I lieviti degli altri. Lieviti e fermentazioni spontanee al di là del vino. Seconda parte: il pane e la birra

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Riprendiamo il discorso sui lieviti non selezionati e le fermentazioni spontanee iniziato con il precedente articolo, dedicato all’Aceto Balsamico Tradizionale. Parleremo dei lieviti naturali nel mondo del pane e in quello della birra, grazie all’incontro con il panificatore Davide Longoni e con il Birrificio Menaresta.

Il pane

A guidarci nel mondo della panificazione con pasta madre è Davide Longoni, titolare del Panificio Fratelli Longoni di Monza e Carate Brianza. Nel suo laboratorio produce prevalentemente pane e panettoni partendo da pasta madre, e utilizzando sia il forno a legna a cottura indiretta, sia il forno elettrico. Il suo bancone è colmo di grosse forme di pane tonde, che si distinguono per i colori della crosta, leggermente differenti a seconda delle farine usate. Quando lo incontriamo, Davide ci mostra tre recipienti, in cui ha posto i suoi “strumenti del mestiere”: i lieviti madre. Per ogni tipologia di farina, riproduce infatti un differente lievito madre, e quindi ecco gli impasti a base di farina di segale, frumento tenero e grano monococco, mantenuti in impasto assai idratato e pronti ad essere “rinfrescati” e dare origine a nuovo lievito e nuovi pani.

Il lievito madre, (o pasta madre, o pasta acida), spiega Longoni, è stato il primo sistema di lievitazione delle farine, scoperto nelle civiltà cerealitiche dell’Egitto o della Mezzaluna fertile, decine di migliaia di anni fa. Quando si parla di lievitazione, tutti oggi pensano istintivamente al lievito di birra. Ma questo è solo uno dei circa 700 ceppi di lieviti identificati. Nella pasta madre invece sono presenti, oltre a diversi tipi di lieviti, anche numerose famiglie di batteri lattici. La lievitazione a pasta madre è più completa perché se da una parte avviene una fermentazione alcolica dovuta ai lieviti (simili a quelli che fanno fermentare la birra e il vino, i famosi Saccaromices Cerevisiae), dall’altra i batteri lattici integrano e completano la fermentazione, rendendo il prodotto lievitato molto più digeribile, in quanto già lavorato e “semplificato” nella sua struttura molecolare.

Ma dove nasce la pasta madre per il pane? È semplice e complesso allo stesso tempo: dall’aria, si potrebbe dire. Basta infatti lasciare farina impastata con acqua in un ambiente con caratteristiche di temperatura e umidità favorevoli, per far sì che i batteri naturalmente presenti nell’ambiente attacchino gli zuccheri presenti sotto forma di amido nella farina e inizino un processo fermentativo. Le variabili in campo sono numerosissime, visto che tradizionalmente l’inizio del processo (la creazione ex novo di un lievito madre) viene favorito dall’aggiunta di svariati elementi: frutta zuccherina (mele, uva, albicocche…), oppure di batteri lattici (yogurt) oppure di legumi (ceci). Batteri lattici e saccaromiceti, nutriti con gli amidi e gli zuccheri, danno origine alla fermentazione dell’impasto, che inizia a crescere. Il processo è in realtà molto lungo, per il fatto che le paste madri “giovani” sono meno forti nella lievitazione e contengono un patrimonio enzimatico ridotto. Col tempo ogni pasta madre si stabilizza sempre più, grazie ai continui rinfreschi (fatti solo con farina e acqua), e acquisisce una “storia” genetica propria. Ecco perché la pasta madre, in tutte le culture cerealicole viene conservata attentamente, e riprodotta con continuità. Ancora oggi molti fornai, ad esempio della zona di Altamura, o pasticceri del norditalia, portano avanti paste madri tramandate da decenni e a volte anche da centinaia di anni, continuamente rinnovate ma portatrici del bagaglio di ricchezza che il tempo ha donato loro.

