Romagna wine focus/2 – Colli di Faenza, Castrocaro e dintorni: prove di territorio (con fuori pista)

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Procedendo verso Est incontriamo luoghi più aperti rispetto alla Valle del Lamone ( di cui abbiamo parlato qui), gli orizzonti trovano un’altra distensione di sguardo, mentre microclima e tipologia di suoli vanno a sancire un’ulteriore diversificazione all’interno dell’universo-mondo romagnolo. Qui faremo la conoscenza di altre tre realtà ostinatamente artigianali, due delle quali progetti piuttosto recenti. Tutte e tre, invariabilmente, vanno ad infittire “l’altra Romagna” del vino, quella che si alimenta di un pensiero critico nuovo per rimettere il territorio al centro della discussione, attraverso azioni, idealità, gesti consapevoli e rispettosi.

Ci fermeremo sui colli di Faenza e poi a Castrocaro Terme. Ma non ci faremo mancare un fuori pista a Ovest, a nostro parere assolutamente in tema, approdando nientepopodimenoche sui colli di Imola, alla conoscenza di un altro intransigente artigiano del vino.

Nota chiarificatrice  – Tanto per non essere fraintesi, è bene ribadire che questa serie di incontri in terra di Romagna è stata mutuata dall’esigenza di conoscere ciò che non conoscevo, tralasciando così -in un primo momento, perlomeno- realtà anche celebri e per certi versi imprescindibili nell’ambito dei loro territori, ma di cui conoscevo assai bene standard e vini. Mi riferisco in questo contesto a Calonga, a Fattoria Zerbina, a Drei Donà, realtà che verranno ricomprese in ricognizioni prossime future.

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MARTA VALPIANI

I miei zii di Milano, tutti i miei zii, facevano di mestiere i pavimentisti, i piastrellisti, i “parquettisti” (o “parquettari”?). Insomma, la vita l’hanno passata in ginocchio. Per questo l’intimo conforto ricavato da non so quali miracolosi trattamenti a cui si sottoponevano durante le agognate ferie annuali a Castrocaro Terme, in provincia di FC (Forlì-Cesena), emergeva appieno dai loro racconti ammirati, quasi si trattasse di una resurrezione. Ecco, per me la nomea di Castrocaro Terme, e l’esistenza stessa di Castrocaro Terme sulle cartine del mondo, è legata esclusivamente a quei ricordi lì. Nient’altro. Oddio, volendo proprio esagerare, anche perché ha dato i natali a “La Frasca” della famiglia Bolognesi, ovvero ad un pezzo di storia della cucina italiana.

E’ perciò con viva sorpresa che Castrocaro e Terra del Sole li riscopro oggi territori vocati alla vitivinicoltura di qualità. E questo grazie soprattutto al progetto Marta Valpiani, una storia assai recente tutta coniugata al femminile (Marta Valpiani, appunto, e la figlia Elisa Mazzavillani, giovane vignaiola con le idee chiare in testa) e una delle voci più limpidamente espressive dell’altra Romagna del vino, lì dove i vini-vitigno della tradizione, Albana e Sangiovese, possono avvalersi di una implacabile messa a fuoco stilistica in grado di coniugare tipicità ed eleganza, rispetto delle proporzioni e dinamica gustativa, sotto l’egida di una agronomia pulita e di una enologia di precisione che a tutto ammicca fuor che alla chirurgia estetica. Anzi, casomai recupera negli ambiti di una disciplina fatta di equilibrio, profumi e pulizia una espressività a cui quei territori di fatto forse ci avevano disabituati, avvezzi com’erano al rigoglìo fruttato, all’abbraccio alcolico, all’esibizione di attributi o, di contro, ad una più sbrigativa rusticità.

Ed è così che l’Albana qui va spogliandosi delle ridondanze per acquisire ritmo ed agilità; ed è così che il Sangiovese va inseguendo traiettorie ispirate al dettaglio e alla trasparenza espressiva, senza forzature od eccessi.

Sapete che c’è? C’è che quei vini fondono piacevolezza e complessità in modo speciale, andando a ritagliarsi uno spazio di visibilità importante nel panorama enoico regionale. Sarà allora il caso di farci un pensierino sopra su questa terra, da che le vocazioni sembrano andare ben oltre le attitudini termali. Ci troviamo infatti a Bagnolo, fra i 250 e i 350 metri slm, su diversi versanti di collina, bordati a nord da crete azzurre e calanchi, a sud da sabbie gialle e gesso: qualcosa vorrà pur significare.

