Serego Alighieri, un tuffo nel passato della Valpolicella nobile. Verticale di Amarone della Valpolicella Vaio Armaron

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Un grazie, prima di tutto, ad Andrea che ha accettato di essere nostro inviato per questo interessante evento. Giovane enologo e osservatore sensibile e già acuto di cose vinose, ci regala questo bel racconto

di Andrea Fasolo

Il sole esce con quella sua solita aria timida d’ottobre, in questo lunedì, quasi alla fine del mese. L’arrivo alla Masi Agricola è sotto una bella luce. L’aria fredda è però un po’ umida: non durerà molto il bel tempo. In leggero anticipo, mi accomodo nel salotto appena entrato in Villa. I grandi scaffali in legno scuro, pieni di libri, e qualche bottiglia, e poi l’altro scaffale, con tutte le bottiglie firmate in questi trent’anni dai grandi personaggi insigniti del premio Masi.

Inizia il tour. Presentazione dell’azienda di proprietà della famiglia Boscaini, che diverse generazioni fa acquista il Vaio dei Masi, una valletta da cui parte tutto e estende negli anni i possedimenti arrivando a quasi 520 ha nella sola Verona, a cui si aggiungono le proprietà dei conti Serego Alighieri (di cui parlerò poi), dei conti Bossi Fedrigotti in Trentino, altri pezzi persi per la Toscana (Maremma e Montalcino) e infine in Argentina con Masi Tupungato.

La visita al fruttaio è un’esperienza sensoriale. Quei profumi di uva passa, di legno, di umidità. Corvina, rondinella e molinara. Sono loro le tre regine indiscusse della Valpolicella. Sono loro che unite nel pieno dell’inverno danno vita a quello stupendo esempio di arte enologica che l’uomo possiede quasi naturalmente, quando cresce in ambienti così adatti alla coltivazione della vite. In quei fruttai le uve riposano per circa tre mesi. La pigiatura negli anni in cui l’uva è più matura e asciutta (come la 2011) può avvenire anche poco prima di Natale, o qualche decina di giorni dopo, sino a toccare febbraio per uve provenienti da annate più fredde (come la 2010).

Le sperimentazioni sono in corso, nel fruttaio: sulla genetica e la genomica in particolare. Aspetti su cui si sono fatte grandissimi scoperte negli ultimi anni. E qui si continua, in Masi, nel proprio piccolo, tra impatto della botrite in forma nobile e la comprensione del patrimonio genetico della vite. I risultati spesso finiscono nelle pubblicazioni ai seminari tecnici, a Vinitaly. E così, discese le strette scale che ci hanno portato alle arele (i cassettoni in canna che un tempo servivano d’estate ai bachi da seta, e d’inverno per l’appassimento delle uve, ora condotto anche grazie al NASA, un programma che modifica temperatura e umidità in relazione ad annate storiche come ’88, ’90, ’95 e una media come la ’91) passiamo per la cantina sperimentale, con i microvinificatori e le bottiglie piene di numeri sulle etichette.

La vera cantina di affinamento è labirintica: pareti di bottiglie si alternano a cataste di barrique francesi e fusti veronesi, per finire davanti al grande tino da 500 hl, vicino alle altre grandi botti in Slavonia. Si rimane impressionati. Breve spostamento alla Serego Alighieri, e quel sole debole è già in sciopero. Speriamo bene. Il viale di cipressi è percorso obbligato per accedere al paradiso che ogni villa veneta che si rispetti custodisce, gelosamente protetto nelle corti. Uno dei figli di Dante, Pietro, il 23 aprile 1353 acquista le tenute a Casal dei Ronchi (oggi il loro Recioto porta ancora quel nome).

