Trebbiano? …quando è d’Abruzzo è “a very interesting grape”!

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Trebbiano? …A not very interesting grape. Questo è quanto dichiarava qualche mese fa il marchese Antinori in un’intervista alla prestigiosa rivista inglese Decanter, riconducendo la scarsa qualità dei vini bianchi dell’Italia centrale alla massiccia presenza di questo vitigno per il quale, sempre secondo il marchese, l’unica soluzione sarebbe l’estirpazione! Pur non specificandolo, sono certo che Antinori si riferisse al trebbiano toscano, diffusissimo in tutta l’Italia centrale: vitigno che, se assecondato, è in grado di produrre vagonate di uva (tranquillamente oltre i 200 quintali a ettaro) e un prodotto finale anonimo e di bassa qualità. E se guardiamo al livello medio dei trebbiano in circolazione, vini senz’anima e senza identità, non si può che essere d’accordo.

Ma fortunatamente ci sono delle eccezioni e ve le vorrei raccontare.
Ultimamente, anche grazie al momento fortunato che sta vivendo la vitivinicoltura abruzzese nel suo complesso, si intravedono segnali di una riscoperta di questo bistrattato vitigno, che in alcune interpretazioni d’autore sembra possedere qualità e longevità su cui nessuno avrebbe scommesso.

A far la differenza sono due fattori: il vitigno e il coraggio di lavorarlo in maniera “non convenzionale”. Mi spiego meglio.

Quando parli di trebbiano dal punto di vista ampelografico dici tutto e dici niente. Esistono tanti trebbiano: quello toscano, quello romagnolo, quello di soave, quello abruzzese, solo per citare i più noti. Il nome sembra infatti derivare dal latino trebularum, ovvero “vino della trebula”, che per gli antichi romani era la casa del contadino. Sotto questo nome si definivano le varie tipologie di vitigni che crescevano senza troppa difficoltà intorno all’abitazione e che si vendemmiavano tutte insieme per ottenere un vino bianco da tutti i giorni e di poche pretese. Così in Abruzzo il trebbiano è sempre stato il vino bianco per antonomasia, ottenuto dalla vinificazione di numerose uve a bacca bianca – trebbiano toscano, trebbiano abruzzese, cococciola, passerina, pecorino, malvasia, montonico, solo per citare le più importanti – ed allevato con tecniche e pratiche differenti da territorio a territorio. Un vino contadino, insomma, a cui nessuno aveva mai prestato troppa attenzione e per il quale, viste le premesse, parlare di concetti come tipicità e identità territoriale è sempre stato un azzardo. Tant’è!

Poi un giorno ti capita di assaggiare un trebbiano di Valentini e all’improvviso non capisci più niente. La distanza con gli altri trebbiano – in termini di complessità, di energia interna, di capacità evolutiva – è tale da indurti a pensare che si debba trattare di un altro vitigno. E allora parli con Francesco Paolo Valentini, attuale conduttore dell’azienda, e scopri che è proprio così.

<<Il grappolo che abbiamo a Loreto Aprutino è molto diverso da quello della gran parte dei trebbiano che oggi si trovano in Abruzzo, che sono toscano di tipo B, piantati in gran parte durante il boom della vitivinicoltura industriale negli anni Sessanta e Settanta >> racconta Francesco Paolo. <<Il trebbiano toscano venne scelto per i soliti motivi: era largamente più produttivo e resistente alle malattie fitosanitarie. Il nostro trebbiano abruzzese invece ha un grappolo più piccolo, con una sola punta, più spargolo e il colore degli acini dal verdolino vira un po’ più sul giallo oro>>. Primo segreto rivelato: si tratta quindi di un vitigno a se stante, una varietà ben definita che si stima oggi sia presente solo sul 10-15% degli impianti regionali e che, dove ha resistito, ha avuto un lunghissimo tempo di climatizzazione (si parla di secoli) che gli permette oggi di esprimersi al meglio. Ma non basta.

<< Per tirar fuori le potenzialità di questo vitigno è importante che venga allevato nel modo giusto. La spalliera o il filare, i sistemi più diffusi, possono andar bene in zone abbastanza fredde. Da noi, a Loreto Aprutino, il sole picchia forte. Sono convinto perciò che la pergola abruzzese sia il sistema di allevamento più idoneo perché protegge i grappoli dall’irraggiamento diretto, che rischierebbe di “cuocerli”, e consente loro di maturare in maniera più graduale grazie all’irraggiamento riflesso. E’ importante poi anche il sistema di potatura, che in generale deve essere a corto raggio ma che comunque deve essere calibrato a seconda delle annate per consentire una maturazione ottimale delle gemme>>. Secondo segreto rivelato. Non esiste un sistema di allevamento universalmente valido e quelli più moderni non è detto che siano anche i migliori. Tutto deve essere rapportato al territorio di riferimento e alle sue caratteristiche pedoclimatiche.

