Si fa presto a dire Carnaroli! Parte 1: il problema delle griglie e l’introduzione della dicitura “Classico”

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«Stasera preparo un bel risotto! Ma il riso c’è? Fammi dare un’occhiata in dispensa… Ecco qua la scatola, sì: “Riso carnaroli, ideale per risotti”»
Domanda maliziosa: siete sicuri che il riso in quella scatola sia davvero carnaroli? «Ma certo – risponderete – c’è scritto sulla confezione!» Bene, mettetevi comodi e preparatevi a un bel giro di giostra nelle stranezze d’Italia.

L’idea per questo articolo è nata dalla lettura di un testo davvero illuminante per comprendere le dinamiche e le scelte politiche-amministrative nella gestione delle norme che regolano la produzione e il commercio alimentare. Si tratta di Contro natura di Dario Bressanini e Beatrice Mautino, uscito per Rizzoli nel 2015. Pur trattando un ampio numero di argomenti “di grido” in questi anni, dal glutine agli OGM, dalla diatriba tra grani antichi e moderni, una parte molto consistente del libro è dedicata all’argomento riso, che viene affrontato con competenza e curiosità sotto una molteplicità di vedute e riesce a dare un’idea molto ben definita della complessità dell’argomento.

Per capire i termini della questione è utile fare un paragone tra il mondo del vino e quello del riso in Italia. Se da una parte, nel campo enologico, uno dei maggiori punti di forza è la diversità, l’enorme ricchezza genetica dei tantissimi vitigni, che si esprimono in innumerevoli particolarità territoriali ed attirano i consumatori di tutto il mondo proprio per questa ricchezza di espressioni, nel campo del riso questo non sembra valere: poche varietà note monopolizzano il mercato. Difficile trovare sugli scaffali anche del più fornito negozio più di sei-sette varietà di riso: carnaroli, vialone nano, baldo, arborio, ribe, originario, Roma, insieme ad alcuni risi introdotti più di recente come il venere o il basmati. L’offerta risicola è al 99 per cento concentrata su questi risi.

Ma è proprio così? Migliaia di vitigni contro una manciata di varietà di riso?

La realtà è più complessa. A livello genetico e produttivo anche il mondo del riso è molto ricco, ogni anno vengono registrate nuove varietà, le aziende sementiere lavorano continuamente alla ricerca di tipologie che vadano incontro alle esigenze sia del mercato sia degli agricoltori. Di sicuro il mondo del riso differisce da quello del vino per la sua tendenza all’innovazione continua: se per il vino è in atto da decenni una grande campagna “diretta al passato” per riscoprire vecchie varietà, nel campo risicolo le vecchie varietà tendono ad essere sostituite dalle nuove: ai problemi agronomici (infestanti, utilizzo dell’acqua, utilizzo dei diserbanti) si risponde con nuove varietà. In questo senso le vecchie varietà servono come “riserva genetica” per creare incroci e generare nuove varietà. Ecco che quindi si delinea uno scenario più complesso e sfaccettato anche nel mondo del riso. Solo che di questa complessità non resta traccia a livello commerciale: sugli scaffali, pochi nomi per non spaventare i consumatori. Cosa succede quindi?

Torniamo al nostro CarnaroliÈ una varietà antica? Non proprio; è stato selezionato nel 1946, nato dall’incrocio tra Vialone e Lencino. Che caratteristiche agronomiche ha? Pur non essendo antico, ha caratteristiche simili a quelle dei grani antichi: ha un ciclo vegetativo molto lungo, con semina precoce (con conseguenti possibili problemi dalle gelate primaverili) e raccolta tardiva, ed ha una taglia molto alta, circa un metro e settanta. Taglia alta: quindi non teme la concorrenza delle infestanti? Purtroppo non è così, il suo sviluppo lento concede alle erbacce (il giavone in primis) di crescere prima e di entrare in competizione limitando la resa del raccolto. Una volta sviluppato in altezza poi, come i grani antichi, teme il vento, che ne può causare l’allettamento. E allora perché coltivare Carnaroli?

La risposta, il Carnaroli, la dà nel piatto. Ha chicchi grandi e perlati, rilascia in cottura la giusta quantità di amido per fare un risotto cremoso e vellutato ed ha una tenuta straordinaria: i suoi chicchi in bocca sono masticabili, presenti, in poche parole “tengono” e regalano alla masticazione una piacevolezza inarrivabile per altri risi.

Ma, come dicevamo, la ricerca di nuove varietà va avanti, e le caratteristiche sia del carnaroli sia degli altri risi “storici” rendono questi meno redditizi e di più difficile gestione rispetto alle nuove varietà.

