Editoriali/Quando sul cibo l’industria s’incazza… anche sul “domenicale”

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graffioLeggiamo con ritardo, come si dice in questi casi, un “graffio”, uscito il 3 novembre scorso sul “domenicale”, glorioso ed antico supplemento culturale del Sole 24 Ore, in cui si prende di mira la recensione di Michele Serra dell’ultimo libro di Carlo Petrini “Cibo e libertà Slow Food: storie di gastronomia per la liberazione”, Giunti pagg.192 euro 12 (ma non, stranamente, il libro stesso.)

Ecco qua: mentre Repubblica nello stesso giorno, mercoledi 30 ottobre, dedica due pagine alla nuova povertà “che secondo l’Istat investe cinque milioni di italiani”, in un lungo articolo, “con snobismo insopportabile, Michele Serra tesseva le lodi di Carlo Petrini e del suo libro Cibo e Libertà. Libertà? Forse, ma solo per loro“. E giù con la sinistra che invece di essere progressista se la gode con “i cibi più cari e prelibati”, giù con i nostalgici insulsi e con le “ideologie antiscientifiche ed antimoderne” a causa delle quali l’Italia si è condannata ad un declino irreversibile. Altro che “graffio”, qua siamo di fronte ad un vero e proprio sbotto!

articolo-serraOra, lungi da noi voler svolgere difese d’ufficio. Capiamo bene che ad intellettuali come Serra si può adattare la battura di Flaiano “non sono comunista perché non me lo posso permettere”. Insomma capiamo che c’è in giro un’opinione talvolta non esattamente positiva su certi personaggi della sinistra mollemente adagiati su comodi divani in case di campagna dai quali, protetti da un “sistema” di case editrici, gruppi editoriali, canali televisivi, pensano di difendere i diritti di chi si ammazza di lavoro vivendo ammassato in palazzoni di periferia quando non deve andare a chiedere un pasto alla Caritas.

E allora decidiamo di andarlo a cercare, lo snobismo di Serra. La recensione (perché “il lungo articolo” è, effettivamente, una recensione del libro) inizia notando come nonostante trabocchi dagli schermi televisivi, del cibo non se ne sa poi molto, mentre si sa tutto dei telefonini e dei tablet che marcano molto di più la nostra individualità. È allora snobismo voler ridare umanità al cibo, voler tratteggiare i volti di chi contribuisce a generarlo? Forse è snobismo citare i concetti marxiani di struttura e sovrastruttura (semmai è un po’ da Bignami, diremmo noi, evidentemente più snob degli snob), contrapporre le multinazionali che brevettano le sementi ai contadini che salvaguardano la varietà? E poi, leggendo, dove sarebbero le lodi ai cibi cari e prelibati?

E il bello è che Petrini nel suo libro rinnega quasi completamente l’aspetto “gaudente” del movimento Slow Food. La liberazione della gastronomia, scrive, è proprio da “quelli che si fermano alla sola apparenza, cioè al giudizio di risultato finale di processi complessi come quelli che trasformano la natura in cibo: alla degustazione di un vino, di un prodotto, di un piatto cucinato dallo chef”. Parla di liberazione di una gastronomia “relegata tra i gourmet che non si chiedevano null’altro che cosa era buono e cosa non lo era” e che si rincoglioniscono tuttora sugli aspetti estetici del cibo e del vino, come gli odori dei frutti di bosco nei vini rossi e della pipì di gatto nel Sauvignon.

Ecco, ci abbiamo provato a trovarlo ‘sto snobismo, mentre sarebbe stato facile liquidare la faccenda non entrando neanche nel merito, ironizzando semplicemente sui settimanali patinati del giornale salmonato dedicati, sostanzialmente, al lusso. Quelli non sono snob, ma semplicemente ed esplicitamente un insulto alla fame ed alla povertà. E se poi uno alla barca o al Suv preferisce investire il suo margine di reddito che oltrepassa la soglia di sopravvivenza in un formaggio d’alpeggio o un salame di Cinta senese, frutto di tradizione e fatica, pagandolo quello che costa (sicuramente più di un insulso prodotto di supermercato, che con le sue dinamiche ne tiene appunto alto il prezzo) e remunerando il giusto chi fa una vita grama per crearlo e produrlo, allora è uno snob.

Ma non è che tanto nervosismo deriva dal fatto che ad una fetta crescente di italiani ormai appare chiaro che il declino del nostro Paese, più che ai nostalgici antiscientifici ed antimoderni, sia da ascrivere più che altro ad un capitalismo bacato e ad industriali rapaci o incapaci (ma più spesso entrambe le cose), che badano sì al progresso, ma dei loro conti in banca (preferibilmente estera), magari a spese dei risparmi (quando non della salute) della collettività? E che forse il declino non si combatte pompando nelle strade sempre più automobili inutili, e che si comprerebbero forse più di cucine invendute se ci fosse un po’ di più  cibo mangiabile in giro?

Insomma va bene, comprendiamo, in tempi di crisi vanno tutelati quando non blindati gli interessi, e in Confindustria l’industria alimentare c’è, magari i fatturati scendono e i Cda sono nervosi con tutta questa gente che dice che il cibo industriale proprio buonissimo e sanissimo non è. Ma poi, al di là di tutto, suvvia, quello della domenica è un supplemento culturale, cerchiamo di tenerlo fuori dalle piccole o grandi beghe.

E rimbocchiamoci le maniche, con onestà. Il problema del cibo più buono e più sano per tutti è più serio e aperto che mai. Allora lavoriamoci tutti quanti, cercando di cambiare strategie e visioni del mondo e tutti ne guadagneremo, anche tanti bravi ed onesti imprenditori.

