L’enologia della gioia sui Colli Piacentini: Graziano Terzoni, Podere Pavolini

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Nel mondo del vino a volte capita di avere la fortuna di incontrare veri e propri capofila, personaggi fuori dal coro che aprono nuove strade, vignaioli e enologi costantemente alla ricerca di un nuovo sapere, di nuove strade, trascinati da un amore viscerale per il vino e per la conoscenza. Graziano Terzoni è senza dubbio uno di questi. Un innovatore, un capofila, forse un eretico. Mai appiattito sui risultati ottenuti. Per intendersi, ha la forza comunicativa di un Walter Massa e la carica innovatrice di un Silvano Bolmida. La sua tenuta si chiama Podere Pavolini ed è a Bacedasco Alto, nelle colline piacentine.
La sua cantina non brilla certo per la bellezza architettonica, ma è una questione di priorità: Graziano è un uomo di sostanza, e incontrarlo per conoscerlo e vedere il suo metodo di lavoro vale il viaggio e molto più.
Terzoni BadessaL’ho incontrato in un giorno di giugno, presentandomi in bicicletta davanti alla sua cantina; ad attendermi c’era lui, un tavolo e una sola bottiglia da assaggiare. Una malvasia rifermentata in bottiglia. E non era poco, anzi era tantissimo. Era la sua provocazione per rompere il ghiaccio, per mettere alla prova l’interlocutore: se mi aspettavo tanti vini da assaggiare, ecco invece le sue bollicine base. Davanti a me, prima ancora di aprirla, quella bottiglia, c’era un uomo che raccontava non un vino, ma una vita. Gli studi enologici ad Alba, i terreni del padre Luigi che vendeva vino sfuso, la voglia di distaccarsi dalle regole codificate e inseguire la propria intuizione. Gli errori, e la voglia di trovare sempre una via nuova, la convinzione galileiana che nel vino non c’è un’unica dogmatica maniera per affrontare i vitigni e i territori, ma ci sono tanti microcosmi dove le differenze date dalla biologia, dai terreni, dalle interpretazioni di chi alleva e vinifica il frutto della vite danno origine a mirabili alchimie di libertà, come espressioni musicali nuove. Nuove strade, quindi. Basta saperle cercare.
In questo senso ecco nel bicchiere il giallo paglierino del Badessa Santa Franca 2013 Malvasia DOC dei colli Piacentini.
Il nome Badessa strizza l’occhio al famoso abate francese appassionato di rifermentazioni in bottiglia, Dom Perignon: «Sì, sono uve aromatiche trattate da champagne!» afferma con fare sornione. Il perlage è finissimo e persistente, ha un naso fresco e marino, dove emergono con levità, non con piglio totalizzante, le note varietali aromatiche della malvasia assieme a sentori erbacei freschi. In bocca è setoso, freschissimo, espressivo e fitto, di gran lunghezza. Un vino dalla leggerezza sorprendente pur con una pienezza gustativa spettacolare, da abbinare agli affettati, conviviale e sereno.

L’approccio di Graziano Terzoni al vino, e soprattutto alle bollicine, parte dalla lezione francese: «Lo Champagne non è un vino, è una bibita. È la più grande bibita di questo mondo!» E in questa frase che può sembrare provocatoria, si ritrovano tutto il suo amore per le bollicine d’oltralpe, e la convinzione dell’importanza della mano dell’uomo nella vinificazione. Per Graziano il vino è una sintesi tra natura e cultura, una mediazione indispensabile dove la mano del vinificatore deve avere l’esperienza del passato e l’intelligenza di una ricerca ininterrotta.
«Lo Champagne ha 300 anni di storia, un tesoro inestimabile in termini di conoscenze; ma se mettessimo in pratica acriticamente il loro metodo, saremmo destinati al fallimento: guardate i dati sulla latitudine, sulla tipologia di insolazione, sui tempi di maturazione. In Champagne lavorano al limite settentrionale dell’area in cui la vite può sopravvivere; le condizioni di temperatura e di insolazione danno luogo a una maturazione fenolica e alcolica in tempi lunghi. Se invece guardiamo al nostro clima, per avere l’acidità dello champagne dovremmo vendemmiare a inizio agosto, quando gli aromi sono crudi. È per questo che bisogna cambiare approccio a seconda del luogo».

