Ingenuo e struggente: è Dolceacqua. Parte prima: intro

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DOLCEACQUA (IM) – Dolceacqua non è come mi aspettavo, è molto di più. Perché Dolceacqua, a ben vedere, non è solo un vino, ma un modo di viverlo. E’ un microcosmo sospeso fra passato e presente in cui si realizza il miracolo, o l’illusione, di annullare il tempo. In questa strana dimensione spazio-(a)temporale, il vignaiolo assurge a figura chiave di una storia più grande, che abbraccia i destini dei luoghi e delle genti. Un mestiere che ancora oggi, come cento anni fa, lega ingenuità ed intraprendenza con il filo sottile dei lasciti e dei ricordi, di cui il frammentato e magnifico vigneto di Dolceacqua ne è la massima esemplificazione e la testimonianza più preziosa, capace com’è di resistere alle dimenticanze, al disincanto e agli abbandoni. Che qui, come in altre campagne della nostra penisola, hanno generato a suo tempo ferite, abusi, dolorosi cambi di rotta, con gli immancabili e provvidenziali ritorni.

Perché Dolceacqua resiste, più viva e vegeta che mai, risvegliata dal torpore dalle generazioni nuove, ad affiancare l’opera laicamente santa dei padri putativi della denominazione, da Mandino Cane a Enzo Guglielmi, da Antonio Perrino “Testalonga” a Nino Tornatore. Sì perché Dolceacqua in fondo è e resta fondamentalmente terra di vignaioli. Per “straforo”, per passione, per hobby, oltreché per lavoro, coltivare una vigna è una sorta di obbligo morale per la gente del posto, il personale tributo per santificare un’appartenenza. Tutti, o quasi, hanno un fazzoletto di terra su cui poter coltivare la vite. Tutti, o quasi, prima o poi si son trovati a dissotterrare pietre, arrotondare pietre, sistemare pietre, per costruirci i benedetti maixei, i muretti a secco che difendono le “fasce” vitate dai fenomeni erosivi. Qui la dimensione artigianale, nei gesti e nei modi, è amplificata in tutto e per tutto. E’ quasi cumsustanziale alla natura stessa del paesaggio, diviso in cento appezzamenti diversi distribuiti sulle alte colline della Val Nervia e della Val Verbone, caratterizzati da una variabilità geologica e microclimatica stimolante.

Dolceacqua, in fondo, significa unicità di vigneto. Nel senso di singolarità, ovviamente. E’ lui il vero protagonista di questa storia, lui lo scrigno insostituibile di biodiversità. Le centinaia di chilometri di muretti a secco costruiti nei secoli sorreggono sculture naturali incastonate fra roccia e terra: sono gli alberelli di Dolceacqua, ceppi non di rado centenari, in alcuni casi franchi di piede, a costituire un patrimonio viticolo che ha pochi eguali e marca la differenza, e lo fa anche nel grado di immedesimazione di uno scribacchino enoico, che può trovare finalmente qui, a ridosso del confine francese, il senso in più troppe volte evocato e quasi mai concretizzato dal giovane vigneto Italia. Sì, queste opere scultoree naturali da sole valgono il viaggio e contengono le risposte.

Il futuro di questa gente caparbia resta appeso alla fisionomia ingenua e struggente del Rossese, un vino che non gioca la sua partita sugli attributi, sul peso estrattivo, sul colore o sui tannini. Casomai sull’esatto opposto: snellezza, profumi, agilità. E su un caleidoscopio di accenti spesso solo sussurrati e mai impositivi, quasi si trattasse di un soffio di bellezza apparentemente fragile. Alimentati dalla forza ispiratrice dei vari terroir, non sono altro che vini artigiani, per numeri e/o per stile, con le molteplici varianti del caso: da quelli con le proverbiali velature giovanili, scabri e reattivi, rugosi e ruspanti, fino alle espressioni più nette e rifinite. Non sono che l’incanto di un vino sospeso, “finto semplice” per eccellenza, nei casi migliori dotato di una finezza aromatica e di una leggiadria coinvolgenti. La dignità di un prodotto della terra si misura dalla fiera diversità organolettica, non c’entra nulla la complessità. Il Rossese è un vino diverso, questo è, fin troppo sbrigativamente rubricato come una sorta di fratello minore del Pinot Nero o, per altri versi, della Grenache. Nulla di tutto ciò: ristabiliamo le distanze! Restituiamo dignità e “capacità di racconto” -come ci avrebbe detto Gino Veronelli– a questo vino piccolo nei numeri ma immensamente gratificante nella sostanza. Certo 300.000 bottiglie annue sono una goccia nel mare, ma se sono una goccia diversa dalle altre, valgon bene tutto il mare attorno.

Nel frattempo, una girandola di immagini affollano la mente, tutte meritevoli di un pensiero, di una parola. Loro sì che rafforzerebbero l’idea. Eppure, sono restìe come i segreti più intimi a rivelarsi nel tracciato rassicurante di un racconto ordinato. Sono scosse emozionali, piccoli palpiti, impressioni naif come in un quadro di Barbadirame, il pittore bohemien di quei luoghi amico di Picasso. Sono la natura colorata e struggente di San Biagio della Cima, la ginestra e il lentisco, il timo serpillo e l’orchidea selvatica, i preziosi inserti fossili di ostrea acuminata rinvenuti nel terreno del Posaù. Sono gli alberelli “parlanti” e centenari del vigneto Beragna, commovente inno alla perseveranza. Sono un delizioso rosatello d’annata -che mai confluirà in una etichetta – che “il Manciné“, quasi fosse uno strumento di lavoro, si porta appresso sul camioncino per dissetarsi alla bisogna nei primi caldi di giugno. Sono le ”alte vie” liguri, che toccano qui vertici assoluti di bellezza paesaggistica. Sono la bianca vertigine dei calanchi, inattesi e ammonitori sulle alture di Arcagna. E il vento sferzante del pomeriggio, che ti coglie all’improvviso e ti confonde. Sono l’asino “liberato” di Luvaira, custode curioso e impertinente delle colline di Soldano, sono la bicicletta beffarda e visionaria issata sulla cima del campanile di Apricale, sono la bellezza segreta dei carrugi di Dolceacqua, lì dove ti vien più facile l’innamoramento. Sono il respiro autentico dei vini che ho bevuto. Sono il più straordinario coniglio alla Ligure dei ricordi miei, grazie alla mano ispirata di casa Anfosso, gustato nella magia calda e ventosa di una giornata di fine maggio, in buona compagnia. Sì, anche in questo caso ho respirato aria di “cru”, e alla fine del salmo ho realizzato che Dolceacqua non è come mi aspettavo, è molto di più. E’ quello che ci vuole.

Dolceacqua, gli interpreti e i vini: LEGGI QUI

Ringraziamo l’associazione Vigne Storiche di Dolceacqua per l’opportunità offertaci, il supporto logistico e soprattutto umano. Per la caparbietà e la lungimiranza di guardare con umiltà, occhi diversi e rispetto antico al futuro della propria terra.

Galleria Fotografica

FERNANDO PARDINI

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