Il Lugana a Roma

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ROMA – Quando si parla di grandi vini bianchi italiani sono certo che nessuno vada a pensare di primo acchito al Lugana, la piccola denominazione lombarda riconosciuta come una delle primissime Doc del paese (1967). Dopo qualche periodo di crisi (destino purtroppo condiviso con molte altre denominazioni storiche) la zona è in netto rilancio, con vini che diventano anno dopo anno più definiti e interessanti, iniziando a mostrare, a detta di molti, un potenziale evolutivo fuori dal comune. Della cosa, d’altronde, si era accorto per primo il grande Veronelli, che parlando di questo vino scriveva diversi anni fa: <<Bevi il tuo Lugana giovane, giovanissimo e godrai della  sua freschezza. Bevilo di due o tre anni e ne godrai della sua completezza. Bevilo decenne, sarai stupefatto della composta autorevolezza>>. Con curiosità ho quindi aderito all’invito degli amici di Go Wine (www.gowinet.it) che, in collaborazione con il Consorzio di Tutela Lugana Doc (www.consorziolugana.it), hanno portato a Roma oltre 30 aziende, offrendoci la possibilità di analizzare e confrontare varie annate, tipologie (Doc, Superiore e Spumante) e stili di vinificazione di questa storica denominazione.

Il Lugana Doc è prodotto in un territorio non molto ampio, al confine tra Lombardia e Veneto, nella provincia bresciana immediatamente a sud del Lago di Garda. Il terreno è argilloso, di origine morenico-glaciale, con importanti concentrazioni di calcare e sali minerali, specie nelle porzioni a ridosso delle colline, più ricche di scheletro. Una terra non facile da lavorare: quando piove tanto diventa fango, quando c’è il sole si crepa. Gli ettari vitati sono circa 900, per una produzione annuale complessiva che viaggia intorno ai 9 milioni di bottiglie. Nei terreni che un tempo ospitavano soprattutto grano e erba medica, oggi trovano spazio ordinati vigneti impiantati prevalentemente con “trebbiano di Lugana”, un’uva autoctona su cui poggia l’intera denominazione. Non è ancora ben chiara la sua origine, ma le ipotesi più accreditate (anche se puntualmente smentite da fazioni opposte) ritengono la “turbiana” (così si chiama da quelle parti) una strettissima parente del verdicchio e del trebbiano di soave, con cui condivide lo stesso patrimonio genomico e di cui “ampelograficamente” è considerata sinonimo. La cosa certa è che, parentele a parte, il trebbiano di Lugana sembra avere una marcia in più rispetto al diffuso e mediocre trebbiano toscano, sia in termini di struttura che di potenzialità evolutiva. Qualità che le sono ampiamente riconosciute dal mercato, visto che l’uva di Lugana è generalmente una delle uve bianche più pagate, con prezzi anche quattro/cinque volte superiori alla media del settore.

Dicevamo della capacità di invecchiamento di questi vini: analisi di laboratorio hanno mostrato come l’uva in oggetto sia particolarmente ricca di antiossidanti naturali (glutatione ed acidi cinnamici) e di polifenoli, prerequisiti indispensabili per una positiva evoluzione nel tempo.  A Roma non ho avuto modo di verificare a fondo gli effetti di questi risultati, in quanto le aziende (quasi tutte) hanno preferito privilegiare l’ultima annata in commercio, e gli assaggi di Lugana d’antan si sono limitati a 3-4 campioni. Sono comunque emersi altri dati interessanti su cui riflettere.

Come accade per tante altre denominazioni (perdonatemi il solito paragone abruzzese, ma mi viene in mente il Pecorino, tanto per fare un nome), mi sembra che il Lugana sia un vino dalle indubbie potenzialità ma ancora in cerca di una sua precisa identità: sotto lo stesso marchio convivono infatti tante interpretazioni e stili di vinificazione agli antipodi, che alla fine danno origine a prodotti che possono essere anche molto diversi tra loro.

