Proposta Vini: ritratti di produttori a passeggio tra i corridoi della kermesse di Lazise. Parte seconda

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BENITO FERRARA

La cantina della famiglia Ferrara è un nome ormai consolidato del territorio irpino: attiva dall’inizio degli anni Novanta con i primi imbottigliamenti di Benito Ferrara (ma già il padre coltivava la vigna) e condotta, dopo la sua morte, dalla figlia Gabriella con il marito Sergio Ambrosino, questa azienda ha saputo ridisegnare il profilo moderno del Greco di Tufo.  Il Vigna Cicogna 2017, l’etichetta più nota della gamma, prodotta da vecchie viti di 50 anni (la vigna, tre ettari di ampiezza, è citata in documenti della fine dell’Ottocento), raramente tradisce: varietale tipico, tra note nocciolate e sentori sulfurei, palato maturo e fresco, delineato e continuo, succoso e tonico, che coniuga sole e sale.

Non meno risolto, e piuttosto simile nel profilo organolettico, il Terre d’Uva 2017, una selezione delle migliori uve greco dalle vigne di proprietà. Ha carattere, polpa e un palato fresco e continuo nonostante il calore dell’annata e la vendemmia anticipata. Finale che non tradisce l’anima agrumata e saporita del terroir. Meno caratterizzato, ma comunque piacevole, il Fiano di Avellino Sequenzha 2017, che fin dal nome (mancava giusto un Fiano di Avellino per completare la serie dei vini irpini) è un buon completamento di gamma.

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VADIAPERTI – TRAERTE

Tra i primi a far conoscere l’importanza della collina di Montefredane come terroir di riferimento per il Fiano di Avellino, la cantina di Raffaele Troisi, attiva dal 1984, è ormai da una trentina d’anni garante del carattere del territorio irpino con vini bianchi personali, mai omologati. Le basi del 2017 (dalla Coda di Volpe al Fiano di Avellino, passando per il Greco di Tufo), per quanto ancora embrionali, dimostrano una vitalità acido-sapida, una tensione interna e un allungo di sapore che lasciano presagire avvincenti sviluppi nelle rispettive selezioni.

E le attese non vengono smentite. Il Coda di Volpe Torama 2017 traduce il suolo calcareo-arenaceo e il vecchio vigneto (70/80 anni) che vi dimora in un bianco vibrante, solcato da ficcanti riduzioni minerali, agile e incisivo al palato, ricco di sapore, tagliente, verticale. Queste sensazioni laminate – caratteristica costante, “pattern” organolettico dei bianchi di Raffaele – vengono acuite nel successivo Fiano di Avellino Aipierti 2017 (il nome deriva dal toponimo dialettale di Vadiaperti, che significa “passaggi aperti”, perché situato più in basso rispetto alle zone limitrofe), il quale nasce dalle giaciture più alte del vigneto, da suoli argillosi a matrice calcarea. La tensione è tutta minerale, quasi idrocarburica, i tufi vibrano, il palato è salino, grintoso ed intransigente, lungo, modulato, articolato.

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PAOLO PETRILLI

Non conoscevo Paolo Petrilli, titolare di una masseria nel territorio di Lucera, nella Capitanata pugliese, provincia di Foggia, dove, accanto al vino – con il quale si è cimentato a partire dal 2002 con il piglio dell’uomo che desidera conoscere e imparare – produce dal 1990 pomodori di varietà autoctone (sammarzano, torremaggiorese, prunilli) con rese molto basse, e grano, seguendo dal 1988 una scrupolosa agricoltura biologica. Le uve, va da sé, lo sono altrettanto: negli undici ettari dimorano solo vitigni autoctoni come nero di Troia, sangiovese, montepulciano, bombino.

Al di là della sua eleganza e della sua affabilità come gentiluomo di campagna, Paolo Petrilli mi è sembrato un professionista serio, poco incline ai compromessi, innamorato del proprio lavoro. Il Cacc’e Mmitte di Lucera Motta del Lupo 2017, da suoli calcarei, è un vino finto-semplice e inebriante: sentori di acciuga, cappero, sottobosco, macchia mediterranea! Bocca succosa da morire, tonica, speziata, sanguigna, con garrigue a gogò. Tannino elegante, allungo invitante.

