Vecchio Mondo vs Nuovo Mondo: segnali di avvicinamento?

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Terroirist vs antiterroirist. Paladini del terroir vs l’accoppiata magica vitigno/enologo. Così la stampa specializzata d’oltreoceano era solita introdurre il confronto fra il vino europeo (“vecchio mondo”) e quello di nazioni come USA, Australia, Nuova Zelanda, Cile, Argentina, Sudafrica,  nel complesso ribattezzate come “nuovo mondo enologico”. Un accostamento di termini che spiegava le differenze tra due modi molto diversi di concepire il vino: da un lato storia, tradizione, artigianalità e radicamento territoriale; dall’altro marketing, immagine, economie di scala e approccio “vitigno-centrico”.

Qualcosa però ultimamente sta cambiando. Sono sempre di più i segnali di avvicinamento tra i due mondi. Se qualche anno fa erano molti nostri viticoltori che – inseguendo le chimere di un mercato globale del tutto-e-subito – scimmiottavano gli opulenti, piacioni, iper-profumati “vini degli altri”, ultimamente sembra in atto una conversione al contrario. Ma andiamo per ordine.

L’immaginario più diffuso, che provo banalmente a sintetizzare, vede i vini del nuovo mondo puntare su profumi, concentrazione, frutto, morbidezza, potenza del gusto e della struttura. Il territorio conta fino a un certo punto e sono senz’altro il vitigno e l’enologo a giocare i ruoli da protagonista. Il primo, selezionato su una base ristretta (i cosiddetti vitigni internazionali), è scelto per l’appeal commerciale e per la capacità di esprimere le sue caratteristiche organolettiche un po’ ovunque, anche in situazioni climatiche e geologiche assai diverse; il secondo è chiamato a valorizzare gli aspetti più immediati e d’impatto sul bevitore, applicando magari “ricette” di successo valide a tutte le latitudini e ricorrendo a tecniche moderne ed invasive che stravolgono la materia prima e la omologano.  Sono vini dagli “effetti speciali”, ottenuti da pratiche di vigna e di cantina standardizzanti e pensate apposta per impressionare il degustatore locale, il quale, nella normalità dei casi, vede il vino come una bevanda fra tante da sorseggiare in compagnia e non come la naturale estensione del pasto. Insomma, come qualcuno ha brillantemente detto, “vini da medaglia e non da tovaglia”.

Questa impostazione stilistica ha condotto i vini del nuovo mondo ad assomigliarsi un po’ tutti, indistinguibili territorialmente e assai simili organoletticamente. Al punto che tra gli addetti a lavori l’aggettivo “internazionale” ha assunto – e conserva ampiamente tutt’oggi – una connotazione dispregiativa, a voler indicare tutti quei prodotti ben confezionati, ma standardizzati e con un’intensità espressiva caricaturale: fin troppo colorati, fin troppo profumati, pieni di note dolci di legno nuovo e dai tannini “morbidoni”.

New-World-Old-World-Wine-MapIn questi ultimi anni però la distanza stilistica tra Vecchio e Nuovo sembra ridursi e sono sempre più numerosi i vini stranieri che assomigliano a quelli europei, con Francia ed Italia come naturale modello.

Vini “normodotati”, più semplici e leggeri, più gastronomici, che possano coniugare piacevolezza e qualità, senza anestetizzare la bocca ma anzi preparandola al pasto. L’idea che mi son fatto, leggendo in giro e assaggiando qua e là, è che vi sia in atto un processo di “normalizzazione” un po’ ovunque, magari sulla spinta di un cambiamento di stile nei consumi (che rivaluta il ruolo del vino come “ministro” della tavola) e di un progressivo spostamento dei vigneti verso zone con clima più fresco.

Non ho un quadro globale ma per esperienza diretta posso accennare ad alcune realtà come l’Argentina, il Sudafrica o l’Australia. In Argentina sono sempre più frequenti i Malbec freschi e fruttati, di discreta agilità, molto eleganti e piacevoli, specie se provenienti dalle zone più “estreme” a ridosso delle Ande, con vigneti che si spingono anche oltre i 1.500 metri di altitudine. Il Sudafrica sforna, dalle regioni classiche del circondario di Cape Town, vini territoriali e sapidi, ingiustamente sottovaluti sul mercato europeo (e con alcune chicche di livello assoluto, come gli splendidi Chardonnay e Pinot Nero di Hamilton Russell). In Australia infine iniziano a girare vini rossi più snelli ed eleganti: poco alcol, tanta acidità, molto bilanciati e non sovraestratti. Prendiamo lo Shiraz, che è il vino simbolo della regione: alcune giovani aziende che vinificano sulle colline intorno ad Adelaide (mio cugino vive lì e mi aggiorna in materia…) addirittura hanno iniziato ad etichettare i loro vini con il termine originale francese Sirah, proprio a voler sottolineare questo cambio di stile.

Insomma, i due mondi si avvicinano e sarà sempre più frequente in futuro trovare vini che puntano su bevibilità e naturalezza espressiva anche nei lontani territori d’oltremare.

Franco Santini

Franco Santini (santini@acquabuona.it), abruzzese, ingegnere per mestiere, giornalista per passione, ha iniziato a scrivere nel 1998 per L’Ente Editoriale dell’Arma dei Carabinieri. Pian piano, da argomenti tecnico-scientifici è passato al vino e all’enogastronomia, e ora non vuol sentire parlare d’altro! Grande conoscitore della realtà vitivinicola abruzzese, sta allargando sempre più i suoi “confini” al resto dell’Italia enoica. Sceglie le sue mète di viaggio a partire dalla superficie vitata del luogo, e costringe la sua povera compagna ad aiutarlo nella missione di tenere alto il consumo medio di vino pro-capite del paese!

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