Macerarsi sui macerati

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orange-wine-8Torno a scrivere di “macerati” non senza prima sciogliere il dubbio più urgente per i neofiti e i distratti: non ci riferiremo qui a persone insicure o affette da mancanza di autostima! 🙂 🙂 🙂

E’ un argomento, quello dei VINI “macerati”, lasciato volutamente decantare (macerare?) nei meandri complicati delle mie (in)consapevolezze. Ma non perché non li abbia frequentati più, i “macerati”, ma perché ai fini di un ragionamento che intenda puntare ad una sorta di approdo il tempo ha voluto la sua parte. Legittimamente, il tempo ha chiesto tempo.

Troppa d’altronde la subitanea ammirazione per una (ri)scoperta, per quel ritorno all’antico capace così maledettamente bene di ammiccare al futuro. Inevitabile quindi l’infatuazione, non esente da peccati di cerebralità e gioventù, per un percorso tanto audace quanto foriero di potenziali meraviglie; un percorso peraltro saldamente compenetratosi con l’onda montante della naturalità, del rispetto per l’ambiente, dell’ecosostenibilità: quanto di più pressante ci chiedono oggi la nostra terra e la nostra agricoltura.

orange-wine-2Succedeva una ventina di anni fa, suppergiù. Quando un esiguo drappello di “vignaioli pensanti”, non di rado provenienti dal Friuli, provava a comunicare al mondo certe esperienze condotte sui vini bianchi, tramutatisi là per là in qualcosa di altrettanto liquido ma di stranamente colorato, a metà strada fra un bianco e un rosso, diciamo “orange”, aprendosi a un mondo di profumi e sapori per quei tempi desueti, quando non deliberatamente messi al bando dalle scuole enologiche imperanti. Era una strada che si apriva, una sperimentazione in itinere che avrebbe fatto i suoi bravi proseliti: la macerazione sulle bucce per le uve a bacca bianca!

Da nord a sud della penisola, grazie al tam tam mediatico e al passaparola sotterraneo, una sempre meno residuale minoranza di viticoltori andava così cimentandosi con il metodo nuovo, che poi era come ritornare alle origini. E insieme al metodo riscopriva il significato più profondo di lavorare con i lieviti indigeni, di fare a meno delle filtrazioni, di sperimentare vasi vinari differenti, di esplorare eventuali “vocazioni da maratoneta” nei bianchi così ridisegnati, lasciando in tal modo più libero sfogo al “naturale” percorso dell’uva nella sua trasformazione in vino.

Ma come per ogni buona prassi enologica che si rispetti, occorre tempo per affermarne l’eventuale efficacia. Ché poi non confondiamoci: giochiamo a far le pulci ai vini, a vivisezionarli con ragionamenti finanche arguti che ci riconducano alle ragioni di un terroir o agli intendimenti stilistici di un produttore o di tal altro, ma a noi in fondo piace pensare che il coraggio di una scelta “via dalla pazza folla” sia stato nutrito da altri valori, soprattutto etici. Non tanto e non solo il recupero di metodi ancestrali per dimostrarne la valenza attuale dal punto di vista qualitativo e culturale, ma un modo diverso di vivere la campagna e di rispettare la terra. Senza più filtri, né dentro né fuori, a riflettere nel solco profondo di una ricerca di naturalità scelte di vita forti e interiorizzate, a volte radicali, che a ben vedere potrebbero significare tirarsi fuori dall’agone, non scendere a compromessi, quindi porre in secondo o terzo piano alcuni aspetti per così dire fenomenologici dell’universo-vino, quale quello di una sua classificazione fondata sulla benedetta qualità percepita.

lotta-continuaEcco, se guardiamo alla sostanza delle cose, in primis esiste il gesto agricolo (ma anche enologico) epurato dalla chimica, ed è ciò che marca la differenza e detta le priorità. Quindi confondere vini figli di una enologia “pulita” con vini “di compromesso” (a detta di legge altrettanto legittimi) non è cosa praticabile: così ci ammonirebbero i “vignaioli pensanti” di cui sopra, assurgendo di tal fatta al ruolo di vignaioli critici e al contempo avallando l’ipotesi che il vino sia sostanzialmente un gesto politico. Sono due ambiti diversi, e in quanto tali non confrontabili, ci direbbero. In tal modo si straccerebbe la questione e i solchi praticati dalle due strade resterebbero profondi ma paralleli, senza possibilità alcuna di intersecazione.