Che poi, già il fatto che si tratti di un’impresa agricola coniugata al femminile, che porti in effige il nome di una donna e che quel nome individui una madre e una iniziatrice, di per sé contempla tutte le prerogative necessarie per poter ambire di diritto al futuro migliore che c’è.

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Marta Valpiani Bianco 2017  (Albana derivante da vigne di varie età e diversi tri di raccolta)

Frutti a polpa gialla, agrumi canditi e fior di camomilla a scandire un profilo aromatico estroverso, nitido, arioso, che apre ad un gusto succoso ed affusolato instradato dalla freschezza acida. Godibilissimo.

La Farfalla 2016 (Sangiovese, suoli di argille azzurre, versante nord della collina)

Goloso, nitido, elegantemente floreale, non hai qui la complessità o la lunghezza del vino importante ma una gioiosità “compagnona” ed accattivante, filtrata da una dote di accuratezza non banale.

Romagna Sangiovese Superiore Marta Valpiani Rosso 2016 (Sangiovese, suoli di argille rosse ferrettizzate)

Fresco, godurioso, ritmato, di silhouette proporzionata e bella succosità acida, è vino elegante e slanciato. La purezza del frutto di bosco porta con sé e in sé sfumature più sottili e una vibrante suggestione minerale. D’istinto lo accosto a un giovane Nebbiolo di Langa, pensa te. E si beve che è un desìo.

La foto di Elisa Mazzavillani è di Mauro Fermariello

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ANCARANI (Claudio Ancarani e Rita Babini)

Oriolo dei Fichi è un borgo minuscolo che possiede una particolarità interessantissima e provvidenziale per un viaggiatore viaggiante senza l’ausilio di navigatore: la sua antica torre è un vero e proprio caposaldo di orientamento, e a me è servita eccome. Ci troviamo sulle prime colline di Faenza, a sud-est della città, in un contesto paesaggistico che suoli e microclima hanno consegnato da tempo alla vitivinicoltura.

I quindici ettari di vigneto di cui dispongono gli Ancarani, ad esempio, sono stati pensati come tributo alla biodiversità e alla autoctonia. Con questo obiettivo in testa, Claudio Ancarani decise di perpetuare la storia contadina di famiglia, fatta oggi di vino e di grano. Coadiuvato da Rita Babini, moglie nonché frontwoman di squisita vivacità intellettuale, la produzione si muove su diversi fronti interpretativi: si va dalla macerazione sulle bucce per l’Albana all’affinamento in cemento per il Sangiovese, dalla ferma valorizzazione del locale Savignon Rosso, alias Centesimino (tirato a secco), alla rifermentazione in bottiglia per il Trebbiano romagnolo. Il tutto sfruttando una viticoltura rispettosa degli equilibri ambientali, un terroir costituito da basse colline luminose di sabbie e argilla, un’enologia che si avvale di fermentazioni spontanee e nessun compromesso.

LAlbana qui non dismette i panni del bianco terragno, colorato & colorito, fibroso e generosamente fruttato che è poi la sua cifra, una espressività in questo caso favorita da una leggera sovramaturazione in pianta e da una conseguente macerazione sulle bucce in fase di vinificazione.

Sul Sangiovese assistiamo invece ad un bel  lavoro in sottrazione per spogliarlo delle ridondanze, alla ricerca dell’acidità senza ricorrere ad estrazioni spinte e allo stesso tempo evitando eccessive magrezze o rugosità tanniche, al fine di lasciargli più agio sul versante della bevibilità e della dinamica interna.

E se il Centesimino (2017) mi è parso uno dei vini più riusciti mai assaggiati in Romagna nella sua tipologia, da che conserva il miracolo dell’equilibrio garantendo contrasti e reattività a fronte della ingombrante presenza scenica, della veemenza tannica e del calore alcolico, per il Trebbiano di Romagna si è arrivati ad una versione à la page quale quella della rifermentazione in bottiglia sui propri lieviti, simpatico approdo che sembra quasi costituire un ideale ponte stilistico fra Emilia e Romagna. Senza offesa, eh!! 🙂 🙂 🙂

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Indigeno 2017 (Trebbiano rifermentato in bottiglia)

Pera Williams, lieviti e spezie a commento di un profilo segaligno e affilato, di una freschezza citrina, con qualche vacuità a centro bocca e un finale impettito, essenziale, tagliente per la carbonica. Gastronomico se ce n’è uno.

