Roma Whisky Festival: reportage dall’evento 2018 by Spirit of Scotland

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04-03-2018-16-05-34È stata davvero un successo la settima edizione del Roma Whisky Festival by Spirit of Scotland tenutasi lo scorso 3 e 4 marzo a Roma presso il Salone delle Fontane all’Eur, suggellato dalla presenza di circa 4500 visitatori, incrementando del 15 per cento l’affluenza del 2017.

Si tratta probabilmente del più importante appuntamento di settore in Italia, nato nel 2012 per mente, mano e passione di Andrea Fofi e Rachel Rennie, a cui si aggiunge la preziosa collaborazione di un “guru” come Pino Perrone e di personaggi come Emiliano Capobianco e Andrea Franco che hanno completato lo staff organizzativo e tecnico fino a rendere questa manifestazione un Festival di rilievo internazionale per tutti gli appassionati di whisky.

Personalmente non ho la preparazione sufficiente per raccontare in modo approfondito una materia a cui mi sono avvicinato da poco, quella dei distillati, che però mi sta appassionando sempre più; già parlando di enogastronomia professo umiltà nonostante i numerosi corsi di formazione e approfondimento che ho seguito per scriverne almeno con un minimo di preparazione. Cercherò quindi di raccontare questa emozionante esperienza tra i banchi del Roma Whisky Festival con l’approccio istintivo dell’appassionato, puntando più sulle storie dei protagonisti che sulle sfumature organolettiche degli shots.

img-20180320-wa0005Una di queste storie riguarda ad esempio il Flóki Whisky della distilleria islandese Eimverk di Garðabær, fondata nel 2009 a conduzione familiare, è la prima e unica distilleria di whisky in Islanda che produce alcolici esclusivamente con orzo islandese, tra cui spicca anche il gin Vor prodotto in tre tipologie e l’acquavite Viti, tutti ottenuti con l’ausilio di erbe e piante autoctone. Ci sono voluti 4 anni e 163 distillazioni di prova e test di invecchiamento e maturazione per perfezionare la ricetta del Flóki, nome che stranamente non ha significato in lingua locale bensì è il nome di Hrafna-Flóki, il primo esploratore vichingo a navigare intenzionalmente fino in Islanda nel IX secolo. Ne vengono prodotte tre tipologie: un single malt (single grain) in duplice veste, Young e con tre anni di invecchiamento, più la riserva “Sheep Dung Smoked”, ossia affumicata allo sterco di pecora! Proprio così, l’orzo utilizzato per il malto di questo whisky è stato affumicato secondo un’antica tradizione islandese che prevede l’uso di sterco di pecora. Ed è proprio questo prodotto che ho voluto assaggiare, per un tasting davvero mai provato, con un riscontro incredibilmente intrigante, per un profilo aromatico complesso e vagamente dolciastro che richiama ovviamente il gusto tipico dell’orzo, ma con gradevoli sfumature caramellate che sposano appieno quel fondo nocciolato e vanigliato ereditato dal passaggio in legno; sinceramente non distinguo l’apporto dell’affumicatura particolare, ma la sensazione è che dia un respiro comunque distintivo al prodotto in un’accezione piacevolmente dociastra.

Eimverk è solo uno dei 60 brand di whisky (più altri 10 di cognac & armagnac, oltre a 10 aziende tra food, sodati e bar tools) presenti alla kermesse romana  con oltre 2000 etichette; mi è quindi impossibile fare classifiche o segnalare i più rappresentativi, a questo ha invece pensato l’organizzazione, assegnando i riconoscimenti ai  migliori prodotti grazie alla votazione di una giuria di esperti secondo la regola del blind tasting; di seguito i risultati:

Categoria Best Single Scotch Malt

  1. Bowmore 25 yo (Bacardi / Martini & Rossi)
  2. Aultmore 25 yo (Bacardi / Martini & Rossi)img-20180320-wa0004
  3. Ardbeg An Oa (Moet-Hennessy)