Riccardo Farchioni

3 COMMENTS

  1. Gentile Riccardo, sono d’accordissimo. Delegittimare chi fa educazione alimentare è la nuova versione del tiro a segno contro quella parte di società che, con tutte le contraddizioni e i limiti insiti in tutti i raggruppamenti umani, più o meno omogenei, si sforza di resistere alla deriva socio-cult-polit…cui assistiamo. E di cui non si parla mai perché, come lo stolto che guarda il dito che indica invece dell’oggetto indicato, abbiamo puntato tutte le nostre attenzioni sull’aspetto economico della crisi. Cioè su uno degli effetti, ben guardandoci dal ricercarne le cause. Petrini è uno di quegli uomini che, per natura, cultura, educazione, si sforza di considerare i fenomeni nella loro complessità; dovremmo farlo tutti, insegnarlo nelle scuole, dove l’attenzione è puntata invece sull’acquisizione di vuote nozioni. Diceva Alberto Savinio, noto liberale, oltre che artista eclettico (musicista, pittore, scrittore, critico musicale), che fa più bene all’intelligenza analizzare un solo argomento da tutti i punti di vista che impararne cento. Ma noi non riusciamo a riflettere un minuto sulla qualità del cibo che mangiamo, sul perché lo mangiamo, sulla sua provenienza, sulla filiera che percorre e i canali che ‘ingrassa’, sulla sua relazione con quel che siamo. Abbiamo perso, in questi ultimi vent’anni, ogni residua capacità di collegare cause ed effetti. E ripreso una feroce guerra contro i simboli non immediatamente decifrabili e traducibili in pulsioni primordiali e contro chi li incarna. Il popolo lo vogliono povero, ma grasso. Meglio un carrello pieno al discount che un paio di buste di cibi buoni. Il Pil cresce (più cibo, più immondizia, più spese mediche per curarsi, più benzina per trasportarsi…) e gli azionisti di riferimento potranno comperare, loro sì e in quantità, il meglio. Grazie e continuo a seguirvi con interesse! Alfredo

  2. Caro Alfredo,

    mi sono preso un po’ di tempo per rispondere al tuo commento bello e dotto del quale ti ringrazio..

    Purtroppo il problema del cibo è dannatamente difficile, è fatto di tante componenti che si fa fatica a mettere insieme. Si potrebbe partire dal titolo di un libro interessante, “9 miliardi a tavola”. Nel 2050 saremo 9 miliardi che vorremo mangiare (e/o mangiare meglio) e il nostro pianeta sarà semplicemente distrutto dall’impatto ambientale della produzione del cibo che si renderà necessaria. Oggi non siamo ancora a quel punto, ma ormai le avvisaglie dell’emergenza ci sono tutte. In un articolo su Il Foglio di sabato scorso si critica la “pasciuta Europa” che boicotta gli Ogm in Africa facendo morire di fame le persone. Allora bisogna pensare, rassegnarsi ad un’Europa e un Nord America bio, e ad un’Africa Ogm? Oppure si può combattare per tutti, se necessario rivoluzionando le leggi di mercato, e aiutando i contadini ad ogni costo, mettendo il loro lavoro al primo posto in ordine di importanza e non all’ultimo come accade oggi, e restituendo la terra alla sua funzione primaria?

    Sarà possibile produrre cibo buono e non infestato dalla chimica per tutta l’umanità? Facciamo un ultimo tentativo di ottimismo e crediamoci. Eliminando gli sprechi che ci sono nelle nostre case, ma combattendo convinciamoci che quello del cibo è un problema che va messo al primo posto, anche a costo, ripeto, di violentare le sacre leggi dell’economia che favoriscono una produzione di massa che comprime la qualità, sottopaga chi fornisce la meteria prima, e arricchisce pochi. Magari usando lo strumento degli aiuti economici ,di stato o non di stato. Forse è poco liberale, ma attualmente vedo poche altre soluzioni.

    Segnalo a questo proposito infine il sempre interessante Forum Internazionale su Alimentazione e Nutrizione curato dal Barilla center for food and nutrition; la quinta edizione ci sarà martedi 26 e mercoledì 27 novembre, e si potrà seguire in streaming sul sito http://www.barillacfn.com/forum/forum-2013/ dove c’è anche tutto il materiale delle edizioni passate. Qui il programma:
    http://www.barillacfn.com/forum/forum-2013/?programma=y

    Un caro saluto a te e grazie per seguirci!
    Riccardo

  3. Caro Riccardo,
    quello che tracci è un percorso che richiede conoscenze approfondite, coscienze vigili e sensibili, e l’abbandono di posizioni preconcette e rigide, pur senza nulla cedere in termini di tensione etica e di direzione verso scelte sostenibili. Ciascuno degli interrogativi che poni apre un vortice (un baratro, direi…) che spaventa quanti vorrebbero veder affrontati i problemi da chi è pagato per farlo e ne constata quotidianamente l’inadeguatezza, se non la volontà di approfittarne, per sé e per quanti gli presentano il conto di sostegni (finanziamenti?) politici. Nessuno può prevedere quello che accadrà quando i troppi poveri si accorgeranno di essere in tanti, abbastanza da trovare il coraggio di fare qualcosa per cambiare le cose. Dubito però che, se ciò accadrà, staremo tutti meglio. Un atto creativo difficilmente nasce dalla disperazione. Nasce dal lavoro, dall’impegno, dall’accumulo di conoscenze e competenze, dalla selezione delle migliori forze. Crediamoci, come dici. Anch’io sono sempre disposto ad un ennesimo atto di fiducia. Ma non mi sembra che il sistema selezioni il meglio. Solo, vedo, il più resistente. Sarebbe bello parlarne davanti ad un buon bicchiere… (senza scomodare Gaber…!).
    Un caro saluto e grazie per il lavoro che fai e che fate!
    Alfredo

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