Romagna Albana Secco Santa Lusa 2015 (vigne di 30 anni allevate a pergoletta)

Non del tutto a fuoco, con un pizzico di calore in esubero, conserva un gusto sferzante, contrastato, solo chiosato da un finale asciutto, austero ed amaricante. Selettivo.

Romagna Albana Secco Santa Lusa 2013

Corredo aromatico più raffinato e sinuoso qui. Tatto grasso e cremoso, sensazione da vendemmia tardiva con sentori di albicocche, agrumi canditi e fiore di camomilla, chiusura pulita e netta, dal tannino integrato, in grado di conciliare carattere e garbo espositivo.

Romagna Sangiovese Superiore Biagio Antico 2016 (affinamento in cemento)

Bella freschezza aromatica, e buona apertura sul frutto, con un gusto spiccato per le sfumature e la piacevolezza. Più acido che tannico, sia pur ossuto con qualche riflesso vegetal-balsamico, va via di leggerezza e disinvoltura. Ed è proprio quella sua speciale misura a conquistarti.

Centesimino 2017 (Savignon rosso)

Accattivante e intensamente profumato di rose, frutti rossi del bosco e spezie fini, ricorda un Aleatico. E’ progressivo nello sviluppo, godibile, espressivo. Punta al dinamismo anche se c’è calore alcolico, la spigolosità è al servizio del ritmo, la coda salina del territorio.

A Delmo 2008 (longanesi 85%; sangiovese 10%, centesimino 5%)

Colore accentuato, evoluzione che fa il suo gioco e un’ingerenza del rovere che ancora permea e addolcisce le trame in una bocca potente, calda, spessa, d’abbraccio generoso, che predilige più l’impatto che non l’articolazione o le sfumature.

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PAOLO FRANCESCONI

A Borgo Tuliero, lungo la rotta veicolare che da Faenza porta a Marzeno e a Modigliana, su basse colline fertili costituite da argille ferrettizzate e singolari formazioni calcaree (i cosiddetti “cervelli di gatto”), incontriamo uno dei pionieri della viticoltura biologica romagnola. Qualche dato sintetico, così, tanto per scandire i tempi (non sospetti) di un pensiero agronomico per nulla avvezzo ai compromessi: biologico certificato dal 1992, primi imbottigliamenti nel 1997, approdo alle pratiche biodinamiche nel 2002, abbandono dei lieviti selezionati dal 2005.

Sono sincero, da un territorio del genere mai mi sarei aspettato una simile personalità nei vini bianchi, perché sono i bianchi quelli che più mi hanno sorpreso nella gamma produttiva di Paolo Francesconi. E non me lo spiego se non pensando alla consuetudine di certi vitigni radicati ad abitare da sempre quella campagna e quel “paesaggio” climatico. E’ il privilegio dell’attecchimento, un qualcosa che si piega ai voleri di qualcosa d’altro nel quale si compenetra. Che poi tanto sono sempre i vini a parlare, e qui i vini parlano il linguaggio dell’autenticità.

Ma il di più in tutta questa storia ritengo abbia a che vedere con le “pieghe” ideali, fattuali e caratteriali dell’uomo Paolo Francesconi, un uomo da cui scaturisce una limpida saggezza, una conoscenza profonda del proprio territorio e una fluidità di pensiero che si fa esperienza, senza spocchia o atteggiamenti di maniera, bensì con una sincera predisposizione al dialogo, all’ascolto e al rispetto reciproco. Se poi tu vorrai entrare nel suo mondo, lui ti farà entrare. E quel mondo ti piacerà.

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Luna Nuova 2013 (Trebbiano romagnolo)

Bella evoluzione -fra gesso e minerale- per un vino “nordico” nel portamento, sottile, laminato, sapido, ritmato, fine e delicato, di morigerata alcolicità. Puro. La sorpresa delle sorprese in un bianco di silente luminosità che di nome fa Trebbiano: se non è luna nuova questa!

Vite in Fiore 2014 (Albana vinificata “in bianco”)

Solo in apparenza la sua “direzione” sembra volere incanalarsi nel verso della generosità e della esuberanza, in realtà la consueta “bòtta” di frutto maturo qui non dà adito a ovvietà ma si estrinseca in una trama di bocca gustosa, viva e fibrosa, con un pizzico di austerità tannica ad intrigare e a garantire il non detto fra le pieghe del sapore, ben oltre l’esplicitezza carnosa di una tattilità che si fa avvolgenza.

