisito al gusto, tra le foglie rosse d’autunno; pazientemente l’uomo aspettò accovacciato alla porta, sorridente,quando un giorno mi risvegliai sorpresa, colma di un calore strano e felice, così rosso e pieno d’amore da farmi credere di aver per la prima volta il cuore. Ma non fui sorpresa tanto quanto scoprii di avere la luce e l’azzurro di un anno dentro di me, di una vigna curata e coltivata con affetto, di una terra sudata e amata, le gocce di pioggia e di rugiada del mattino, i cinguettii degli uccelli e i loro sguardi desiderosi e pazienti volti a ogni chicco verde colorirsi ogni giorno di più dei raggi del sole estivo. Scoprii così quella bevanda divina per il lavoro e il sapore e gli infiniti avviluppanti poteri che alimentano sogni, quella bevanda che alcuni chiamano vino. E m’innamorai del suo profumo che sapeva così tanto di fiori del campo e del vento del cielo e allora finii per non andarmene mai più.

Finché un giorno, per sbaglio, scavalcai l’orizzonte lontano e ricaddi per un tiro della sorte nelle mani degli uomini grigi che mi avevano sottratto al mio vagabondare. E così piena del mio liquido rubino, qualche raggio del mio sole sfuggì sul mondo triste e bigio e tutto s’illuminò d’amore. E fu così che con un’ultima goccia del prezioso nettare rimasta sull’imboccatura, illuminai per errore il mondo grigio e stanco e gli uomini sorrisero felici del gusto della vita.

Immagine tratta da www.foto-blog.it

L'AcquaBuona

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