Ma se la pasta madre è così importante per la qualità del pane, perché è stata soppiantata dal lievito di birra? Principalmente per motivi di tempo e di uniformità. La pasta madre necessita di lunghe lievitazioni, risente sensibilmente dell’andamento delle stagioni, e con il freddo rallenta molto la sua azione. Ecco perché, per standardizzare e velocizzare il processo di produzione del pane, ha prevalso l’uso del lievito di birra, che garantisce risultati uniformi e protocollabili. Peccato che se ne abusi per massimizzare la velocità di lievitazione, e ne risenta la digeribilità e la qualità organolettica del prodotto.

Nel campo della panificazione è affascinante il discorso sui lieviti, ma anche quello sulle farine. Sempre un maggior numero di panificatori oggi portano avanti una ricerca approfondita sulle farine da grani antichi; Davide Longoni ci mostra i suoi pani; uno di questi è fatto con farina monococco, un cereale antichissimo (triticum monococcum), antenato del farro, coltivato a partire da diecimila anni fa e oggi presente in piccolissime produzioni artigianali. Longoni ci racconta che i grani antichi, che non hanno subito una esasperata selezione genetica, hanno catene proteiche del glutine molto più corte e semplici rispetto ai grani attuali. Per questo motivo risultano nettamente più digeribili e non danno i famosi problemi di intolleranza di cui si parla negli ultimi anni. La selezione spinta di grani in grado di favorire una lievitazione molto voluminosa (come ad esempio nei lievitati per pasticceria, le pizze o in pani particolari, dove le bolle d’aria devono essere molto grosse), ha portato alla creazione di varietà di grano dotate di altissimi valori di glutine (le cosiddette “farine di forza”), ma quel glutine così forte sta dando sempre maggiori problemi all’apparato digestivo umano, che non è dotato degli strumenti adatti per digerirlo.

Ecco perché questa attenzione per i grani antichi. Longoni partecipa a un progetto per cercare di selezionare in loco, nel Parco Sud di Milano e in Brianza, vecchie varietà di frumento per valutarne la resa di panificazione e da riprodurre poi in quantità più importanti in modo da poter produrre con continuità un pane a filiera corta (al momento si sta valutando in particolare il grano tenero di varietà frassineto). Di sicuro è un discorso in fieri con molte incognite: le basse quantità finora prodotte influiscono molto sui prezzi delle farine. Ad esempio la farina di monococco, coltivato con basse rese nella piana bresciana, ha prezzi che si aggirano intorno ai 2,80 euro al chilo, che la rendono una materia prima assai “preziosa”. Eppure Davide prosegue nella sua ricerca, e anzi organizza con passione corsi di panificazione per semplici appassionati o per i partecipanti alla rete dei GAS.

Una cosa in particolare mi ha colpito dell’approccio appassionato di Davide Longoni. A fine chiaccherata, dopo una stretta di mano robusta, mi ha offerto un dono. Un recipiente con il lievito madre. Un dono inaspettato. Un patrimonio di sapere, non custodito gelosamente ma donato con generosità. Un gesto da ricordare.

La birra

Il nostro discorso sull’utilizzo dei lieviti naturali e delle fermentazioni spontanee nei territori gastronomici vicini a quello del vino, trova nella birra un punto in cui convergono diverse strade: se da molti infatti la birra è chiamata il “pane liquido”, per il suo valore nutritivo che deriva dall’utilizzo di cereali (orzo in primis, ma anche il frumento e il farro) e per il fatto che la sua fermentazione nasce dagli stessi ceppi di lieviti sia del pane che del vino (i saccaromices cerevisiae), c’è una tipologia di birra che raddoppia questi legami tra pane, birra e vino. Si tratta dello stile di produzione della birra denominato Lambic. Come ha infatti sottolineato Lorenzo Dabove, grande esperto di birre a livello internazionale, il Lambic è “l’anello mancante tra il vino e la birra”, essendo prodotto per fermentazione spontanea (e non come le altre tipologie, da inoculo di lieviti selezionati). Il Lambic nasce storicamente nella patria delle grandi birre, il Belgio, nel territorio di Bruxelles, ed è uno stile che si caratterizza per una marcata acidità e un gusto secco e vinoso.