Purtroppo la sorte a volte può giocare strani scherzi, e fu così che a metà cinquecento gli Alighieri rischiarono di rimanere senza discendenza. Ci provò monsignor Francesco, che vista l’emergenza (il fratello era morto il 31 dicembre 1545, lo zio Jacopo circa un anno prima) si diede da fare con la domestica ma ecco appunto che la fortuna non assiste il canonico, e nascono tre figlie. A quel punto Francesco rinuncia, e lascia in eredità i possedimenti che suo padre Dante III gli aveva lasciato al figlio della cugina Ginevra, nata appunto da Jacopo. Ginevra, andata in sposa nel 1549 a Marcantonio Serego (grande famiglia nobiliare vicentina, conti del Romano Impero, forse una delle più importanti di tutto il Veneto), diede alla luce Pieralvise Serego Alighieri: ecco che gli Alighieri avranno assicurata una discendenza, ed ecco perché il doppio cognome. La villa viene costruita intorno 1752 su progetto di Pietro Ceroni. Siamo ormai alla fine della Serenissima. Nel corso dei secoli si continua il mantenimento dei possedimenti, e la cura dei vigneti e del paesaggio è minuziosamente descritta nei vari documenti, come alcuni contratti di inizio Ottocento in cui si precisano come procurare strope (i legacci naturali ricavati dalla cura delle rive e dei fossi) o come concimare la vite, con erbe e paglie, o infine come debba essere la cura delle marogne.

Veniamo a noi, ai tempi recenti. La pergola di molinara è lì, imperturbabile di fronte alle pazzie dell’uomo, di fronte a due guerre (e nella seconda vi han soggiornato i tedeschi, in villa) di fronte ai cambiamenti di questo clima, la fondazione della Scuola di viticoltura. Quante ne ha viste? Dal 1875 sta lì… La corte è grande, spaziosa. Il portichetto con sotto la vecchia carretta ha le pareti dipinte della malinconia di un tempo che ci manca nostalgicamente. E le scale, con gli scalini tenuti assieme coi ganci di ferro, con la pietra consumata dalle scarpe di chissà quanti contadini, portano in un granaio fuori dal tempo. Le assi si piegano sotto il peso dei passi, e quasi ti chiedi se riescano a sostenere te e tutta quell’uva sui graticci. Il profumo è più debole qui, forse perché c’è più aria che gira, e non ci sono strani computer che controllano tutto. Assaggio la corvina, di nascosto.

Quindici ettari di vigneto ci circondano racchiusi nel brolo, con le tre regine, e la molinara che viene dalle marze prese da quella vecchia pergola. Un altro centinaio di ettari sta lì attorno, di cui un bel pezzo anche a boschivo. L’esperienza dei profumi qui la proviamo in cantina, nella bottaia dove stanno i fusti in ciliegio. Sentori di affumicato, di legno forte, di tostato: sono molto intensi. È il legno di ciliegio che crea quel profumo. Una volta tutti lo usavano, anche perché una volta era una delle coltivazioni principali della Valpolicella. Ora sono rimasti in pochi, per i costi – dura meno del rovere, ed è più costoso – per la porosità che “consuma” più vino. Entriamo nella bella sala: la luce è perfetta, gli animi pronti, e i bicchieri riempiti. Leggo la lista delle annate, e s’inizia (o si riprende?) un tuffo nel passato.

Nel 1450 gli Alighieri acquistarono il Vaio Armaron, questa valletta dal nome che poi si manterrà negli anni e che molto probabilmente contribuì alla nascita del nome Amarone. Non vi starò qui a raccontare dei dati analitici e dei cambiamenti fondamentali che avvengono in appassimento (guai a chi pensa che si tratti di una semplice disidratazione).

Era il 1979. No, è il 1979. È l’Amarone della Valpolicella Vaio Armaron 1979 ad accoglierci. “Accomodatevi, prego.” Colore scarico, trasparente, non troppo denso, mogano brillante. Profumi di caramella, dolci, ad un passo dall’ossidazione. In bocca l’alcol ha un impatto bruciante, il tannino si mostra levigato, integrato nell’acidità. Con l’ossigenazione si apre una balsamicità lieve, che richiama la freschezza della bocca. I rimandi sono di affumicato, legno di ciliegio, ciliegia cotta, visciola, su uno sfondo di frutta candita, cacao. La glicerina dona a questi vini grande ampiezza, anche se ne contiene il colore (ma è uno svantaggio, poi?). Continua quel discorso intrigante tra balsamicità e affumicatura, quasi stessimo odorando un “legno balsamico”. Forse quella sensazione bruciante dell’alcol era semplicemente un’indisposizione mia, un’inadeguatezza di fronte a tanta nobiltà, ancora in perfetto stato, dopo più di trent’anni.

