Toscani a tavola: Fattoria di Fibbiano e Colombaio di Santa Chiara

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2017-07-03-photo-00000068Incontro i fratelli Matteo e Nicola Cantoni di Fattoria Fibbiano tra i tavoli del Mot Bistrot di Milano, cucina semplice e moderna tra ascendenze friulane e altoatesine nella centralissima zona di via della Moscova. Per Matteo è quasi un ritorno a casa. Lo confessa con voce lievemente incrinata dall’emozione. La famiglia, di Sant’Angelo Lodigiano ma originaria di Milano, lavora la terra da sette generazioni. Il nonno produceva ortaggi nella campagna lodigiana che poi vendeva al mercato ortofrutticolo milanese. Negli anni del boom economico allontanò i suoi cinque figli dal contado perché pensava che l’agricoltura non avesse futuro. Matteo diventa ingegnere. Suo padre, oggi settantaquattrenne, lavorava per una multinazionale. Entrambi non hanno però dimenticato le loro origini: «Quando nasci agricoltore lo rimani per sempre», dice Matteo.

2017-07-03-photo-00000070Così, dopo la pensione, il padre di Matteo e Nicola trascina la famiglia in Toscana, comprando un’azienda rimasta invenduta per diciotto anni e trasferendosi definitivamente lì. È il 3 gennaio del 1998. All’inizio Fattoria Fibbiano avrebbe dovuto essere solo una casa per le vacanze, poi sono arrivati l’orto e gli ulivi e infine è diventata la nuova attività di famiglia. «Fibbiano non è semplicemente un’azienda vitivinicola ma una realtà complessa ed ecosostenibile di 74 ettari di cui 20 a vigneto, 4 a oliveto, più il bosco e i seminativi. C’è un casolare in pietra del 1707, forse risalente al 1500, oggi adibito ad agriturismo, e soprattutto una vigna centenaria di sangiovese». Trovano questo vigneto all’atto dell’acquisto, e nonostante alcuni consigli contrari, decidono di conservarla e di curarla. Anzi, partono proprio da qui, all’eredità secolare di una terra, per dare identità alla loro produzione. «Abbiamo percorso la strada dell’autoctono anziché quella dell’internazionale, come invece andava di moda a quei tempi».

Questo vecchio sangiovese, riprodotto a livello clonale, si allunga per due ettari e mezzo su terreni calcarei, di origine marina, ricchi di conchiglie e coralli, tipici della valle dell’Era, che conferiscono ai vini finezza e sapidità più che potenza e struttura. Nasce qui il Terre di Pisa Ceppatella, il rosso più conosciuto dell’azienda. Il 2012, ultima annata messa in commercio (l’affinamento, tra botte grande e bottiglia, dura ben cinque anni), ha densità, equilibrio e un frutto più fresco e fluido che ampio e profondo. Non meno caratterizzato è il nuovo rosso della casa: il Sanforte 2014,  proveniente dall’omonimo vitigno che è un clone di sangiovese. Ha colore più trasparente, un rubino che non arriva al porpora, bella fragranza (profumi di alloro e sottobosco), un tannino fluido e sottile (elemento ricorrente nei vini della casa), sviluppo saporito, molto fresco e naturale.

Tra gli altri vini della gamma, curata dall’enologo Nicola Cantoni, fratello di Matteo, si segnala un’altra novità, il Ciliegiolo 2015 dal piacevole tratto fruttato, e un bianco, il Fonte delle Donne 2016, che è un taglio alla pari di vermentino e colombana. Quest’ultima uva, adattamento locale della verdea, pare sia arrivata a Peccioli nel XVIII secolo per opera di uno dei seguaci del monaco irlandese San Colombano. «Era l’uva che si usava per fare il Vin Santo e che i toscani tradizionalmente appendevano per trasformarla in uva passa per il pranzo di Natale». I Cantoni hanno trovato delle vecchie marze e le hanno riprodotte: un importante lavoro di recupero che li ha insigniti della menzione “coltivatori custodi della colombana” da parte della Regione Toscana. Il Fonte delle Donne è un bianco piacevolmente glicerico, più godibile che sfumato. Era probabilmente destino che fosse proprio questa famiglia lombarda a conservarne la produzione, garantendole futuro e visibilità: San Colombano non è considerato solo il fondatore della città di San Colombano al Lambro, ma anche dell’omonima denominazione di origine, compresa lungo tre province (Milano, Lodi, Pavia) in cui rientra il paese di Sant’Angelo Lodigiano di cui sono originari i Cantoni.