Volendo semplificare e generalizzare, mi è sembrato di cogliere un paio di grandi “partiti”. Assai diffuso, specie nelle versioni d’annata, è quello dei “riduzionisti”: il trebbiano di Lugana non è di per se un’uva molto aromatica e allora per estrarre profumi ed esaltare le doti di freschezza e fragranza del frutto molti ricorrono a vinificazioni a basse temperature, solo acciaio e in totale assenza di ossigeno. Ora qui si potrebbe aprire una discussione infinita sugli effetti e sulla convenienza di una pratica del genere. Io non ho ancora preso una posizione definitiva, ma vorrei puntualizzare un paio di concetti. La “riduzione” non crea né distrugge aromi, ma si limita a preservare e rendere più percepibili alcune sostanze aromatiche (in particolare i mercaptani) che sono naturalmente presenti nell’uva, e che si degradano invece molto facilmente in presenza di ossigeno. Se ciò è vero, è altrettanto vero però che tali sostanze sono comuni a molti vitigni (pecorino, verdicchio, e soprattutto sauvignon) che, vinificati con una tecnica che tende ad esaltarne i profumi (di agrumi, frutti esotici, passion fruit, etc…), alla fine tendono a dare vini senz’altro molto accattivanti ma che si assomigliano tutti. Poco “territoriali” insomma!

Un altro partito popolare è quello degli “affinatori sulle fecce”: diversi produttori hanno scelto la strada del contatto prolungato con i lieviti per apportare volume e persistenza aromatica ai propri vini. Si tratta, in questo caso, di vini che hanno almeno due/tre anni sulle spalle e che, nelle versioni migliori, sembrano godere di un bonus di complessità e di espressività che mi è piaciuto. Specie nei casi in cui il dosaggio del legno non è stato eccessivo, preservando quindi il profilo organolettico del prodotto finale.

Un punto comune un po’ a tutti i vini è stato comunque quello di una netta e saporita salinità al palato, che mi sembra il vero “marcatore” territoriale, e che ha rivitalizzato anche i prodotti che all’olfatto erano sembrati un po’ banali e scontati, facendo di molti Lugana vini piacevoli, interessanti e soprattutto con un’ottima vocazione gastronomica.

Per questioni di tempo non ho avuto purtroppo modo di provare tutti i campioni in degustazione, ma mi sembra doveroso citare i produttori presenti e ringraziarli, perché è soprattutto grazie ai loro sforzi che noi appassionati abbiamo la possibilità di confrontarci ed allargare il nostro orizzonte enoico. Un grazie quindi al Consorzio di Tutela del Lugana Doc e alle aziende:

Ancilla Lugana; Bosco del Gal; Bulgarini Bruno; Cà Lojera;

Cantina di Castelnuovo del Garda; Caorsa; Cascina Maddalena; Citari;

Civielle; Corte Sermana; Don Lorenzo della Grillaia; Fabiano; Feliciana; Fraccaroli;

Frezza; Le Morette – Valerio Zenato; Nunzio Ghiraldi; Malavasi; Marangona;

Montonale; Olivini; Ottella; Pasetto Emilio; Pasini – San Giovanni;

Perla del Garda; Pilandro; Provenza; Selva Capuzza;

Sgreva; Tenuta Roveglia; Villabella; Zamichele.

(P.S. – l’immagine di apertura è tratta da sito di Civiltà del Bere)

Franco Santini

Franco Santini (santini@acquabuona.it), abruzzese, ingegnere per mestiere, giornalista per passione, ha iniziato a scrivere nel 1998 per L’Ente Editoriale dell’Arma dei Carabinieri. Pian piano, da argomenti tecnico-scientifici è passato al vino e all’enogastronomia, e ora non vuol sentire parlare d’altro! Grande conoscitore della realtà vitivinicola abruzzese, sta allargando sempre più i suoi “confini” al resto dell’Italia enoica. Sceglie le sue mète di viaggio a partire dalla superficie vitata del luogo, e costringe la sua povera compagna ad aiutarlo nella missione di tenere alto il consumo medio di vino pro-capite del paese!

1 COMMENT

  1. Bella fotografia della realtà produttiva della zona!
    Domanda interessata: hai assaggiato il nuovo Lugana Freewine di Ancilla, ovvero quello senza solfiti aggiunti?
    Se si, cosa ne pensi?
    Grazie!

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