Risolto, forse, il controsenso psicologico dei grandi chef

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cibo1Ho letto con interesse una serie di articoli apparsi su riviste scientifiche americane e mi sono accorto dello strano comportamento dei grandi chef, quelli dei ristoranti pluristellati; in parole povere, quelli che seguono una legge matematica non semplice a capire: una proporzionalità inversa tra prezzo e quantità di cibo offerto: più si riducono le porzioni e più il conto aumenta (Fig. 1). Tuttavia, il controsenso del titolo non sta in questa legge talmente assurda che sembrerebbe appartenere più alla meccanica quantistica che alla realtà quotidiana. Accettiamola, per adesso, come un dato di fatto. Non mi si dica, però, che le cose buone si devono pagare: questa constatazione non spiega assolutamente la legge di prima. A parità di cibo si potrebbe aumentare il prezzo, ma non diminuire anche la quantità. E’ una forzatura razionalmente inspiegabile.

Veniamo al vero controsenso. L’uomo mangia perché ha fame. Ha fame perché ha bisogno di immagazzinare energia e potere usarla per vivere. Si potrebbe anche dire che vivere implica nuovamente fame e nuovo cibo, ma faremmo mordere la coda al solito serpente. Fermiamoci al bisogno di energia. Il corpo umano è una macchina meravigliosa, la migliore forse costruita dall’Universo (a parte il cervello che deve ancora essere messo un po’ a punto).

Uno strumento perfetto deve essere mantenuto in condizioni perfette. Lo sanno benissimo coloro che riescono a comprarsi una Ferrari… Il problema è che spesso e volentieri la fame gioca brutti scherzi e si abbraccia alla golosità. Di per sé la golosità è un aiuto innato e utilissimo, un istinto fondamentale, dato che se non ci fosse piacere difficilmente si penserebbe alla macchina da nutrire (lo sanno bene quelli che restano senza benzina in autostrada). L’uomo è un animale e quindi ha bisogno di stimoli per eseguire certe operazioni.

Tuttavia, spesso la golosità supera la fame che dovrebbe, invece, solo assecondare. Si mangia troppo e il corpo ha seri problemi a immagazzinare l’energia in sovrannumero. Si ingrassa e si rischiano problemi non indifferenti al motore principale, il cuore, tanto per intenderci. Cosa si sta facendo, allora, in campo scientifico? Si sta sfruttando una celebre illusione ottica, quella di Delboeuf che si può sintetizzare in poche parole: la stessa quantità di cibo (o, in generale, una stessa figura geometrica) appare più grande se inserita in un contenitore più piccolo. La vediamo nella Fig. 2. Tradotta in parole salutistiche, se il cibo viene presentato in piatti più piccoli si crede di aver mangiato di più. Si può quindi dare poco e far credere di dare molto, lottando contro l’obesità dilagante.

cibo2Possiamo quindi dire che i grandi chef seguono una regola completamente opposta. Loro inseriscono la stessa quantità di cibo in piatti sempre più grossi, creando l’illusione di mangiare sempre di meno. Sarebbe una soluzione riprovevole per la salute, se la quantità effettiva fosse superiore alla necessità corporea. Fortunatamente, i grandi chef conoscono i bisogni energetici del corpo umano e, con grande senso altruistico, presentano quantità sempre più irrisorie. Quello che non capisco, però, è perché usano grandi piatti. Potrebbero salvaguardare, ancora meglio, la salute degli avventori  utilizzando piatti piccoli. Darebbero l’idea che il contenuto dei loro giganteschi contenitori sia ben maggiore di quello reale. Prenderebbero due piccioni con una fava: manterrebbero la salute dei clienti (che tornerebbero più spesso) e farebbero apparire le loro razioni più abbondanti di quelle dei loro più accaniti rivali che li superano sempre per mezza stella o per un cappello in più. Ovviamente, questo discorso presuppone che la qualità sia una costante e non venga  influenzata dalla legge rappresentata dalla Fig. 1.

Insomma, un bel controsenso per me… a meno che gli avventori non siano masochisti o che abbiano già deciso di uscire dal ristorante famoso e infilarsi nella pizzeria a fianco per saziare la fame (non la golosità). In altre parole, si potrebbe concludere che andare nei ristoranti più cari e più famosi abbia ben poco a che fare con la fame. Forse è solo golosità? No, non credo, perché la golosità è un istinto che nasce accoppiato alla fame. Troppo elementare per far fare scelte molto pesanti per il portafoglio.

Dobbiamo accettare la conclusione che i ristoranti stellati, con prezzi alti, porzioni minime e piatti giganteschi, agiscano su parti più raffinate del cervello, quali quelle legate al mettersi in mostra, a sentirsi importanti, a seguire le mode o, più terra terra, a non pagare di tasca propria? Nell’ultimo caso, la pizza dopo la cena luculliana sarebbe una spesa accettabile e sufficiente per le esigenze energetiche del corpo.

Non sono, però, pienamente soddisfatto e penso che, in fondo in fondo, i grandi chef conoscano molto bene le illusioni ottiche (non per niente sanno gestire con maestria la rappresentazione esteriore del piatto, l’appagamento puramente visivo). Secondo me usano l’illusione di Ebbinghaus. Un po’ più sottile, ma che in certi casi (guardando le foto dei grandi piatti più acclamati) mi sembra di intuire. In cosa consiste l’illusione di Ebbinghaus? Presto detto. A parità di dimensioni del piatto, un’identica razione di cibo “vero” (ossia quello che toglie la fame), appare più piccola se è circondato da figure geometriche grandi (o anche senza compagnia) di quanto non appaia se circondata da una serie di figure piccole. Lo vediamo nella Fig. 3.cibo3

In realtà, spesso l’unica parte “concreta” di un piatto costosissimo è circondata da tutta una serie di piccole macchie colorate a basso prezzo (foglie di prezzemolo, aceto balsamico non certo tradizionale di Modena, salsine di pomodoro o di altre verdure banalissime, pezzettini di carota, di zucchino, e mille altre diavolerie del genere), Questa seconda illusione aiuterebbe l’appagamento visivo della quantità apparente, put mantenendo immutata la razione complessiva, perfettamente in linea con le migliori intenzioni salutistiche.

Queste farneticazioni a cosa portano: beh… tra piccoli e grandi controsensi fisici e psichici, possiamo considerare i grandi chef come dei veri e propri benefattori dell’umanità e della salute corporea. Essi non giocano in modo rozzo e banale, seguendo Delboeuf, ma in modo psicologicamente più sottile affidandosi a Ebbinghaus. D’altra parte sono o non sono dei maestri del cibo? Resta il trascurabile fatto relativo al prezzo. Ma, come si dice, la salute innanzitutto. Chi sta a guardare la cifra quando sa che sta tenendo a regime la sua magnifica macchina?

Finisco volutamente così, in modo un po’ ambiguo e confuso, questa prima parte. Nella prossima andrò più a fondo e cercherò anche, nel mio piccolo, di fornire un aiuto diretto ai grandi benefattori (ops… chef) che pensano a volte di servire diamanti al posto di legumi, maiale, pollo e altre cose semplici e commestibili da secoli e secoli (cosa si deve fare per la salute…). Affronterò, infatti, il problema dei colori dei piatti, della loro forma e di quella delle posate, del loro peso, ecc., ecc. Tutti risultati descritti in articoli apparsi su riviste scientifiche, ovviamente, di cui darò le referenze, verificabili da chiunque.

Per adesso, buon appetito, pensando alla salute e non al portafoglio!

 

Vincenzo Zappalà

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