Tavole di primavera/1: Cortona e Montalcino

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Intro

Carlo Monni, l’eccentrico, burbero e bukovskiano attore toscano, volto-feticcio degli esordi cinematografici di Roberto Benigni nonché storico suo collaboratore nelle provocatorie e militanti prime apparizioni TV, in un folgorante sketch che si svolgeva in un fumoso circolino proletario di periferia (eravamo negli anni ’70), dopo lunghi istanti di silenzio propiziatorio, cupo e interiorizzato da parte degli astanti, tutti impegnati nella ricerca della coscienza di classe (che era un po’ come cercar se stessi), si alzava e sbottava: “ la donna, la donna, la donna…… o l’òmo?”. Come a dire: si parla sempre delle esigenze, delle rivendicazioni, della consapevolezza rinnovata delle donne nella società del tempo: ma di quelle “dell’òmo” ci se ne dimentica?

E’ così che, con ardita e surreale corrispondenza intellettuale (ma anche a casaccio, fa lo stesso), mi son chiesto: “qui stiamo sempre a parlare delle esigenze, delle rivendicazioni, delle ragioni e delle coscienze (rinnovate o meno) di un bicchiere di vino. O il cibo?”. Insomma, mi è parso doveroso mettere sul piatto dei ragionamenti alcuni brandelli di suggestioni culinarie in modo meno frammentario del solito. Sostanzialmente per un insopprimibile senso di colpa. E per rendere giustizia a tutte quelle esperienze che soprattutto gli enofili “terminali” come me appaiano (chissà mai perché) ad un contorno, ad un fedele gregario di una corsa vinta da altri. Niente di più sbagliato, a ben vedere: sono proprio quelle esperienza là, quelle con le gambe sotto a un tavolo, quelle che ci si può guardare negli occhi, a fissare i ricordi migliori nel turbinìo di un girovagare fin troppo frenetico. Quando all’accanito lavoro di fanteria, fra vigne e bicchieri, sostituisci per un attimo la bellezza di un momento condiviso, placido, discusso e….mangiato: sì, forse il senso sta tutto lì. Ed è bene non (dis)perderne il messaggio.

Tratteremo, in questa rubrica-contenitore, di esperienze vissute stagione via stagione, per lavoro o per diletto, con la complicità della zoccolo duro esistenziale, di qualche amico o di qualche collega. Ma mai da soli, mai. Una di quelle cose, sedersi da solo in un ristorante, che proprio non mi riesce di imparare. Anzi, che mi fa star male, pure fisicamente, con effetti subitanei incontrollati. Pensa te che bello, per una volta, non aver voglia di imparare!

Metti una sera a cena……. al Falconiere di Cortona (e dintorni)

Parrà strano, ma la cosa che più mi ha colpito dell’esperienza Falconiere e dell’universo Baracchi, al pari della stratificata, raffinata bellezza del contesto e delle storiche architetture, maritate che è tutto dire a una natura prepotentemente viva, è stato scoprire il reale affiatamento di un’intera squadra di lavoro. Qui praticamente ognuno di loro – dall’addetto alla reception, al maitre, al sommelier, alla responsabile della SPA, allo chef e via dicendo- vanta una esperienza pluriennale nella struttura e accanto alla famiglia Baracchi. Insomma, sono lì da sempre, o quasi. Qualcosa vorrà pur dire no?! E infatti il meccanismo dell’accoglienza ne risente eccome, tanta l’oliatura e il rodaggio. Mentre l’energia silenziosa che guida i gesti adeguati nei momenti adeguati fluisce con naturalezza, a rendere meno riverenziale la circostanza di trovarsi in uno dei Relais Chateaux più importanti dell’Italia centrale. Che bello non sentirsi minimamente a disagio! Un traguardo ammirevole. O forse son io che irrimediabilmente invecchio?