Molti birrifici nel mondo producono birre “in stile Lambic” (l’appellativo Lambic si usa propriamente solo per quelle prodotte nella zona tradizionale), ma uno in particolare interessa al nostro discorso per una birra che è l’anello mancante non solo tra il vino e la birra, ma anche tra la birra e il pane. Si tratta del Birrificio Menaresta di Carate Brianza. Proprio dall’incontro con Paolo Longoni, è nata qui la sperimentazione di una birra che, ispirandosi allo stile Lambic, traesse i fermenti per la propria fermentazione da quelli della pasta madre del Panificio Longoni.

È nata così la Birra Madre, in cui il mosto di birra viene inoculato con la pasta madre da panificazione e quindi da tutti i batteri lattici e lieviti lì presenti. Viene prodotta da un 60% di malto d’orzo e un 40% di frumento crudo, e l’aggiunta di luppolo invecchiato (che è meno amaro e apporta proprietà antiossidanti). Dopo l’inoculo con la pasta madre, parte della cotta è messa in barriques scolme (per un periodo di 5 mesi) e una parte invece non fa barrique. All’assaggio è un prodotto assai spiazzante; una birra di colore giallo aranciato, spigolosa e dalla marcata acidità che si rileva anche al naso, insieme ai sentori di agrumi canditi e pompelmo. In bocca è secca e di notevole acidità, ricorda le erbe amare, colpisce per il suo carattere deciso e anticonformista (non facendo rifermentazione, non ha le bollicine) e per la lunga persistenza gustativa. L’alcool è di 4,5-4,8 gradi. 
Davvero un modo interessante per continuare a riflettere sui punti di contiguità tra birra, pane e vino. E sulle possibilità che offrono i lieviti naturali nella produzione di alimenti che si distinguano per personalità, gusto, valore alimentare.

Panificio Longoni
Monza, via Volturno, 37  Tel 039/2305233
Carate Brianza, via Grotte, 2
Tel 0362/903712
www.panificiolongoni.com

Birrificio Menaresta
P.za Risorgimento 1, 20048, Carate Brianza
Tel 0362/900345
www.birrificiomenaresta.com
info@birrificiomenaresta.com

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

8 COMMENTS

  1. Per la mia conoscenza, assai scarsa lo delle birre lo ammetto, ma anche per la mia deformazione professionale , ho il sospetto che la pasta madre sia un pessimo innesco per la fermentazione della birra dato , da quello che leggo, la presenza di molti batteri tendenzialmente origine di aumenti anche nei vini dell’ac. volatile che forse è all’origine di queste asperità che leggo nella tua degustazione. Comunque l’idea mi pare interessante.

  2. Ciao Lamberto, da non tecnico posso solo dire che lo stile Lambic è di per sé spiazzante come stile, e non è per niente facile. Sulle caratteristiche dell’innesco non so, ma nel suo genere quella birra è molto interessante. C’è anche da considerare il fatto che il birrificio Menaresta ha ancora in produzione questa birra, che quindi si è ritagliata una sua fetta di affezionati. La cosa migliore è chiedere direttamente un parere a chi ha “le mani in pasta”. Cerco di contattare Longoni e gli amici del birrificio, in modo che possano dire la loro.
    Paolo

  3. ciao, sono il panificatore che ha collaborato con il birrificio. La presenza di batterei lattici nella pasta madre ha fatto partire fermentazioni “incontrollate” che hanno generato aromi e sapori particolari. devo dire che la birra uscita quest’anno, dopo una permanenza di qualche mese in barrique, risulta essere più armonica. Nelle nostre intenzioni, un pò per gioco, c’era la volontà di cercare un anello di congiunzione tra pane e birra, del resto i monaci trappisti chiamavano la birra pane liquido. Chiedo agli amici birrai di dire la loro.
    saluti

