Festival Internazionale della Birra di Prato 2014: alcuni assaggi

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ingressoPRATO – Una volta tanto il navigatore ha toppato. Fortunatamente il sito dell’evento riportava altre indicazioni utili al raggiungimento per cui sono arrivato circa un’ora in ritardo rispetto alla tabella di marcia. Male, anzi malissimo, una preziosissima ora in meno a disposizione perché nel pomeriggio era previsto un salto a Firenze all’evento sull’Annuario dei Vini Italiani di Luca Maroni, giusto per non farsi mancare nulla.

Dal 11 al 14 dicembre nell’area Fabbricone, un grande magazzino diviso in due aree principali, ha raccolto il popolo birrofilo in un’impegnativa quattro giorni. All’ingresso, quasi a ricordare il monito che è saggio bere a stomaco pieno, si trovava un’area street food piuttosto variegata e allettante mentre, nella sala principale, due lunghe file di spine erano pronte a mescere le oltre 100 birre provenienti da tutto il mondo. Un zona intermedia ospitava il beer shop, un’idea valida anche per qualche regalo data le vicinanza del Natale. Simpatiche e divertenti le decorazioni con le frasi di personaggi famosi inerenti il mondo birrario.

lista birreDopo un primo giro di birre urgeva riaffondare i denti in qualcosa di solido così, nell’imbarazzo della scelta, ho optato per prodotti fuori regione, con sommo gaudio dello scrivente. Ho iniziato con un paio di cartocci delle “pallette di Giorgio”: olive ascolane fatte in casa nella versione classica e in quella formaggio e tartufo oltre qualche cremino per rispettare la tradizione. Di olive ascolane ne ho assaggiate diverse in vita mia ma buone come queste non mi erano mai capitate. Oltre il ripieno gustoso ed equilibrato, quello che mi ha colpito è stata la sottilissima doratura che ricopriva le olive: erano così croccanti e leggere che solo il vuoto del cartoccio interrompeva l’automatismo del braccio (e della mandibola). Quelle al formaggio e tartufo poi sono state una vera libidine, sempre che a uno piaccia il famoso e odoroso fungo tuberaceo.

Altra gustosa scoperta è stato il “Trapizzino”: un triangolo concavo di pasta di pizza, preparata con farine macinate a pietra e lievitate con lievito madre, riempito a piacimento del cliente tra le varie proposte al banco. Nell’occasione la scelta poteva essere tra pollo alla cacciatora, parmigiana di melanzane, coda alla vaccinara e doppia panna (stracciatella di burrata e alici del Cantabrico). Ho optato per gli ultimi due gusti e, al di là della squisitezza della farcitura, sono rimasto stupito dalla qualità della pasta, soffice e friabile come nelle migliori pizze, non a caso le “mani in pasta” ce l’ha messe un pizzaiolo pluripremiato…

Queste le birre bevute, perché dire degustate sarebbe un eufemismo, in maggioranza straniere:

BREWDOG DEAD PONY (3,8°): session ipa. Naso ampio di agrumi esotici, ananas e un tocco di uva fragola e ricordi resinosi. La bassa gradazione alcolica, la discreta luppolatura e una fine effervescenza la rendono una birra molto beverina, una vera session beer.

BREWDOG PUNK IPA (5,4°): i luppoli promotori di frutta tropicale e agrumata si fanno sentire ma in modo garbato, come le note di pino e maltate. La bocca è sempre piuttosto controllata negli aromi ma dotata di una buona rotondità e un discreto equilibrio generale. Sul finale torna l’amaro a pulire.

spineBREWDOG BRIXTON PORTER (5°): la schiuma è evanescente mentre il naso alterna note di caffè macchiato a liquirizia, più leggere quelle di frutta secca, cioccolata amara ricordi ematici tipo la carne appena tagliata sul banco del macellaio. In bocca scivola via leggiadra su sentori tostati di legno e caffè ben espressi e col giusto amaricante.

MOOR ILLUSION (4,5°): black ipa, una tipologia poco in voga, molto dark e dotata di cappello abbondante e persistente. Al naso il pompelmo domina sul litchi, fievoli i profumi resinosi, tenui i sentori di torrefazione e di malto. Bocca più marcata sulle note tostate di caffè e con finale discretamente amaro.

MOOR REVIVAL (3,8°): bitter. Dorata dai riflessi aranciati, cappello bianco brillante persistente. Le componenti di agrumi e di erbaceo dei luppoli si sentono bene sia al naso che al palato, non male anche il sentore biscottato del malto. Buon equilibrio generale e mediamente amara. Decisamente beverina grazie anche ad una buona carbonazione.