Nel frattempo, la cucina di Silvia Regi (chef-patronne nonché moglie di Riccardo Baracchi) e Richard Titi si muove sicura pescando prelibatezze dalla campagna attorno (che è già un po’ Umbria) e restando fedele a una idea di toscanità culinaria sapientemente rivisitata, sfrondata, abbellita, senza che vi si disperdano gli umori più concreti (e veraci) che poi ne caratterizzano pur sempre gli accenti e le elaborazioni. Fra i millanta piatti provati quel giorno, estratti da due menu degustazione di cui uno vegetariano e l’altro carnivoro, fissano il ricordo una sorprendente ribollita con olio frantoiano e cipollina fresca rimodellata nel verso della freschezza, addolcita da una crema di cannellini aggiunta al momento e da una vibrante quenelle di pomodoro. Così come il minihamburger di cinghiale con pane al cacao, grué, verze sott’aceto e salsine assortite, ennesima riproposizione di una pietanza derubricata a junk-food sotto la dittatura “mcdonaldiana” ma che ti fa capire come si possa brillantemente scansare, se solo si volesse, ogni ovvietà e deriva gustativa, o la grande presenza scenica di olio e formaggio nel millefoglie di pane toscano con pecorino mantecato, puntarelle cotte e crude, emulsione di olio e colatura di alici, che orgogliosamente ci ha annunciato la primavera.

E se le pappardelle farcite di pecorino mi han ricordato una manifattura già apprezzata da Pinchiorri un annetto fa, non così il loro corredo (bocconcini di agnello e carciofi alla menta), che ha regalato al piatto una connotazione ibrida primo-secondo che non mi è dispiaciuta affatto. Fra le proposte di carne, spiccava il coniglio ripieno di coratella e pomodoro candito con puré di fagioli cannellini, perché sia pur riproponendo gli stessi comprimari già assaggiati nella ribollita, ci ha pensato l’ardore della carne e delle interiora a scuoterti dal torpore e a scartare di lato.

Ma l’universo Baracchi non si esaurisce certo con Il Falconiere. Non molto distante da lì infatti, ai bordi di una strada di campagna e lungo il corso di un torrentello, poco fuori Cortona, c’è una vecchia locanda, ex mulino di un tempo, riattata amorevolmente dai Baracchi a punto di ristoro. Otto camere ben curate e una cucina orgogliosamente tradizionale (“i piatti che piacciono a Riccardo Baracchi”) proposta in un ambiente caldo e confortevole, mettono a proprio agio ogni tipo di viandante. La Locanda del Molino val bene una sosta, non foss’altro che per il sontuoso fritto di terra, un piatto che ispira i ricordi più intimi e l’istintività la più pura a noi campagnoli di sponda rivierasca, ahimè assai poco riproposto nelle cucine d’oggidì. E se le “tagliatelle più buone del mondo” (l’istrionismo e il carattere spigliato del patron sono ben riflessi dal menu) probabilmente non sono le tagliatelle più buone del mondo, il ragù di coniglio che le accompagna è di quelli seri, cotto lunghissimamente, quasi a succhiare tutti gli umori del mondo da una cucina pensata all’antica, succulenta e compagnona.

E visto che siamo a Cortona, non dimentico la puntata di mezzodì in pieno centro storico (ammazza quanto è bella Cortona, vent’anni che non ci tornavo!): la Taverna Pane e Vino rappresenta un tuffo nella Toscana più autentica. Come stare nel ventre, anzi nella placenta, della vecchia città. Ne senti il battito, il benefico peso del tempo, l’avvolgenza materna. A colpire qui non è tanto la cucina, sincera e concreta, quanto la carta dei vini: un manifesto alla contadinità, con scelte molto ponderate via dalla pazza folla, in cui realmente mi è parso di respirare a pieni polmoni l’Italia vignaiola che piace a noi. Per una volta una certa visione critica, che traspare prepotente dalle pagine della Guida per cui lavoro ( “digiamolo“!), l’ho ritrovata sbandierata lì, peraltro a prezzi calibrati: una manna!