Il Vaio Armaron 1983 ha il compito di destarci da quel sogno e farci proseguire il viaggio. Colore intenso, più scuro. Il naso offre profumi “scuri”, di tarassaco, liquirizia, ciliegia sotto spirito, e quell’impronta del legno di ciliegio. Ancora frutta candita. In bocca sfida l’ossidazione, che qui avverto più consapevole di sé, a bilanciare l’illusione di dolcezza evocata dalla glicerina. Grande freschezza, misurata, e tannini integrati. Evolve su toni scuri, meno cangianti del vino precedente. E questo purtroppo gli farà cedere il passo a molti altri. Un traghettatore modesto.

Vaio Armaron 1988. Intenso e maturo nel colore: saliamo ancora in densità. I profumi che rivela sono evoluti, fiori secchi. Il tannino è ancora molto vivo, meno vellutato dei precedenti. Vive il suo equilibrio tra vegetale e speziato (“tra peperone e pepe”), con qualche guizzo di erbe aromatiche. Svela note di affumicatura, che diventano quasi un’ossidazione misurata. Anche qui l’evoluzione è interessante.

Vaio Armaron 1990. Colore sempre molto intenso, ma cupo. È carnoso, vive meno di leggerezze. È molto denso, lungo: tabacco, frutto carico, che lascia spazio ad una grande concentrazione. Terroso, di radici, quello che viene da pensare. Non ha quella partecipazione travolgente incontrata in precedenza. È profondo, ma finisce coll’essere pesante. Avesse avuto quello slancio…

Vaio Armaron 1995. Il colore rimane molto intenso, ma è più vivo, brillante. Abbiamo nel calice il frutto di questa bizzarra annata. Il profumo è di uvetta, uva passa: lo stesso profumo dolce che senti in fruttaio, di questi tempi. Rimane sul fondo del calice una nota di lampone, che poi torna a nascondersi dietro prugna cotta, visciola. Evolve in continuazione: è ampio, leggero, ha un’acidità incredibile, grande sapidità – ad equilibrare un leggero residuo zuccherino – , con alcolicità e tannino che partecipano silenziosi all’opera. È sempre una grande scommessa, ma credo che altri dieci anni di bottiglia e una buona dose di fortuna forse riusciranno a fargli acquisire una personalità simile al ’79.

Vaio Armaron 1997. Scuro nell’abito, rosso intenso. Ritorna la caramella dolce su uno sfondo affumicato. Ancora amarena, prugna cotta. In bocca mostra un tannino finissimo, molto vivo, così come la componente acida. Continua balsamico, profondo, facendo sentire quasi liquirizia, radici, spezie dolci, che con il tempo si fanno più calde: pepe e chiodi di garofano.

Vaio Armaron 2006. Ricordo quando ne provai una trentina, all’Anteprima. E su alcuni riuscivi a concentrarti e a tirar fuori il luogo da cui nascevano, la compiutezza o meno. Dopo quello che abbiamo provato, un 2006 (e ha già 5 anni…) sembra così giovane, sembra così incompiuto, con quel colore caldo, i profumi vivi, esuberanti, speziati, di frutta fresca e sotto spirito. Un vino estremamente dritto, “citrico”, con un’acidità ancora irruente. Il finale vira su note dolci. Da rivederci tra dieci anni (ma non molto di più, credo).

Vaio Armaron 2007, campione da botte. L’annata è stata più calda della fresca 2006 (era stata piovosa il giusto, non esagerata come la 2010), e gli effetti si notano nel colore più violaceo, nei profumi più maturi, dolci, caldi, ampi e uniti. Ed anche in bocca si rivela già coeso, integrato. Quasi vegetale. Tra pochi mesi, a gennaio, verrà presentato il 2008. Mentre qui si starà imbottigliando il 2007. Tutti i vini sono sopra i 15%, ampiamente sopra i 30 g/l di estratto.

Quando ci troviamo di fronte a grandi espressioni di Amarone stiamo parlando con vini di mirabile forza in un guanto di velluto. Di eleganza e nobiltà.

Serego Alighieri
Via Giare, 277  – 37015 Sant’Ambrogio di Valpolicella (VR)
Tel. 045-7703622
www.seregoalighieri.it

L'AcquaBuona

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