Arcaica 2013 (Albana macerata sulle bucce per 60 giorni, vinificazione in acciaio)

Bella personalità, emerge il lato sapido-minerale più che il marchio tannico, ciò che ne ravviva la persistenza e ne rende gustosa la trama.  Non ti stanchi di berla, perché vibra e si propone con vivezza nonostante la grassa masticabilità. Miele di acacia, albicocca e sale stanno lì, a scolpire un ricordo.

Antiqua 2013 (Albana macerata sulle bucce in anfora di terracotta per 6 mesi)

Colore ambrato ”gravneriano”, comunque luminoso. Più cremoso e meno sfumato del precedente, è ricco, materico, deciso, non propriamente agile ma neanche sgarbato. Più faticoso semmai rintracciarne vitigno e territorio. Almeno per me.

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FUORI PISTA

CA’ DEI 4 ARCHI (Rita Golinelli e Mauro Mazza)

Fuori pista di nome e di fatto: la “mitica” curva della Tosa e l’autodromo di Imola sono a un passo! Certo che qui fa provincia Bologna, anche se Brisighella dista soltanto 20 chilometri, e allora il fuori pista potrebbe assumere i connotati del fuori tema, se non fosse per alcune ineludibili assonanze di suoli, intenzioni e vitigni che riconducono lesti questa piccola realtà artigianale nell’alveo romagnolo.

Ci troviamo sui primi rilievi collinari dell’imolese, e i suoli ricordano alcuni suoli di Romagna, un misto di argille e sabbie gialle. Ma non solo, dal momento in cui di appezzamenti Ca’ dei 4 Archi ne possiede due, uno attorno alla cantina, appunto, l’altro nell’area di Casalfiumanese, tra assolati calanchi ricchi di galestro situati all’interno del Parco della Vena del Gesso Romagnola e caratterizzati da argille ricche di calcare.

Ora, lasciare i rispettivi lavori per buttarsi a capofitto in questa nuova esperienza contadina, e perdipiù sui colli imolesi (non propriamente il centro del mondo), comporta già di per sé coraggio e volontà.  Ed è una volontà intransigente quella di cui si sono fatti portatori sani Mauro Mazza e Rita Golinelli, che gli ha fatto abbracciare fin da subito la via della purezza nei gesti e nei modi, ciò che li colloca di diritto fra i più integralisti esponenti del fronte cosiddetto “naturalista”.

Inerbimenti perenni con erbe spontanee, pratiche biodinamiche, enologia pauperista senza nessun controllo di temperatura e nessuna filtrazione, impiego di soli lieviti indigeni. Insomma, uno di quei casi – sempre più numerosi- nei quali lavoro agricolo e idealità si fondono, portandosi appresso una coscienza critica e un modo di praticare la vigna che intendono soprattutto garantire vitalità e futuro alla propria terra. E tutto questo, a ben vedere, basta.

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Ligrèza 2017 (Trebbiano di Romagna, macerazione sulle bucce durante la fermentazione)

Schietto senza sfiorare la rusticità, sono profumi sfaccettati i suoi, e nelle sue trame si alternano e si fondono suggestioni dolci e salate, concretizzando un equilibrio interessante e una espressività mai scontata. C’è ritmo, e contrasto, e solarità. E una coda salina che ringalluzzisce.

Mezzelune 2016 (Albana macerata sulle bucce per due mesi)

Umori di zolfo e una ricchezza senza slabbrature alimentano un sorso gustoso e “gastronomico”, sia pur meno equilibrato e originale di Ligréza. Il finale salato depone a favore di territorio.

Tajavent 2015 (Sangiovese, affinamento in tonneaux usati)

Molto espressivo aromaticamente -sono ciliegia selvatica, humus e balsamico-, la sua succosa speditezza trova parziale impedimento nella scabrezza tannica e in un certo afflato vegetale.

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Nota: tutto questo fiorire di incontri, di viaggi e di esperienze non avrebbe avuto il corso che ha avuto se non ci fosse stata la mia fidata guida locale, l’amico e collaboratore Marco Bonanni, fine conoscitore della sua terra e del sentimento umano che la muove.

ALTRI CONTRIBUTI ALLA CAUSA

Brisighella e la Valle del Lamone

FERNANDO PARDINI

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