Le cinque giornate di…… Montalcino

La lunga tappa ilcinese affrontata quest’anno per assaggiare tutto lo scibile liquido della zona si è risolta ai primi di maggio. Il tempo è stato dalla nostra parte concedendoci giornate fresche e soleggiate. Respiri aria buona da quelle parti, se hai a disposizione giorni così. Defatiganti e piacevoli le soste mangerecce. Una, più di altre volte, mi ha favorevolmente colpito: Al Giardino di Paola Angelini (sala) e GiovanLuca Di Pirro (cucina), ritornato al vecchio ovile di Piazza Cavour dopo la breve migrazione a Poggio Antico (tanto da chiederti, come refrain di disco rotto: “ma a Poggio Antico come mai non ci resiste nessuno?”). Due “cartellini” timbrati in due giorni diversi e piatti indimenticabili per brillantezza, freschezza, ispirazione: gli agnolotti ripieni di maiale grigio con passatina di fagioli e ristretto di vitello (bis!), lo stupendo carré d’agnello e il riuscitissimo semifreddo di croccantino alle fragole suggellano il ricordo della cucina forse oggi più espressiva del comprensorio (e anche più in là).

Alla sera invece abbiamo ripetutamente testato “l’apparato” gastronomico del borgo-bomboniera di Sant’Angelo in Colle, approdando una volta ancora a Il Leccio della famiglia Tognazzi (ritrovo abituale di un certo Gianfranco Soldera da Case Basse) e al suo pantagruelico fritto di terra (pollo e agnello a go-go), trionfo di verdure incluso. Mentre i pici della casa, elaborati secondo due o tre ricette super classiche del territorio, sanno bene come farsi piacere.

Di pochi fronzoli e più marcata veracità la cucina de Il Pozzo, per inciso il locale storico di Sant’Angelo, dove se ti accosti alla tagliata di manzo non hai da pentirti e dove i pici non temono rivali. Così come non ti penti mai se fai un salto, da parte nostra avvenuto puntualmente, alla Vineria Le Potazzine della famiglia Gorelli  -pure vignaiola- in pieno centro storico di Montalcino: piatti espressi, precisi negli accostamenti, stagionali nella sostanza, semplici ma efficacissimi. E poi, con la virtù innata di non appesantirti, rischio quest’ultimo che con la cucina senese non è da escludersi affatto. E siccome l’occhio vuole la sua parte, ci siamo concessi pure una divagazione dal buon Tullio, a L’Osticcio, dinamica enoteca osteria con vista spaziale sulla vastità dell’Orcia. Qui materie prime di livello propiziano piatti mai scontati, tanto curati nell’aspetto quanto saporiti nella sostanza, sì da distinguersi con merito nel panorama locale.

Citazione a parte merita infine il goloso, traditore ragù di carne di un giorno. Non di ristorante si è trattato, ma della sala da pranzo di una casa normale durante una sera normale, trascorsa in compagnia di gente normale, a respirare gli umori di chi Montalcino la vive davvero. Baricci rappresenta l’ortodossia enologica dei luoghi. I suoi vini un percorso obbligato per chi è alla ricerca dell’autenticità espressiva del sangiovese di lì, senza fronzoli, senza svolazzi. Quella sera il grande vecchio, Nello Baricci, non ha potuto farci compagnia per una influenza birichina. Al tavolo c’erano figlia, genero e nipoti, a cui oggi è affidato il futuro della piccola impresa artigianale. Dalla loro un modo di fare incantato, semplice, quasi ingenuo, senza arrière pensée. Ci si è potuti guardare negli occhi, confrontare e scherzare. Come una sera qualunque. Solo che eravamo nel cuore di Montosoli. E in compagnia di un ragù parlante. Lo scoccare di una scintilla di serenità è avvenuto senza preavviso, a bocca piena.

La foto del ristorante Al Giardino è stata estratta dal sito www.porzionicremona.it

Galleria fotografica: le prime foto dei piatti si riferiscono al ristorante Il Falconiere

FERNANDO PARDINI

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