Riflessioni dopo una delusione vinosa

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Sabato mattina, sono libero dal lavoro e di buonumore, sto andando al mercatino Coldiretti della mia città. Prendo frutta, verdura, un po’ di formaggio, un arrosto di coniglio. Trovo delle albicocche belle mature, per fare la marmellata. Trovo anche il banchetto di un giovane, ha i vini della sua azienda. Me li presenta, orgoglioso dei suoi prodotti, nella fattispecie vini dell’Oltrepo pavese. Offerta speciale, tre bottiglie 8 euro. È lui il produttore, il prezzo, seppur basso, non mi dà adito a particolari sospetti: so che in quella zona ci sono molti produttori in gamba, in grado di fare grandi numeri e quindi ottimi prezzi per vini corretti.

Il caldo mi spinge a propendere per i vini più freschi, chardonnay, pinot nero vinificato in bianco e rosé da pinot nero.
Il rosé è proprio allettante: ha un bel colore aragosta, brillante e ammiccante, mette sete solo a vederlo. Si tratta di un Igt Provincia di Pavia.
Dopo un paio di giorni arrivano in padella le triglie, e l’occasione è giusta per un rosato bello fresco.

Big-Babol-GoggiStappo con difficoltà il tappo in silicone, verso, annuso. E strabuzzo gli occhi. Strabuzzo perché quel che ho nel bicchiere ha un odore che ricorda inequivocabilmente le gomme da masticare Big Babol, che spopolavano negli anni Ottanta. Per dirla papale papale: profumi sintetici alla frutta. La frutta manco vista da lontano; aromi opulenti, caricaturali, fragolosi, dolciastri, falsi come mai. Mi sarò sbagliato. Magari assaggio: residuo zuccherino alto, leggera carbonica, sensazione come di qualcosa di fatto a tavolino. Aspetto ancora un po’ e riannuso: dietro il Big Babol c’è sentore di materiale di cantina lavato male. Riannuso. Nota acetica in sottofondo, camuffata sotto la coltre di fruttato pacchiano. Adesso mi spiego il residuo e l’aroma: un tappeto a tinte forti per nascondere le magagne. Della solforosa per fortuna non ho modo di dire: ne ho bevuto poco, il cerchio alla testa me lo sono evitato.

Voglio la prova del nove, apro lo Chardonnay. Un vino bianco un po’ dolcione (ecco la mano aziendale…),  per niente varietale, potrebbe esser fatto da qualsiasi vitigno: è inespressivo, piatto. Un liquido da tirar giù e basta, e anche qui con un naso traballante tra il nulla e la cantina mal pulita. Dell’altra bottiglia non voglio sapere.

Li mando a far glu glu nel lavandino, il bel rosato aragosta e lo chardonnay dall’espressività abrasa. Ma mi girano oltremodo. Non per gli otto euro, per carità, ma per tante altre considerazioni che faccio.

-Prima di tutto per il sorriso tranquillo del produttore, che evidentemente era proprio convinto di vendere un buon vino. Che vini avrà conosciuto in vita sua? Che idea ha del vino? Perché lo fa?

Poi sul concetto di vino quotidiano: il vino di tutti i giorni non può essere una punizione. Deve essere come minimo pulito e espressivo, altrimenti meglio l’acqua.

-Poi per un’intera zona vinicola come l’Oltrepo, che è dilaniata da sempre dalla compresenza di un grande terroir (e di produttori serissimi) e di tanto, troppo pressappochismo. Il primo passo da fare, il minimo, sarebbe quello di far capire che sotto certi livelli non si può andare, prezzo o non prezzo le puzze di cantina oggi non si possono più tollerare.

-Poi, a quanto pare, per la presenza in giro di ancora troppi enologhi-intruglioni, quelli che il vino non lo fanno, ma lo rattoppano a suon d’aromi quando la sporcizia e la distrazione del produttore fanno nascere vini che vanno definiti con una sola parola: sbagliati.

Una considerazione la vorrei riservare anche al sindacato agricolo ospitante: conviene far entrare nei propri mercati prodotti come questi? Il folklore del “piccolo produttore è bello” regge fino a che il piccolo produttore non mi rifila delle schifezze. Perché poi, allo stesso mercatino c’erano produttori di gran livello, formaggi ottimi, frutta fresca favolosa… Ma uno scivolone come questo getta una cattiva luce su tutti. Non ho voglia di fare il nome dello spacciatore di pinot al chewing gum, il suo caso esemplifica uno stato di cose, purtroppo non è un caso isolato.

Ma mi preme chiudere con un’altra storia.
Proprio in quello stesso mercatino, fino a un mese fa venivano a vendere la carne due ragazzi, fratello e sorella: la loro azienda familiare gestiva eroicamente l’intera filiera: fieno, allevamento bovino, macellazione, frollatura, vendita al dettaglio. Un piccolo miracolo. Le loro carni, oltre ad avere un ottimo prezzo (e sottolineo ottimo prezzo), erano di qualità molto alta. Da un mese non vengono più: non hanno retto le congiunture di mercato, hanno chiuso l’impianto di macellazione, venduto i capi e hanno riconvertito l’azienda alla sola produzione di foraggio. Di loro non ricordo il nome, questo sì che meritava d’esser detto. Anche perché, l’ultimo giorno di mercato, non avevano la faccia da funerale, non si lamentavano. Sono rimasti a vendere gli ultimi tagli di carne con dignità e con fierezza, senza lamentazioni, senza accusare niente e nessuno. Li ricordo con affetto, anche se non ne so il nome. A loro faccio un grosso in bocca al lupo, loro sì ne hanno bisogno.