Il Cacc’e Mmitte di Lucera Agramante 2015, da rese più basse (50 ettari contro i 100 del vino precedente) ha colore analogo (un rubino intenso dalle belle trasparenze), profumi floreali, palato polposo, pepato, invitante, scandito da un tannino di qualità e da una consistenza mai statica.

Il Cacc’e Mmitte di Lucera Ferraù 2015 introduce la variabile del legno (i due vini precedenti sono vinificati in acciaio) con barrique usate e non tostate: olfatto screziato da sfiziose note di macchia mediterranea, palato maturo e tonico, con sensazioni di sottobosco, lampone e spezie. Tannino finale che disegna e sostanzia.

Ugualmente passato in barrique e frutto di una vendemmia a fine ottobre, il Nero di Troia Il Guerro 2015 traduce una varietà, spesso al centro d’interpretazioni muscolari, in una chiave varietale-territoriale (acciuga, pepe, macchia) infondendo al palato modulazione, contrasto e sapore.

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COSTA VIOLA & CRISERÀ

Si direbbe joint-venture, se questa parola anglosassone di chiara ascendenza finanziario-commerciale non suonasse eccessivamente tecnica per un vino eroico e autentico come l’Armacìa 2017.

Nasce da uve prunesta (quando l’assaggi matura sa di prugna, da cui il nome), malvasia nera, nerello calabrese e gaglioppo coltivate lungo i 25 chilometri di costa terrazzata a gradoni con muretti a secco (le armacìe, appunto) dello Stretto di Scilla.

Un paesaggio mozzafiato, unico, estremo per le forti pendenze della Costa Viola, che si riflette in un vino, vinificato in acciaio, che sprizza temperamento, bellezza, profondità.

Ha colore rubino intenso, profumi di mare e macchia mediterranea che esplodono: elicriso, sottobosco, acciuga. Palato conseguente: succoso, pieno, contrastato, dove si rincorrono i sentori salmastri uniti a sensazioni di prugna.

Il finale è incorniciato da un grande tannino e un grande allungo.

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I VIGNERI

Chi conosce l’Etna non può non conoscere Salvo Foti, che alla sua terra ha dedicato passione, competenza, libri (Etna. I vini del vulcano) e un’associazione di viticoltori (i “vigneri”, appunto) che recupera la tradizione delle antiche maestranze. I Vigneri è il nome dell’azienda di Salvo Foti, oggi affiancato dal figlio Simone, e di un gruppo di viticoltori professionisti etnei che mirano alla tutela dell’alberello locale e del palmento. È sintesi di esperienze trentennali e di ricerche storiche e tecniche per arrivare a una viticoltura di eccellenza nel rispetto dell’ambiente e dell’uomo.

Inutile dire quanto i vitigni locali siano al centro dell’operato produttivo. La cantina è a Milo, contrada Caselle, a circa 700 metri di quota, i vigneti sparsi tra Milo stessa (versante est dell’Etna), Castiglione di Sicilia (versione nord) e Bronte (versante ovest). L’Aurora 2018 (90% carricante, 10% minnella, 850 metri di quota a Milo), ha sfumature balsamiche, tensioni marine e un potenziale ancora da esprimere.

Il Vinudilice 2017 (minnella bianca, minnella nera, grecanico, alicante, a Randazzo, versante nord-ovest del vulcano, 1300 metri di quota) è un rosato intenso, selvatico, tenace, aggraziato. I Vigneri 2017 (90% nerello mascalese, 10% nerello cappuccio) è un rosso di grande lignaggio: ecco il cappero, ecco la cenere, ecco gli ematismi sanguigni. Il palato è succoso, tanto succoso, invitante, con ritorni di lampone, cenere e macchia mediterranea. Persistente quanto contrastato con allungo sottile, filigranato.

