Il formaggio vi seppellirà. Da Cheese la rivincita di malgari e pastori

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BRA (CN) – L’Italietta dei furbetti del quartierino e dei bunga bunga colma le scrivanie? L’Europa delle multinazionali fa la voce grossa? Togliamo la spoletta e buttiamoci dentro una grossa forma di formaggio: che la rivoluzione abbia inizio. Partendo dall’alpeggio. Non una risata, dunque, seppellirà lo stra-potere (inteso come uso eccessivo e lesivo dei diritti altrui) ma il movimento eversivo di pastori e casari, mandriani e bovari, affinatori e allevatori.

Esageriamo, ma neppure troppo. Da qualche parte dovrà pur iniziare la via del ritorno… Ad esempio lassù, sui pascoli che corrono lungo il confine lombardo delle valli del torrente Bitto (fra Italia e Svizzera), in pascoli arrampicati tra i 1400 e i 2300 metri di altezza, la lotta contro la soppressione delle scelte si fa concreta. La chiamano resistenza casearia. L’ultimo, o il primo (dipende se considerate il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) avamposto contro la globalizzazione che chiede formaggi appiattiti su gusti facili, freschi, light. In una sola parola: industriali.

A Cheese (quest’anno dal 16 al 19 settembre), la mostra mercato casearia a cadenza biennale che Slow Food organizza nella cuneese Bra da sedici anni, la passerella di esperienze e storie di vita era gremita di testimonianze. Da gustare con il palato, il naso e soprattutto, con l’orecchio. Nel gran circo di forme e latticini (187 bancarelle e 44 stand, 48 Presidi italiani e 24 internazionali, 20 nazioni con le proprie eccellenze casearie) sono stati premiati quattro pastori accomunati dalla volontà di salvare un mestiere, oltre che difendere e allo stesso tempo dare lustro al territorio dove lavorano. Beh, a dire il vero se ne è ascoltate delle belle… a partire dai racconti dei “bamboccioni” che si alzano ancor prima del sorgere del sole e invece di spippolare sull’iPhone indossando scomodi calzoni calati sotto la linea della seduta, conducono il gregge al pascolo. Anche se poi finiscono per tenersi in contatto postando su Facebook. E le vacanze non arrivano mai. “Ragazzi del XXI secolo, ma malgari” come si definisce Roberta.

Denis Fourcade, uno dei quattro gratificati, arriva da Oltralpe. È un giovane pastore del Presidio Slow Food dei formaggi di malga del Béarn, sul versante francese dei Pirenei occidentali. Ha scelto di fare questo mestiere a 13 anni, pur non essendo originario della zona e non avendo disponibilità economiche, ma poco alla volta e con grande tenacia ha messo insieme il suo gregge. Fa parte di quel gruppo di ragazzi che in controtendenza hanno deciso di restare in montagna per continuare a produrre un formaggio unico. “Non seguo una particolare filosofia di vita, ma cerco di rispettare

il territorio e le tradizioni, perché ritengo sia la sola strada percorribile. Penso dobbiamo restare fedeli a quel che siamo” ha commentato Denis.

Maddalena Aromatario invece, appartiene a una delle più importanti famiglie di pastori transumanti aquilani e vive tale esperienza fin da piccola. “Dopo aver lavorato come insegnante per alcuni anni, non ho resistito al richiamo della montagna e sono tornata a produrre formaggi con mio fratello Mariano” racconta. Fra ciò di cui va fiera non troviamo solo il canestrato di Castel del Monte, Presidio Slow Food, ma anche caprini e altri formaggi di pecora con il caglio vegetale, prodotti rispolverando un’antica tradizione.

Arrivato in Puglia nel 1999 da Skrapar, Albania, Vullnet Alushani ha iniziato lavorando in agricoltura, come molti suoi connazionali a quel tempo. “Ero un clandestino. Ho raccolto pomodori, agrumi e olive per un bel po’ di tempo, prima di avere la mia grande occasione”, spiega Vullnet. Viene poi assunto nella Masseria Paglicci di Giuseppe Bramante, storico produttore del caciocavallo podolico del Gargano. Oggi Vullnet è un vero maestro nel suo mestiere e si prende cura di 80 vacche podoliche e di 40 capre garganiche.

Celestino Lussiana, 77 anni, originario di Coazze, in Val Sangone, ha dedicato la sua vita alla pastorizia e all’allevamento, preservando la tradizione della produzione del cevrin, un misto di latte vaccino e caprino, tutelato da Slow Food fin dal 2000. Se oggi sui pascoli della valle torinese è ancora possibile vedere le vacche bianche (l’antica razza barà) con la tipica striscia nera laterale, lo dobbiamo anche a lui e alla sua famiglia.

Nella piazza che Cheese ha dedicato alla resistenza casearia abbiamo incontrato Paolo Ciapparelli, presidente dell’associazione dei produttori “Valli del Bitto” e Michele Corti, docente di zootecnia montana presso l’Università degli Studi di Milano. La storia che raccontano (e che potete leggere nel recentissimo “I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva” di Michele Corti, Slow Food Editore, 191 pag, 14.50 euro) narra di calécc (i rifugi di fortuna dove si riparano) e casere (le strutture fisse in sasso, di solito edificate nella parte bassa dell’alpeggio, dove vengono stoccate le forme), di una caseificazione effettuata a caldo nei calécc, mescolando latte vaccino (dall’80 al 90%) e caprino di razza orobica (dal 10 al 20%) munti a mano. La salatura delle forme avviene a secco (ne risulta una crosta più delicata, garanzia di una maturazione migliore) e l’alimentazione dei capi è fatta di sola erba, pena l’esclusione dal consorzio. Esiste una Dop del Bitto, ma questi artigiani del gusto, o come si definiscono loro “ribelli del sapore”, nel 2006 hanno detto no per sempre all’ampliamento del cordone (utile a far entrare dentro interessi che non condividevano) arroccandosi nelle antiche ritualità che risalgono addirittura ai celti, per combattere la loro personale guerra contro lo stra-potere. “Dopo aver arbitrariamente ampliato la zona di produzione del Bitto, introducendo l’uso di mangimi e fermenti selezionati, il nostro caso è l’esempio di come una Dop abbia provato a distruggere un prodotto tradizionale fatto da un piccolo gruppo di uomini – ci ha detto Michele Corti – che ai principi di buono, pulito e giusto credono veramente”.

Per acquisire forza si sono inventati una campagna di azionariato popolare: ciascuna azione costa 150 euro, il prezzo di una libertà che va ben oltre qualsiasi valore. Ma pur avendo essi stessi bisogno di sostegno, a Cheese i cinquanta soci del gruppo Bitto Storico hanno messo all’asta tre forme ultra decennali (dal 1996 al 1998) a favore di colleghi somali. La più vecchia di circa 12 kg ha fruttato da sola 2200 euro, mentre le altre due sono state battute in quarti per un totale di circa 3200 euro.

È proprio il caso di dire “cheese” scattando l’ultima foto ricordo. O la prima. Dipende sempre se il famoso bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto.

Irene Arquint

2 COMMENTS

  1. bellissimo articolo sono stata al Cheese per tre volte ed ogni volta un’emozione grande che cerco di trasmettere al mio rientro agli amici.grande manifestazione grande organizzazione.complimenti a tutti

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