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

6 COMMENTS

  1. Grazie resoconto interessante.
    Ma perchè quando bisogna criticare un produttore non si ha mai il coraggio di scriverne il nome?
    Questo proprio non lo capisco.
    Un produttore intelligente una critica come questa, costruttiva ed informata, lo apprezza eccome (e magari addrizza la rotta…).
    Purtroppo in questo caso continuerà a fare questi vini perchè nessuno ha il coraggio, soprattutto gli “addetti ai lavori”, di dirgli che il loro vino ha dei problemi.

    Con stima,

    Diego

  2. molto meglio scrivergli in pvt al produttore, perchè lui è convinto di fare buoni prodotti e probabilmente sta facendo grossi sacrifici, perchè fare vino non è semplice per nessuno! in pvt io glielo direi che i vini non erano all’altezza

  3. Caro Diego, la tua obiezione è legittima.
    Sapessi quanto ho riflettuto se mettere o meno il nome del produttore. Ma ho preferito evitare per varie ragioni.
    La prima, come ho già scritto, perché il “brutto incontro” è divenuto spunto per una riflessione più generale.
    Non è questione di coraggio o di non coraggio. Preferisco non utilizzare il cattivo lavoro (o l’ingenuità?) di un produttore per lanciare una gogna pubblica contro lui solo.
    Preferisco andare di persona da quella persona (e ci andrò, naturalmente) e dirgli come ho trovato il suo vino. Anche se temo che rimarrò inascoltato: dal livello di ingenuità che ho visto, questa persona è davvero convinta di fare un buon vino.

    Il problema, purtroppo, è a livello di zona, di Consorzio.
    Se è vero che ci sono zone in Italia che hanno intrapreso congiuntamente un discorso di qualità minima insindacabile (Alto Adige, Bolgheri, Langhe, Franciacorta, Montalcino, Trento metodo classico, Valle d’Aosta… tanto per fare alcuni nomi), in altre vige la mancanza di minimi standard qualitativi. Se hai una metropoli come Milano alle porte, che da secoli ti assorbe tutta la produzione, sia che sia di alta qualità sia che sia di pessima qualità, non sei stimolato a migliorarti, a studiare, a scambiare opinioni, a cercare il mercato. Se ci fai caso, è un problema storico anche per le denominazioni attorno a Roma. E’ qui che secondo me bisogna lavorare: a livello di consorzi. O gli associati capiscono tutti insieme che l’uva bisogna lavorarla bene, perché il danno che fa uno si ripercuote su tutti, oppure non ci sarà una crescita collettiva che genera qualità, e in fin dei conti, reddito.
    Spero in questo di aver lanciato un piccolo spunto di riflessione.

    Grazie per il tuo stimolo e per la tua lettura.
    Con simpatia
    Paolo

  4. racconto interessante, di cui condivido le riflessioni.
    aggiungo che, da friulano espiantato in lombardia (a milano da ormai 40 anni) nutro una vera insofferenza per i vini dell’oltrepo.
    non capisco se, per riuscire a farli – così spesso – tanto cattivi ci mettano più perfidia o incompetenza.
    tant’è.

    quanto alla storiella dei 2 allevatori, temo che al loro tracollo abbia contribuito – in misura forse decisiva – l’assurdo sovraccarico econimico/burocratico che una petulante e ossessiva normativa (sanitaria? mah) impone a chi fa quel mestiere.
    siamo l’unico paese d’europa in cui – pretendendo di difendere la salute dei consumatori – si sta lentamente, ma inesorabilmente, uccidendo tradizione e patrimonio artigianale nell’agro alimentare

  5. Caro Andrea, sì, purtroppo la cattiva fama di molti vini dell’Oltrepo fa danno all’intero territorio. Eppure… Eppure è una zona straordinaria in cui lavorano tanti ottimi produttori. Penso ai metodo classico di Anteo, penso al bianco di Ca’ Boffenisio che mi ha letteralmente lasciato a bocca aperta proprio due giorni fa, penso alla barbera di Ca’ del Ge’, a un pinot grigio di Baruffaldi che mi aveva stregato l’anno scorso… Penso anche all’articolo di Fernando Pardini su questa testata, dedicato a Andrea Picchioni (https://www.acquabuona.it/2013/11/andrea-picchioni-il-volto-pulito-delloltrepo/). E chissà quanti altri ce ne sono, che meritano di esser conosciuti. Ad esempio, proprio in Oltrepò ho assaggiato il miglior “vino della casa” che io ricordi: al ristorante Buscone, sopra Varzi. Per questo da parte mia rimane sempre una curiosità di fondo verso quel territorio, perché basta passare attraverso le sue strade, le sue colline, per capire che è un terroir fenomenale. Quindi spazio a chi lavora bene!

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