Categoria Best World Whisky

  1. Kirin Whisky (Rinaldi)
  2. Puni Sole (Puni Distillery)
  3. Akashi Meisei (Meregalli)

Categoria Best Single Cask

  1. Glenfarclas The Family Cask 1998 (Rinaldi)
  2. The Glenlivet Single Cask Meiklour (Pernod-Ricard)
  3. Wilson & Morgan Ledaig 2008 (Rossi & Rossi)

Altra bella storia è quella dell’italianissima Distilleria Puni, ma questa l’abbiamo già raccontata qui con dovizia di particolari.

paul-john_2Invece nuova per me e decisamente stimolante è stata la storia della Paul John Distillery, una realtà tutta made in India, che mi ha attirato anche per la simpatia del “front man” al banco, ma che poi mia ha colpito per la qualità del prodotto. La Paul John è dunque un marchio di whisky single malt realizzati con orzo 100% indiano, ma che propone anche prodotti torbati utilizzando torba di importazione scozzese. La lavorazione è ovviamente in linea con i disciplinari e prevede distillazioni in alambicchi tradizionali di rame e una maturazione in botti di rovere americano carbonizzato. L’eclettico personaggio che mi ha spiegato qualcosa dell’azienda e dei suoi prodotti appariva coinvolto e, nonostante le difficoltà mie nel comprendere tutto il suo inglese, mi ha trasmesso il suo entusiasmo e qualche dettaglio della produzione. La società, fondata nel 1992 a Bangalore da Paul John, produceva whisky blended, ma nel 2008 decise di orientarsi verso i single malt, spostando l’impianto a Goa e selezionando gli orzi autoctoni, nel tentativo di alzare l’asticella della qualità ed entrare in un segmento di mercato di fascia superiore. E’ così che il 4 ottobre 2012 al Capital Hotel di Knightsbridge (Londra) è stata lanciata la prima etichetta con il marchio “Paul John Single Cask 161”,  un whisky dunque da botte singola prodotto con orzo maltato totalmente indiano, distillato due volte negli alambicchi di rame e invecchiato per un periodo imprecisato in barili di derivazione bourbon e di primo riempimento, appena svuotati in Kentucky. Fondamentali sono il clima e l’acqua di Goa, per spiegare la bontà del distillato, una località appositamente scelta proprio per questi fattori caratteristici. La fonte d’acqua è al 100% locale, spillata da una “fantastica” falda freatica, mentre il clima è tropicale monsonico, particolarmente caldo e umido; questo peculiare microclima velocizza la maturazione del prodotto, molto più che in Europa o negli Stati Uniti, ma anche rispetto alla media indiana. La frazione persa per evaporazione durante l’invecchiamento, npaul-john_1ota come “quota degli angeli”, si attesta intorno al 10-12 per cento l’anno, per fare un esempio in Scozia si sfiora appena il 2 per cento; in sostanza il whisky maturato a Goa per soli 4-5 anni, come nel caso del Paul John Edited e Brilliance, è paragonabile a uno Scotch invecchiato per circa 15 anni in Scozia. Cito questa regione non a caso, perché la sua influenza sull’ispirazione aziendale è palpabile e le versioni torbate (Bold e Peated) attirano la mia attenzione e il mio bicchiere. La selezione di orzo a sei file, proveniente dalle pendici dell’Himalaya, presenta una caratteristica buccia più spessa e un elevato contenuto di fibre e proteine, conferendo un carattere tannico davvero speciale al distillato. Questo determina aromi molto fruttati che fanno da sfondo ai sentori fumosi, mentre spingendo il naso più a fondo, emergono note mielose. In bocca la cremosità tipica di questo orzo è percepibile e avvolge il palato con opulenza, mentre la nota dolce si equilibra ancora con le fragranze fumé; il tenore alcolico (55,5%) spinge con calore la beva, la quale si giova del complesso aromatico offerto dalla torba made in Scotland grazie un riverbero speziato di cacao che accompagna il respiro post-beva.

