Damasco, “La città che profuma di coriandolo e cannella”

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Del Medio Oriente spesso sappiamo molto poco. Le immagini della televisione ci catapultano in realtà polverose di guerra, persone che urlano, proteste per strada, repressioni, lotte, esplosioni, mitra che sparano in aria per festeggiare, sulla gente per uccidere. No, del Medio Oriente non abbiamo belle immagini. Soltanto il riflesso di profughi e storie di disperazione di coloro che se ne vanno, di quelli che restano e anche di chi accoglie. Tuttavia quei luoghi che occupano la cronaca odierna nascondono qualcosa di più della disperazione che oggi guardiamo attoniti. E così da quella polvere alzata dall’odio si rivelano storie bellissime di giardini meravigliosi, creature mitiche, resti di civiltà antichissime e sapienti, tessuti dai ricami elaborati e un sapore di spezie orientali caratteristico della cucina. Una ricchezza che oggi, nonostante tutto, si mantiene viva ed affascinante, e che trova nella gente della sua terra quelle voci che hanno voglia di raccontare e trasmettere al mondo un’immagine diversa e più vera di quelle terre.

Con questo intento Rafik Schami, scrittore esule dalla Siria per motivi politici, ha scritto il libro “La città che profuma di coriandolo e di cannella”, pubblicato da Garzanti nel 2010 prima degli eventi che recentemente hanno scosso la sua Nazione e ristampato quest’anno nella collana Elefanti bestseller. Il libro nasce da un accordo tra lo scrittore e la sorella Marie Fadel che raccoglie e detta al fratello per telefono le ricette, e non solo quelle. Il testo infatti diventa una guida alternativa che accompagna il lettore tra vicoli, piccole botteghe, tradizioni, personaggi grandi e piccoli di Damasco. Il tutto accompagnato da ricette ricche di sapori che rivelano sapientemente il q.b. di microcosmi urbani e familiari seguendo l’ordine delle portate, dall’antipasto al dolce. Il tutto riadattato a dosi più “occidentali” per quattro o sei persone, dato che spesso, snobbando le moderne dosi macrobiotiche, le porzioni della cucina damascena (eh sì, perché così si chiama tutto ciò che viene da Damasco) sono molto abbondanti.

“Il centro storico ha sette porte e bisogna viverci altrettanti anni per comprenderla”. Così Rafik introduce la sua città. Un luogo affascinante e non semplice dove, secondo la tradizione, Maometto non mise piede in quanto ne rimase affascinato già da lontano a tal punto da dire che l’uomo può andare in paradiso una sola volta. E lui scelse quello dell’aldilà. Nonostante il deserto, nonostante l’acqua in quei luoghi sia stato sempre un bene prezioso, la dedizione e l’amore dei damasceni aveva reso la città un luogo verde, meraviglioso, un gioiello che per secoli ha accolto i visitatori con i suoi meravigliosi giardini. Tuttavia, oltre ai giardini, Damasco ha sempre avuto grande cura e attenzione per il commercio, crocevia di scambi e merci per secoli, tuttora non è da meno. E così, Rafik e Marie accompagnano i lettori, ospiti occasionali del libro, per la via Diritta, un tempo larga ventisei metri, oggi solo dieci per l’intraprendenza (e forse un po’ di avidità) dei suoi commercianti. E da lì, dal quartiere orientale, il binocolo allarga la visuale su un piccolo personaggio, una zia dall’orientaleggiante nome di Salime, sempre allegra ed esperta nel preparare il tabbuleh, un’insalata di prezzemolo. Naturalmente ci sono anche altre verdure, ma ciò che la rende particolare per noi occidentali è la presenza del bulgur. Un po’ dato per scontato, con l’aiuto di Santa Wiki(pedia), ho capito che è un alimento mediorientale tipico costituito da frumento integrale che viene prima cotto al vapore, poi essiccato ed infine macinato e ridotto a piccoli pezzetti. Le dimensioni, da grandi a piccole, variano a seconda dell’utilizzo che ne viene fatto, piatti caldi come il pilaf o freddi come l’insalata del testo.

Tornando indietro negli aromi, nei sapori, e volgendo il passo dalla via Diritta, Marie e Rafik ci conducono poi al vicolo degli Armeni, popolo sfortunato e che, come altri, ha subito persecuzioni fuggendo per poi disperdersi nel mondo, Siria compresa. Così si può cogliere l’occasione di scrutare un po’ nel loro mondo gastronomico e conoscere la pasturma, un prosciutto di manzo essiccato il cui sapore dipende, oltre che naturalmente dall’essiccatura, dallo spessore delle fette che dovrebbe essere sempre molto fine, così come succede per il prosciutto di maiale.