E in cantina? <<La mia cantina è la vigna. E’ lì che devo investire i miei soldi, la mia fatica,e anche le mie ansie…In cantina devo intervenire il meno possibile perché credo fermamente nel principio della maieutica socratica: tutto esiste già in natura. Il vino quindi non si inventa. Non si costruisce, Al massimo si aiuta a venir fuori. E non sempre ci si riesce bene: ci sono annate, come la 2006, in cui non sono riuscito a controllare una fermentazione malolattica di una veemenza paragonabile a quella alcolica. Il vino finale, per i miei standard, non era idoneo all’imbottigliamento e allora l’ho venduto tutto come sfuso. Una cosa dolorosa ma anche bellissima, perché dimostra come, alla fine di tutto, le uniche regole universalmente valide sono quelle di Madre Natura >>. Terzo ed ultimo segreto svelato. Banalizzando significa fermentazione spontanea, niente controllo della temperatura, lieviti rigorosamente autoctoni, uso moderato della solforosa, recipienti di fermentazione e affinamento poco “invasivi (Valentini usa delle botti grandi secolari, di un legno ormai pietrificato). Amen.

Se questo modo di procedere fino a qualche tempo fa rappresentava un caso isolato, che faceva del trebbiano di Valentini un unicum in tutta Italia, oggi, a ben guardare è possibile individuare una piccola corrente di produttori, alcuni dei quali giovani e promettenti, i cui vini, seppur diversi dal punto di vista ampelografico, territoriale e pedoclimatico, sembrano avere una matrice comune che ne consente una riconoscibilità e un’espressività che vanno oltre la semplice compiutezza tecnica.

Quali sono questi tratti comuni? Proviamo a delinearli. Come punto di partenza faccio ricorso alle parole di Alessandro Bocchetti, curatore degli assaggi abruzzesi per la guida del Gambero Rosso: << […] Si tratta di vini bianchi acidi, nervosi, quasi esili, con uno spettro aromatico relativo e molto delicato. Patiscono particolarmente i lieviti selezionati, che rischiano di marcarli in maniera irrecuperabile. Quando invece vengono rispettati negli aromi e nella vinificazione, stupiscono con un tono riconoscibilissimo di nocciola tostata e con una vitalità assolutamente seducente. Bianchi che negli anni evolvono incredibilmente: l’acidità li preserva e li conduce verso quei toni complessi e minerali, tanto graditi oggi>>. Aggiungo qualcosa. Proprio la mancanza di profumi, considerata da molti uno dei punti deboli di quest’uva, sembra rivelarsi nelle corrette interpretazioni un punto di forza: scavando a fondo emergono dei sentori di mare e di roccia, di salmastro e di polvere da sparo, che sembrano marcare in maniera distintiva questi vini. Vini che, contro ogni logica (avendo sovente parametri chimici da “pesi piuma”, come l’incredibile trebbiano Valentini dell’81 assaggiato di recente, che a malapena raggiunge i 12° alcolici), riescono a coniugare essenzialità e portento.

Per concludere, allora, quali sono questi trebbiano d’autore?

Il primo che mi viene in mente è quello di Emidio Pepe: la storica cantina teramana, senz’altro più nota agli appassionati per il grande montepulciano, nei bianchi non ha la regolarità e la tenuta nel tempo di Valentini, ma le annate buone sono chicche assolute (ad esempio la 2002, oggi godibilissima, e la recente 2008, esemplare per freschezza e bevibilità). Senz’altro un fuoriclasse della denominazione!

Sempre nel teramano, ma un po’ più a sud, nella valle del Vomano, un’altra azienda che sul trebbiano sta facendo da anni un lavoro serio e rigoroso è la Fratelli Barba. Ne produce due, molto diversi tra loro ma entrambi ottimi. Il Trebbiano fa una fermentazione in legno grande, stile borgognone, che lo rende molto particolare (da provare la 2007). Personalmente mi piace ancor di più il Vignafranca (ad esempio le ultime due annate, 2007 e 2008), fermentato in acciaio e affinato sulle fecce: verace, sapido, con acidità ed energia da vendere. Non ho memoria gustativa di annate più vecchie, ma sono certo che anche come tenuta nel tempo i trebbiano di Barba non scherzano (vi farò sapere…).

Tanto indietro nel tempo senz’altro non si può andare, perché si tratta di un progetto recentissimo, ma del Trebbiano Vigna di Capestrano di Valle Reale sentiremo spesso parlare in futuro. Ai piedi del Gran Sasso l’azienda di Leonardo Pizzolo è impegnata da alcuni anni in un progetto di vino a fermentazione spontanea in acciaio, con lieviti del territorio, senza chiarifiche e filtrazioni, che sta dando già ottimi risultati in fatto di riconoscibilità ed eleganza. Sul fronte trebbiano senz’altro una delle novità più interessanti in circolazione (provare la 2007 per credere).