img-20180320-wa0003Come non parlare poi, spostandoci ancora più a oriente, delle belle storie che hanno portato il Giappone a diventare un Paese di punta nella produzione del whisky di qualità? Il primo banco, appena si entrava nel salone principale del Festival, era proprio quello della Nikka Whisky, che possiamo considerare una pietra angolare del movimento nipponico, laddove Masataka Taketsuru (1894-1979), fondatore dell’azienda, può essere davvero considerato il “padre” del whisky giapponese. Anche la sua storia merita di essere raccontata, nato da una famiglia che produceva sakè fin dal 1733, dopo gli studi in chimica entra alla Settsu Shuzo, un’azienda che voleva produrre whisky, e viene mandato in Scozia ad acquisire le competenze necessarie. Quando torna dall’Europa, Masataka porta con se tre cose: un bagaglio tecnico importante, una moglie e un sogno, quello di aprire una sua distilleria; questo sogno si realizza nel 1934 quando fonda la Nippo Kaju, che nel 1952 diventerà Nikka Whisky, a Yoichi nella regione dell’Hokkaido. Nel tempo l’azienda si è sviluppata, anche con l’apertura di una seconda distilleria, nel 1969, sull’isola di Honsu, grazie alla passione del suo fondatore e alla sua pedissequa ricerca della qualità, anche a scapito dei numeri, ma ciò l’ha resa la distilleria leader che conosciamo. Oggi è infatti nota in tutto il mondo con una gamma di distillati di assoluto valore: dai single malt Yoichi e Miyagikyo ai Coffey Grain e Coffey Malt, dai pure malt ai blended From the Barrel o Super, fino al The Nikka invecchiato 12 anni, tutti prestigiosi e tutti eccellenti. Ho provato il single malt Yoichi, che presenta delle piacevoli note fumé derivanti dalla distillazione tradizionale con riscaldamento diretto a carbone degli alambicchi, poi arricchite da sentori agrumati. Al palato risulta incisivo, con lievi note fruttate e una bella scia minerale che tende al sapido.

tokinaka_2Sempre dal Giappone, la White Oak Distillery racconta un’altra affascinante storia di successo; se dobbiamo a Masataka Taketsuru il titolo di “padre” del whisky giapponese per la sua evoluzione storica, dobbiamo riconoscere a questa distilleria l’onore di essere stata la prima a distillare whisky. Fondata nel 1888 ad Akashi, iniziò infatti a estrarre piccole quantità di distillato fin dal 1919, procedendo per decenni in un mercato di nicchia ristretto al Giappone. Nel 1984, con la realizzazione di un nuovo e moderno stabilimento vicino Kobe, l’azienda ha iniziato un processo evolutivo importante che la porta oggi sul mercato internazionale con prodotti di alta qualità. Ho chiuso l’ultimo tasting con il loro Tokinoka Black, un blended creato da Akito Ueda, dai profumi vagamente fruttati e tropicali con note di tostatura; al palato si apprezzano fragranze agrumate, con un calore alcolico robusto che lascia il segno, poi emergono aromi di legno accompagnati da una nota piccante. Bello denso, brucia un po’, ma gioca sulla dicotomia di un lato tagliente e un lato morbido e vanigliato, due facce di una medaglia che luccica … come tutto il Festival.

Per l’immagine di apertura ringrazio Carlo Dutto

Per i successivi contributi fotografici ringrazio Massimiliano Di Domenico

Riccardo Brandi

Riccardo Brandi (brandi@acquabuona.it), romano, laureato in Scienze della Comunicazione, affronta con rigore un lavoro votato ai calcoli ed alla tecnologia avanzata nel mondo della comunicazione. Valvola di sfogo a tanta austerità sono le emozioni che trae dalla passione per il vino di qualità e da ogni aspetto del mondo enogastronomico. Ha frequentato corsi di degustazione (AIS), di abbinamento (vino/cibo), di approfondimento (sigari e distillati) e gastronomia (Gambero Rosso). Enoturista e gourmet a tutto campo, oggi ha un credo profondo: degustare, scrivere e condividere esperienze sensoriali.

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