Tornare da lì alla cucina damascena diventa un passo piccolo, come quello per arrivare alla Kasbah e alla stradina di Misk (muschio), piccolo labirinto tranquillo dove abita Alia, ormai donna, un tempo ragazzina di dieci anni affetta da un impietoso cancro che fece decretare ai dottori il verdetto di un anno solo di vita. Tuttavia Alia, forte non solo perché donna ma anche perché amante della vita, ha sconfitto l’amarezza del fantasma della morte col tocco sapiente di spezie e coraggio, mescolando il gusto per la vita con quello dei sapori fino a creare buonissime tasche di pane. Per noi occidentali meglio noto come pane arabo, questo pane non lievitato fa parte della cucina mediorientale senza rispettare i confini che spesso l’uomo può imporre ai suoi consimili, ma non al gusto. Così come in Occidente, in Medio Oriente è sempre stato un alimento importante, irrinunciabile. Tanto per capire di nuovo che tutto il mondo è paese. E se dobbiamo levarci il cappello davanti alla geniale invenzione del conte di Sandwhich che, preso dalla febbre del gioco, per non alzarsi dal tavolo aveva inventato un insolito (per allora) panino, da secoli la cucina damascena utilizza questi dischi non lievitati tagliandoli a metà e riempendoli di verdura, carne di manzo grigliata, aglio, pepe, anche yogurt. Insomma di tutto, e a seconda dei gusti. Alla fine non è altro che la versione originale dell’ormai diffuso kebab.

E dalla via Misk si ritorna di nuovo per la via Diritta, si cammina con Rafik e sua sorella da est ad ovest, da nord a sud, per le strade della città, per i vicoli, spesso per storie di donne, custodi della cucina, della tradizione del gusto damasceno. Alle volte donne imprenditrici, altre volte tradite dal marito o dalla vita, ma sempre donne che non dimenticano che se anche i grandi chef sono uomini, l’arte della cucina è nata e cresciuta sempre tra le braccia di una nonna. E così assaggiamo il fattush, un’insalata di pane, oppure involtini di foglie di vite ripieni di carne, o il manakish bil sa’tar, un pane spennellato con olio d’oliva e sa’tar, miscela di spezie tipica siriana, tuttavia così autoctona che neppure Santa Wiki riesce ad aiutarmi per saperne più di quanto la ricetta stessa non dica. Naturalmente tra le preparazioni non può mancare quella per il classico riso damasceno, che è più un accompagnamento, contorno per piatti a base di verdure, oppure di carne accostata ad uvetta e mandorle. E così via fino ad arrivare a dolci, e strade, e personaggi, e di nuovo sapori e gusti. Il gusto per la vita mediorientale, il concetto di una convivialità alle volte perduta per noi occidentali, spesso dimenticata in nome di rumorose happy hour e piattini più patinati dei vestiti, e più magri che nelle sfilate di moda.

Naturalmente, la cosa più affascinante di tutto il libro è la lista delle spezie e degli alimenti principali. Se ne legge un elenco per noi conosciuto che comprende aglio, timo, origano, zafferano, rosmarino, eccetera. Se ne conoscono le proprietà benefiche e l’origine. Se ne capiscono altri utilizzi. A questi poi si accompagnano spezie più esotiche come il sa’tar e il sommacco, nome che deriva dall’aramaico il che sta ad indicarne la gloriosa origine antica e che proviene da bacche della pianta omonima le quali poi vengono essiccate e macinate. Spezia usata anche in Turchia, sembra che sia quella utilizzata soprattutto per dare al Doener Kebab quel suo particolare aroma.

Tuttavia, come tutte le gite anche quella del libro finisce, e quasi terminate le pagine Marie e Rafik ci salutano con alcune piccole e veloci ricette, pronte ad accogliere con la loro gentilezza damascena un altro ospite tra i loro vicoli, i ricordi e i sapori della loro città, ma lasciandoci dei buoni suggerimenti per ricreare, noi cuochi più o meno provetti, nella nostra bocca e in quella dei nostri amici una Siria diversa. O meglio, forse, la Siria più vera che non quella di una foto di polvere che si alza.

Maria Lucia Nosi

3 COMMENTS

  1. Cara Maria Lucia, la Siria nel cuor mi sta, un cuore che ora duole per come la meschinità umana sappia distruggere le speranze di un mondo migliore (là come qua). Un viaggio improvvisato e assai fai da te, un buon numero di anni fa, mi portò in buona compagnia a girare questo piccolo stupendo paese, talmente ricco di antichità e cultura da far sorridere di fronte a quelli che, con grande sicumera, affermano che l’80% o anche di più del patrimonio culturale mondiale si trova in Italia (e almeno lo tenessimo bene!).

    Damasco, ma anche, o sopratutto, Aleppo, la capitale antica e meno modernizzata, e poi Deir ez-Zor (teatro di un’altra pazzia umana, l’eccidio degli armeni da parte dei turchi), Latakia sul mare e le antiche Dura Europos (macedone, parta e romana) e Palmira (della infedele Zenobia che volle farsi regina contro roma), l’antichissima sumera Mari e l’italica scoperta Ebla, l’Ugarit del più antico alfabeto del mondo… alle Krak des Chevaliers, inseguiti da una frotta di studenti di Damasco (vestiti tutti eguali), la Pasqua passata in un monastero cattolico di rito ortodosso (?!)…

    E poi il cibo, e la gente! Speriamo veramente che presto giustizia e pace prevalgano.

    Za’atar invece che Sa’atr (sai la translitterazione…) e vedrai che lo trovi, anche se su google sembra preda di vegani e altri tipi strani…

    Auguri Sūriyyah!

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