Altro nome da annotare può essere, a mio avviso, quello di Centorame, nelle colline teramane, con il base San Michele, buonissimo e convenientissimo, che spesso mi convince di più del pur ottimo Castellum Vetus; oppure il vicino Faraone (il cui trebbiano, però, è a netta prevalenza di passerina), vino artigianale capace di regalare bellissime emozioni nel tempo.

Per chiudere, quando si parla di grandi trebbiano, non si può non citare il Castello di Semivicoli del compianto Gianni Masciarelli: un grande bianco in assoluto, ma di impostazione, stile e fattura diversa, più moderna e poco paragonabile ai vini che volevo mettere in evidenza in questo articolo.

(si ringraziano per le immagini i siti web: altissimoceto, mirkoginevra, blog gamberorosso)

Franco Santini

Franco Santini (santini@acquabuona.it), abruzzese, ingegnere per mestiere, giornalista per passione, ha iniziato a scrivere nel 1998 per L’Ente Editoriale dell’Arma dei Carabinieri. Pian piano, da argomenti tecnico-scientifici è passato al vino e all’enogastronomia, e ora non vuol sentire parlare d’altro! Grande conoscitore della realtà vitivinicola abruzzese, sta allargando sempre più i suoi “confini” al resto dell’Italia enoica. Sceglie le sue mète di viaggio a partire dalla superficie vitata del luogo, e costringe la sua povera compagna ad aiutarlo nella missione di tenere alto il consumo medio di vino pro-capite del paese!

6 COMMENTS

  1. leggendo vari testi, tra cui ad es. The Oxford Companion to Wine di Jancis Robinson, normalmente ritenuto autorevole testo di riferimento a livell internazionale (piu’ altri che ho trovato via via), si da per scontato che il Trebbiano d’Abruzzo non sia Trebbiano, ma Bombino.
    Avendo avuto modo di vinificare piu’ volte il Trebbiano toscano, anche da zone molto vocate (es. Pitigliano) e da vigne vecchie, con produzioni basse, ecc., non posso essere che d’accordo con la definizione che il Trebbiano sia un vitigno poco interessante (e non e’ un caso che in Francia con l’Ugni Blanc, ovvero il Trebbiano, ci facciano il Cognac, che ha bisogno di uve neutre). Specialmente se e’ vero che quello abruzzese non e’ Trebbiano, ma Bombino.

  2. Quindi Gianpaolo sei scettico nei confronti dei tentativi che si fanno in Toscana (Villa di Capezzana, Pieve de’ Pitti…) o magari ci può essere qualche condizione peculiare ecc ecc…?

  3. Concordo perfettamente con quanto scritto da Franco. Trebbiano Abruzzese= Bombino ? In Puglia al momento le interpretazioni di questo vitigno si avvicinano più al Trebbiano toscano con una acidità ancora più spinta. Mi riesce difficile pensare che si possano ottenere dal Bombino migliori risultati.

  4. Ho sentito al telefono Francesco Valentini il quale, complimentandosi comunque per il pezzo che ha colto in pieno la sua filosofia, ci teneva a fare alcune piccole precisazioni:
    1) la frase “vigneto a se stante” va interpretata (com’era nelle mie intenzioni per altro) come trebbiano diverso da quello toscano, e non come vigneto unico di cui lui ha l’esclusiva. A tal proposito, precisa che dagli ultimi dati in suo possesso la diffusione regionale di questo trebbiano toscano, che anche lui identifica con un clone di bombino bianco, è intorno al 20-25%, quindi un pò più ottimistica rispetto a quanto riportato.
    2) nella lavorazione in cantina è fondamentale la non filtrazione, operazione che impoverisce il vino e ne altera l’equilibrio vitale.

  5. Grazie per questo interessante articolo, da Abbruzzese condivido a pieno la selezione dei vini da uve Trebbiano riportate qui sopra. Credo oltre siano fondamentali le non chiarificazioni, danno personalita’ ai vini e longevita’….
    Purtroppo vivendo all’estero non possono seguire le annate…. e la bellezza affascinante del ricco bagaglio ampelografico italiano.
    Qui in Australia sia molto concentrati sui vitigni internazionali, le esportazioni anchessi e guidate da un gusto di bere standard… e difficile trovare francesi o italiani di spessore come i sopra citati, a volte non impossibile.
    Provero’ a seguire questo sito con continuita’.
    Sarei lieto se mi aggiornate sui post…
    Italy is amazing…

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