ST. AUSTELL PROPER JOB (5,5°): cornish ipa. Si presenta dorata con leggeri sentori fruttati di susina gialla e melone  specialmente, note erbacee, pop corn, e una punta di miele. In bocca è corrispondente e molto scorrevole, interessante il contrasto tra sentori dolci maltati e l’amaro persistente in sottofondo che chiude deciso.

MAXLRAINER SCHLOSS GOLD (5,3°): Dortmunder Helles. Sentori delicati di fieno, frumento, malto e miele; bocca equilibrata su note dolci da malto che ricordano miele di castagno sul finale. Debole la luppolatura, niente male la beva.

RIDGEWAY BLUE (5°): bitter. Di un bel dorato con schiuma modesta ma duratura. Naso erbaceo luppolato, fieno e dai classici sentori maltati. Al palato è armonica, incentrata sugli aromi caramellati del malto, ed estremamente facile da bere grazie ad una leggerissima carbonazione e all’amaro accennato. Ridgeway è il più piccolo birrificio di Oxford.

olive ascolaneST. PETER’S ORGANIC ALE (4,5°): bitter. Leggermente ambrata e con cappello evanescente. Tra i sentori delicati di frutta e malto si percepisce uno spunto affumicato. In bocca l’amaro del luppolo è deciso ma ben supportato dalle note maltate che ricordano il toffee, dimostra una certa rotondità e una buona persistenza.

ST. PETER’S CREAM STOUT (6,5°): molto scura, con riflessi mogano e cappello sottile. Profumi di malti tostati con polvere di caffè e cioccolata extra fondente soprattutto. Bocca molto fedele all’olfatto, rotonda e con un buon gioco tra dolce e amaro. Sul finale anche ricordi di castagna. Persistente.

ST. PETER’S RUBY RED ALE (4,3°): bitter. Mogano scuro con cappello esile, naso piuttosto delicato di malto caramellato con soffi tostati e terrosi. Corpo di medio spessore, finisce piacevolmente secca sul finale.

trapizzinoENGEL (7,2°): heller bock. Ambrata scura dalla schiuma persistente. Naso con eleganti note maltate, ricordi di frumento e leggero floreale di luppolo. Bocca basata sui sentori caramellati del malto con un amaro leggero ma quanto basta a favorirne la beva. Alcol ben mascherato.

MOA 12 PLATO (5°): american pale ale. Dorata con sfumature arancio e cappello bianco persistente. Naso fedele allo stile american pale ale con il fruttato prevalentemente sugli agrumi e note dolci da malti caramellati. Idem in bocca, buon equilibrio complessivo anche se l’avrei preferita con un pizzico di amaro in più. Persistente.

BADALA’ GEA (5°): american pale ale. Chiara e opalescente, una apa non troppo spinta sui luppoli e adeguatamente bilanciata dal malto. Bocca molto scorrevole, con una nota agrumata che le dona lunghezza e un amaro non invasivo.

BADALA’ STROBI (5,3°): bitter ale, aranciata nelle sfumature. Sottofondo maltato e luppolo in evidenza. Di buon corpo, regna l’equilibrio tra il dolce e l’amaro. Piacevole e persistente.

ROGUE HAZELNUT BROWN NECTAR (6,2°): brown ale. Ambrata scura dal cappello nocciola. Naso caldo sulle note maltate/nocciolate (ovviamente…), un tocco di cioccolata e un leggero erbaceo a rinfrescare. Al palato dominano i sentori maltati con incursioni anche torbate. Sul finale una buona acidità aiuta a pulire la bocca.

Ci sarebbe stato molto altro da bere, ma il tempo è tiranno ed altri liquidi alcolici mi attendevano in quel di Firenze. Sicuramente un appuntamento da segnare sull’agenda e approfondire il prossimo anno.

Leonardo Mazzanti

Leonardo Mazzanti (mazzanti@acquabuona.it): viareggino…”di scoglio”, poiché cresciuto a Livorno. Da quando in giovane età gli fecero assaggiare vini qualitativamente interessanti si è fatto prendere da una insanabile/insaziabile voglia di esplorare quanto più possibile del “bevibile enologico”. Questa grande passione è ovviamente sfociata in un diploma di sommelier e nella guida per diversi anni di un Club Go Wine a Livorno. Riposti nel cassetto i sogni di sportivo professionista, continua nella attività agonistica per bilanciare le forti “pressioni” enogastronomiche.

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