Proprio per questo a partire dalla legge 325 del 18 marzo 1958, nella filiera risicola italiana, è stato inserito a livello legislativo il concetto di “griglie”: ossia un numero limitato di tipologie, capeggiate dai nomi dei risi più conosciuti (Vialone nano, Carnaroli, Baldo, Ribe, Arborio, Sant’Andrea), all’interno delle quali ricadono numerose altre varietà commerciali di più recente introduzione, che semplicemente hanno alcune caratteristiche simili. Ecco così che ad esempio sotto la denominazione “Arborio” può rientrare la varietà Vulcano e Volano (che ha quasi totalmente sostituito l’Arborio storico), o sotto la denominazione “Carnaroli” possono rientrare un gran numero di varietà come il KarnakKeope, Carnise, Carnise precoce, Poseidone. Per le varietà Vialone nano e Sant’Andrea, le griglie non prevedono la compresenza di altre varietà, quindi in questi due unici casi si ha la sicurezza che le confezioni contengano varietà Vialone nano e Sant’Andrea.

Il consumatore quindi compra un riso con un nome conosciuto, ma all’interno della confezione non è detto che ci sia quello che viene dichiarato; può esserci un riso che per caratteristiche fisiche (lunghezza, dimensione del chicco, perlatura…) somiglia al riso indicato, ma non lo è.

Nel caso del Carnaroli, questa possibilità è stata comprensibilmente adottata in massa dai coltivatori: poter vendere come carnaroli (e al prezzo del carnaroli) un riso di taglia bassa e a ciclo vegetativo più corto (e quindi meno soggetto a allettamento e a gelate primaverili), consente risparmi in campo notevoli. Ecco perché nelle confezioni di Carnaroli, oggi, circa un terzo del contenuto è Karnak.

Ma a livello gustativo?

La differenza si sente tra i denti. In genere il Carnaroli “vero” ha un chicco leggermente più grande delle altre varietà, ma soprattutto rende meglio in cottura, rimane saldo e masticabile, regala una sensazione tattile molto appagante, non raggiungibile dalle altre. Questioni di lana caprina? Provate a dire a un intenditore che il nebbiolo d’Alba e il Barolo sono in fondo la stessa cosa…

Ecco perché in questo caso è frustrante da parte del consumatore non poter sapere a priori il contenuto della confezione. Quasi nessun produttore specifica in etichetta che si tratta di Karnak o Carnise (E te credo! – verrebbe da dire –, se c’è una legge dello stato che ti permette di vendere non dico le Panda, ma le Alfa Romeo chiamandole Ferrari…).

Fino all’anno scorso l’unico modo per sapere il contenuto reale della confezione era rivolgersi ai produttori e chiedere loro direttamente se si trattasse di Carnaroli (o Arborio, o Baldo…) veri e propri o di altre varietà ammesse nella stessa griglia. Ovviamente è un discorso fattibile solo con i piccoli produttori: le grandi riserie non lo dicono e non lo vogliono dire. I piccoli produttori di qualità invece ci tengono molto: mi è capitato, a una fiera di prodotti agricoli di Abbiategrasso, di chiedere se il carnaroli che vendevano fosse carnaroli vero o un’altra varietà; con un sorriso compiaciuto mi hanno mostrato il contratto d’acquisto della semente Carnaroli certificata. Segno che nell’ambiente, chi lavora per la qualità, la questione la sente eccome!

Tutto questo però, fortunatamente, ha trovato di recente uno sbocco legislativo. Con un decreto del 17 agosto 2018 si è stabilito che, a partire dalla campagna 2018, le aziende possono produrre e vendere sette varietà storiche apponendo in etichetta la dicitura “classico”, che attesta che si tratta al 100% della varietà indicata.

Le sette varietà storiche sono: Arborio, Baldo, Carnaroli, Ribe, Roma, S.Andrea e Vialone nano.

Le aziende, acquistando sementi certificate e stoccando i risi in contenitori separati dalle altre varietà, possono quindi iscriversi a un albo e vendere il loro riso classico garantendo integralmente l’origine varietale. Un gran passo avanti, soprattutto per i consumatori finali più attenti alla qualità.

Nel prossimo articolo sentiremo dalla voce diretta di un produttore, Fabrizio Rizzotti di Riso Rizzotti (Novara), i commenti e le considerazioni su questo nuovo decreto e in generale sul mondo della risicoltura italiana.

Riferimenti:

Contro natura di Dario Bressanini e Beatrice Mautino, Milano, Rizzoli 2015. 306 pagine, € 11.

Un interessante video di Bressanini: https://www.youtube.com/watch?v=qLAona8HB0A&vl=it

LEGGE 18 marzo 1958, n. 325

Tabella ministeriale del 2016, con le griglie aggiornate alle varietà registrate fino a quell’anno (lo schema ricalca l’impostazione della legge del 1958)

Il Decreto 189 del 16-8-2018 lo si può scaricare a questa pagina.

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Le foto centrali sono di risaie attorno al borgo di Badia di Dulzago, Novara; l’etichetta del riso è del Riso Rizzotti.

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

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