Io però -alla mia maniera- sono all’antica, e al tema della “identità sensoriale”, per dire, non ci rinuncio facilmente, checchennedicano i metodi e i distinguo. Perché penso che anche in questi ambiti “purificati” sia legittimo misurare le differenze, comparare, valutare, scegliere. E chiedersi se oggi abbia un senso rischiare il sacrificio di dettagli preziosi nel nome di un metodo, quale quello che va a trasformare la proverbiale freschezza di un vino bianco (il passepartout per la piacevolezza) in qualcosa che in realtà si vorrebbe evitare come la peste: l’omologazione del gusto. Per creare, sia pur nella diversità dei modi e dei gesti, un altro “ordine omologatorio”, irreggimentato e riproducibile come un autentico cliché. Beh, se così fosse capite bene che si tratterebbe di un errore dello spirito, ancor più che strategico!

orange-wine-3Quindici anni di assaggi reiterati di vini macerati hanno partorito sentimenti contrastanti: di empatia certo, e di coinvolgimento, ma anche di disaffezione e di noia. E se c’è una cosa che non saprei dimostrare con “i calcoli” ma che l’esperienza dell’ascolto ha palesato con accecante regolarità, è che questi metodi, più di altri, riescono a mettere a nudo le potenzialità di un terroir e di una annata. Indi per cui l’eventuale debolezza di un terroir viene qui esaltata: in peggio, ovviamente.

Quando perciò a difendere le insegne della categoria hai dalla tua parte un territorio “tracciante” tipo il Carso, ecco che il discorso prende un’altra piega. Ed ecco allora che la provvidenziale messa a punto del metodo potrà rappresentare il tramite efficace (non il fine) per traghettare un “macerato” verso approdi di compiutezza. Una compiutezza diversa magari, compenetrata da un linguaggio espressivo altro, ma che significherà pur sempre COMPIUTEZZA, tipica di un orizzonte organolettico a suo modo concretizzatosi, nel quale non potrà trovare spazio l’ordinario e in nome del quale non verranno sacrificate articolazione e sfumature.

E così l’affresco aromatico non si comprimerà (più) nell’indistinguibile universo ossidativo in odor di tisane e iodosan, ma sarà in grado di risaltare la naturale dolcezza del frutto, sì da comprenderne le cento sfaccettature diverse a seconda della varietà di uve utilizzate. E il potenziale evocativo delle erbe aromatiche di una Malvasia Istriana, faccio per dire, potrà essere esplorato con dovizia di particolari, con la fibra della cultivar bellamente messa a nudo – che ti sembrerà quasi di masticarla- e la sensazione salmastra figlia di quelle coste ventose felicemente svelata, senza incagliarsi in derive tanniche velleitarie, che calzate addosso ad un vino bianco sostanzialmente striderebbero.

orange-wine-4Perché se il tutto dovesse invece tradursi in una sintassi obbligata fatta di profumi ossidativi, suppergiù gli stessi da nord a sud della penisola (quali vitigni? quale provenienza?), e cadenzata da una impronta tannica prevaricatrice a soffocarne respiro ed ariosità per qualsivoglia stadio evolutivo della parabola vitale, significa che ciò che abbiamo davanti altri non è se non un risultato a metà, né più né meno come un vino prigioniero della morsa del rovere e figlio di una “moderna” enologia interventista, con tutto il corollario dei risaputi cliché.

Ecco, è nell’ambito di un orizzonte sensoriale finalmente dispiegatosi, quale espressione limpida e non mediata di una compiutezza piacevole, che io mi sento a proprio agio. Ed è in compagnia di certi vini, e solo di quelli, che mi riapproprio del coinvolgimento. Allora tutto tende a riacquistare il giusto peso, spegnendo così l’urgenza di ulteriori “macerazioni” mentali.

Si può fare oggi, certo che si può fare, e di esempi mirabili in tal senso ne esistono eccome, ma in molti casi ancora mi perplimo per la delusione, se solo penso alla massa incolore di vini appartenenti alla suddetta schiera venuti al mondo nel solo nome della tecnica, senza l’avallo della individualità, della riconoscibilità e della cifra identitaria.

orange-wine-6E se qualcuno infine mi chiedesse -me lo hanno già chiesto- cosa io pensi di tutta questa storia del naturale e delle sue declinazioni in campo, ho in serbo una risposta la cui apparenza ingenua, se non altro, credo contenga la sincerità istintiva di una rivelazione fanciullesca, quale essa è.

E cioè che se per una volta -nella vita o nella storia dell’uomo- l’imprenditore agricolo intravvede in una pratica agronomica più pulita il miraggio di un nuovo business, ben venga l’aspetto affaristico della faccenda quando ciò serva a convertire coscienze altrimenti non convertibili! Si tratterebbe pur sempre di un cambiamento epocale, tanto più importante quanto più a largo raggio praticato e accolto. Perché andrà a favore della terra e di essa sola, l’unica circostanza per la quale i futuri abitanti di questo pianeta, consci delle nefandezze perpetrate all’ambiente dalle generazioni presenti e passate, potrebbero persino concederci il gesto compassionevole di un timido grazie.

FERNANDO PARDINI

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