Non meno profondo e arioso è l’Etna Rosso Vinupetra 2015 (nerello mascalese più saldo di nerello cappuccio e alicante): ancora la macchia mediterranea, ancora il frutto selvatico, ancora il cappero. Palato pieno di polpa, sanguigno, modulato, continuo, dal tannino elegante e saporito.

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SIVE NATURA

Il nome dell’azienda è un omaggio al filosofo Spinoza («Deus sive Natura», Dio ossia Natura), che sancisce il precetto cui si attiene con scrupolo e devozione Giuseppe Paolì, attivo di recente (2015) nella produzione enologica della Sicilia Orientale (l’Etna con il carricante, il nerello mascalese e il nerello cappuccio, l’altopiano dei Monti Iblei nel Ragusano con il nero d’Avola), grazie alla decisiva influenza di Salvo Foti.

Solo vigne ad alberello allevate secondo pratiche agronomiche rispettose e vinificazioni non invasive. Che dire del Carricante 2016? È carricante all’ennesima potenza: menta secca, sprezzature agrumate, “sudore” minerale, tensioni vulcaniche. Palato teso, contrastato, molto sapido e lungo. Le vigne sono situate tra San Giovanni Montebello e Sant’Alfio, a 450 metri di altitudine, sul versante est dell’Etna.

Il Nerello dei Cento Cavalli 2016 (90% mascalese, 10% cappuccio) fa macerazione in tino aperto e un anno di tonneau. Il nome omaggia uno dei più grandi e antichi alberi di castagno d’Europa. Ha carattere da vendere (cenere vulcanica, pepe, frutto rosso), polpa succosa, elegante tratto tannico, finale sottilmente floreale. Sale la curiosità per i rossi a base di nero d’Avola, per i quali dovremo aspettare ancora un po’: gli impianti sono del 2015, la prima annata vinificata è stata il 2018.

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QUARTOMORO DI SARDEGNA

Con la cantina di Arborea, in provincia di Oristano, Piero Cella, affermato enologo, corona insieme alla moglie Luciana Baso il proprio sogno di un laboratorio del vino sardo aperto a esperienze, sperimentazioni, intrecci. Qui elabora le sue cuvée a metodo classico, qui produce rossi di bel carattere autoctono e temperamento territoriale, qui propone un’ampia, eclettica gamma produttiva riassunta lungo le quattro principali linee che rappresentano il suo personalissimo “Laboratorio di Idee”: Bollicine, Memoria di vite, Intrecci di vite, Òrriu.

Per quanto interessante, la carrellata di etichette (le quali riportano tutte degli acronimi) era troppo lunga per abbracciarla nella sua interezza, ma ho assaggiato cose molto interessanti spizzicando qua e là. Il Bovale BVL 2017, ad esempio, proveniente da vecchie vigne ad alberello quasi centenarie e franche di piede dell’Alto Campidano (Marrubiu-Terralba, terreni sabbiosi), ha un’impronta marino-mediterranea che non lascia indifferenti e uno sfizioso registro pepato.

L’MRS 2017 è un muristeddu o bovale piccolo piantato ad alberello su terreni a prevalenza sabbiosa da disfacimenti granitici. Le vigne hanno circa settant’anni e dimorano a 500 metri d’altitudine nella zona di Mandrolisai. Il profilo ricalca quello precedente (cenere, sottobosco, macchia mediterranea, cappero, pepe) ma con tratto più sciolto, longilineo, “piccante”.

Il rosso più rappresentativo in termini di ampiezza ed espressività tra quelli assaggiati è stato il CNS 2016, un Cannonau da vigne ad alberello di 65 anni ubicate nella zona di Dorgali, nel nuorese. Accanto al registro salmastro dell’acciuga e del cappero, questo rosso ha un’invitante polpa fruttata, un avvincente carattere materico, una continuità gustativa dinamica e persistente.

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Contributi fotografici dell’autore

LEGGI QUI la prima parte

 

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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