2017-07-04-photo-00000081Sulla tavola del ristorante Capra e Cavoli, tra ombrelloni e piatti vegetariani sempre a Milano in un angolo accogliente dell’Isola, sono protagonisti i bianchi di Vernaccia che la famiglia Logi produce a San Gimignano nella tenuta Colombaio di Santa Chiara. Insieme ai fratelli Giampiero e Stefano, Alessio Logi, enologo, classe 1980, ha preso in mano nel 2000 le redini della tenuta del padre Pietro, ex mezzadro oggi ottantenne ma ancora attivo in cantina che ha sempre venduto l’uva. La tenuta, impreziosita da una pieve romanica del XII secolo di proprietà della famiglia, si estende per una ventina di ettari a conduzione biologica su terreni argilloso-tufacei. Alessio comincia le prime vinificazioni tra il 2002 e il 2003, mentre ancora studia agraria, avvalendosi della consulenza del giovane enologo Nicola Berti, un allievo di Paolo Caciorgna. «Fondamentale è stata poi l’esperienza con il produttore altoatesino Hartmann Donà, che nel 2011 ci ha consigliato di utilizzare macerazioni più breve e legni più grandi, soprattutto per l’Albereta».

2017-07-04-photo-00000082È la Riserva di Vernaccia della casa e viene prodotta con le uve dell’omonimo vigneto. Dal 2013 è affinata in una botte grande da 25 ettolitri anziché in barrique. Il vino ne guadagna in sfumature, finezza, equilibrio. La Vernaccia di San Gimignano Riserva L’Albereta 2014 è un bianco di struttura in cui l’apporto del legno è sapientemente integrato: sempre elegante, mai dominante né monocorde. La pienezza del corpo incontra la finezza delle spezie e una spazialità gustativa dal tratto sapido. È il bianco più ambizioso e “importante” dell’azienda. All’altro capo della produzione c’è un altro cru di Vernaccia agli antipodi stilistici: il Campo della Pieve, il bianco di maggior purezza dell’azienda. Il profilo del 2015 è fragrante, sottile, giocato su precisione varietale e trasparenze gustative. Ha freschezza, sapidità, contrasto. È flessuoso, insinuante, persistente. Davvero invitante.

2017-07-04-photo-00000079La terza Vernaccia della casa, quella più “semplice” – che Alessio non vuole definire “base”, piuttosto “classica” o “tradizionale” –  è la Selvabianca. Prodotta con uve lasciate in cella frigorifera per 24 ore e poi pressate a grappolo intero senza diraspatura («per evitare le parti verdi»), è vinificata in acciaio e affinata in cemento. Tra un “addio al maiale” (insalata al profumo di finocchietto con la marezzatura della ventresca) e una “croccoletta” (cotoletta croccante di sedano rapa) sfila una mini-verticale. La Vernaccia di San Gimignano Selvabianca 2016 ha colore paglierino leggero, naso con profumi di ginestra, palato di buona pienezza, dove il contributo glicerico non sottrae sapore e carattere. La Vernaccia di San Gimignano Selvabianca 2011 ha colore più dorato, note di evoluzione tra nocciola e torba, palato molto denso. Infine, la Vernaccia di San Gimignano Selvabianca 2007 ha colore dorato maturo e vivo, un terziario fascinoso di fiori secchi e nocciola tostata, un palato di buona ricchezza, alcolico senza essere bruciante, di poco allungo ma di buon carattere.

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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