metodo classicoEcco un passaggio-chiave: «Bisogna lavorare sulla fisica e sulla biologia. Per ottenere tutti i miei spumanti (oltre alla Badessa produce il Lady Giò, un brut da uve chardonnay, il Lady Giò rosé e il Les Rois pas dosé, oltre ad altri vini che spumantizza per conto terzi) utilizzo solo il fiore dell’uva, senza schiacciare troppo le bucce; schiacciare le bucce comporterebbe tirar fuori il potassio, che abbassa l’acidità. Ci vogliono macchine delicate che non schiacciano e non tirano dentro i tannini».
«Non uso pompe per spostare i mosti, per non fare violenza a quel prezioso liquido, in vigna sono in fase di conversione bio, ho smesso di usare i sistemici, ma non credo nei vini “naturali”; credo nell’intelligenza di chi l’uva la porta in cantina e la vinifica con esperienza, conoscendone la fisica e la biologia. Non faccio più i vini per far felici le guide; faccio i vini che rendono felice me. Vini bevibili, non vini da meditazione».
Ancora un sorso di malvasia, per ritornare sul tema dell’acidità dell’uva: «A cose normali l’uva rende circa il 70% in mosto, ma io mi fermo al 50%. Prendere solo il fiore dell’acino dà acidità alta e ph basso (attorno a 3), e i miei spumanti fanno tutti la malolattica. La malolattica non svolta comporterebbe ruvidità e note amare nel vino».
E pensare che questa malvasia spettacolare di listino costa 6 euro più iva.
«Non mi interessano i soldi. Sono una mosca bianca, sono un originale. Io voglio saperle le cose. Un pianista non sarà mai in grado di lasciare la sua bravura ai figli. Perché accumulare tesori?»

Se gli si chiede da cosa nasce il suo amore per le bollicine e la rifermentazione in bottiglia, risponde che è una cosa atavica legata al territorio piacentino, dove fino agli anni ’60 del ‘900 praticamente tutta la produzione di vino era rifermentata in bottiglia con il metodo cosiddetto “ancestrale”. Il territorio che storicamente era appartenuto al Ducato di Parma e Piacenza (che durò da metà del Cinquecento fino al 1859), soprattutto negli anni di Maria Luigia d’Austria, creò le condizioni per valorizzare i prodotti più tipici del territorio. «Qui c’erano le condizioni materiali per generare i tesori della norcineria e della cucina che conosciamo; e di conseguenza anche il vino faceva parte di questo sistema virtuoso, che oggi invece fa così fatica a mantenersi. degorgementSi è perso molto del patrimonio di saperi artigiani della norcineria, così come nel campo del vino l’avvento dell’autoclave ha svilito le potenzialità dei vitigni del territorio. Malvasia, ortrugo, fortana, bonarda, se le alleviamo e vinifichiamo alla maniera dello chardonnay e dei pinot, saranno sempre considerate vitigni inferiori. E invece no. Io voglio valorizzare le loro potenzialità».

Non si smetterebbe mai di stare a parlare con lui. Solo che il tempo stringe, gli impegni incombono… «Hai tempo per un ultimo assaggio? Ti faccio vedere la mia ultima sfida…» .Già tintinnano le chiavi della cantina sotterranea, Graziano sta scendendo le scale sorridendo; in mezzo alle grandi gabbie per il remuage, dove nel silenzio si creano le bollicine di migliaia di bottiglie dal colore dorato, si notano ingegnosi macchinari.
Mi avvicino e noto che sono prototipi unici, alcuni fatti da Graziano stesso, altri realizzati da piccoli geni della meccanica di questa Emilia capace di creare le auto dei sogni. Proprio da Maranello proviene un macchinario in grado di fare il dégorgement à la volée (la delicata operazione della sboccatura degli spumanti) in automatico; di Graziano stesso è invece un prototipo di tavolo-etichettatore che invia le bottiglie al piano inferiore mediante un condotto a tubo; è ancora in fase di perfezionamento, ma vederlo rende l’idea di questo mix tra passione, ingegnosità, voglia di sperimentazione e anche di una sana irriverenza verso le conoscenze date per acquisite.
atto a divenireA proposito, l’ultimo assaggio, un rosso fermo, vendemmia 2014, che riposa in barrique. È ancora in fase di malolattica, quindi il naso e il gusto sono ancora da assestare. Ma la cosa impressionante è il tannino, levigatissimo, elegantissimo. «Indovina un po’… avresti detto che è croatina al 100%?» Uno dei vitigni italiani tra i più tannici e scontrosi… Pura seta, ottenuta lavorando sulla fisica e la biologia, adottando una lunghissima fermentazione con le bucce, 40 giorni a bassissima temperatura. Che si sia trovata un’alternativa al pinot nero in terra piacentina? Vedremo; uscirà nel 2016 con il nome di Tripolo (nome che rimanda alle argille usate per fare i fanghi).

Ci salutiamo con una stretta di mano forte, come fossimo amici da una vita: persone come Graziano non si incontrano molto spesso.
«Questi sono i miei vini, questa è la mia idea. Se poi avrò avuto merito, bene. Altrimenti, andrà bene ugualmente, io sono felice così!»

Podere Pavolini, az. Agricola Terzoni Luigi
loc. Paolini, 3, Bacedasco Alto 29010 Vernasca (Piacenza)
mappa
tel. 0523-895407
info@poderepavolini.it
www.poderepavolini.it

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

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