  4. Sono Marco del birrificio. Grazie iinnanzitutto dell’interesse a questo particolarissimo prodotto, a cui vogliamo bene. Non sono il birraio (che lascio di là a far cotta…) ma penso di poter rispondere ugualmente.
    Sì, il “rischio” (tra virgolette) è la produzione di acido volatile (acetico) che però, nella misura assolutamente contenuta in cui si sviluppa, va a far parte proprio del profilo caratteristico di queste birre, dove riesce magicamente ad armonizzarsi con il resto (invito ovviamente ad assaggiare un lambic originale). L’acidità che si sente in bocca, quella sì spiccatissima, è comunque decisamente citrica (la si ritrova anche secondo me in qualche vino), e l’acetico è quasi impercettibile.
    La cosa per noi meravigliosa, da amanti anche di questo territorio (la tanto martoriata e pur ancora bellissima valle del lambro), è che gli stessi sentori di un lambic, tanto acclamati a livello mondiale (non esagero! – parlo ovviamente del piccolissimo mondo degli appassionati-), si ritrovano molto simili in questa nostra birra sperimentale che, badate, NON è a fermentazione spontanea, e possiamo ormai dire (alla quarta cotta in tre anni), pur incrociando le dite per le prossime, che sia riproducibile.
    L’anno scorso poi, e quindi nella madre venuta pronta da poco – in commercio da inizio febbraio – il mosto è stato inoculato con una pasta madre diversa da quella utilizzata per le volte precedenti, multicereale – tra cui monococco – che secondo noi ha fatto tantissimo, e ha eliminato quelle problematicità che si erano riscontrate nelle prime cotte – non l’acido volatile, bensì una presenza al limite del difetto grave di fenolico -. La fermentazione è stata fatta direttamente in barrique – tra l’altro un’ottimo legno con alle spalle tre vinificazioni di nebbiolo della valtellina – e lasciata lì a maturare per quasi un anno – in realtà abbandonata, dimenticata… come si una nei lambic -.
    La versione non barriqué non è più stata fatta – era quella che meno convinceva -, disponibile c’è la versione ferma e quella rifermentata in bottiglia – che in realtà sta ancora maturando – dove abbiamo usato sperimentalmente lievito da rifermentazione per spumanti.
    Credo sia tutto.
    Non resta che assaggiare!

  5. cia,interessanti i tuoi articoli sull’aceto e sulla pasta madre.io ho iniziato per gioco entrambi,da 3 anni ho un ceppo di pasta madre di mia creazione che mi ha letteralmente drogato,nel senso che non riesco piu a mangiare i lievitati con lievito di birra perche sento il sapore di quest’ultimo.
    ho la fortuna di un amico fornaio che mi da la farina miliore che ha per portare avanti le mie panificazioni(pizza e pane ma anche la classica focaccia veneta e il pandoro)
    per quanto riguarda l’aceto lo facevo in damigiana lasciandola semplicemente scolma e senza tappo ma i risultati erano molto altalenanti,poi ho avuto l’idea di inserire un pezzo di pasta mdre molto inacidità e di togliere massimo un litro per volta dalla damigiana ricolmandolo subito con un litro di buon vino…et voilà,il risultato di gusto e acidità si è stabilizzato a meraviglia.
    ora sto aspettando una botticella di legno da 10 litri dove invecchiare qualche mese l’aceto di vino prima di porlo nell’acetiera da tavola.

  6. Ciao Davide, hai ragione, quando uno inizia a farsi il pane con la pasta madre… non riesce più a tornare indietro! Interessante la tua prova con l’aceto. Una cosa che non avevo scritto nell’articolo ma che ho sentito dire da molti: per lo stoccaggio dell’aceto vale il contrario di quello che si fa per il vino. Infatti si dice: il vino in cantina, l’aceto in soffitta. Se infatti il vino preferisce la stabilità di temperature fresche e costanti, il processo di acetificazione viene favorito dalle temperature più elevate e altalenanti.

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