Se un grande migratore finisce in gabbia

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Non è sempre facile per noi, semplici consumatori, capire come le tendenze alimentari possano muovere interessi enormi, anche in settori che penseremmo lontani dal rito quotidiano del nutrirsi. Persino piccoli cambiamenti di abitudini alimentari, se moltiplicati per grandi numeri in un mondo in cui il cibo viaggia come un razzo da una parte all’altra del globo, acquistano dimensioni significative.

Credo proprio che anche ai più distratti non sia sfuggito il dilagare di quello che comunemente viene chiamato “sushi”. Fino a qualche anno fa l’unica possibilità per godere di questo piatto giapponese era quella di recarsi nei rari e cari ristoranti nipponici presenti solo nelle grandi città. Poi il sushi ha iniziato a far capolino nei terminal aeroportuali, nei banchi del supermercato e nei menu take away, diventando un fenomeno di massa. L’esplosione è guidata dall’immigrazione cinese, che ormai gestisce la quasi totalità dei locali dove si serve sushi, siano essi eleganti e pretenziosi o, più comunemente, economici e portatori di quella gratificante abitudine statunitense dell’All You Can Eat. Un controsenso a ben vedere, che una cucina per sua natura costosa, perché basata sull’utilizzo di pesce crudo e sulla complessità manuale della preparazione, sia diventata il simbolo del cibarsi a basso prezzo.

Sia come sia, non è difficile comprendere come il consumo di pesce crudo, e in particolare del pesce principe per queste preparazioni, il salmone, sia cresciuto. Salmone perché si alleva facilmente, perché costa poco, perché è un prodotto facilmente industrializzabile in preparati pronti per la ristorazione e recapitabili ovunque. E salmone perché è rosa e sa anche poco di pesce! Colore sgargiante e sapore neutro ne fanno un ingrediente perfetto per quelle piccole opere d’arte che sono i piatti ormai genericamente definiti come sushi. Fino a qui niente di nuovo, ma come spesso accade in questo mondo interconnesso, sono notizie provenienti da settori che sembrano lontani ad approfondire il quadro e rendere evidenti conseguenze non banali.

Il Maritime Journal è una rivista professionale per operatori nel campo navale. Abbastanza lontana dalla gastronomia. Sulla rivista cartacea di novembre spicca in evidenza una notizia: La più grande “nave” del mondo. Basta leggere il sottotitolo per comprendere il significato delle virgolette a racchiudere la parola nave: nel 2020 un vascello per acquacoltura costruito in Cina sarà la più grande “nave” del mondo.

Non una nave navigante quindi, ma una enorme fattoria dove saranno allevati… salmoni! Quattrocento trentun metri di lunghezza, cinquantaquattro di larghezza, sarà ancorata di fronte alla costa delle Norvegia per allevare oltre due milioni di pesci alla volta. Due milioni di salmoni: quante porzioni di sushi? Ovviamente esiste anche il mercato del salmone affumicato, una prelibatezza che in trent’anni ha visto crollare il suo prezzo – e la sua qualità, anche tralasciando il recente allarme Listeria – ma di sicuro il gran mercato del salmone è quello legato al suo consumo crudo.

Sorpresa da questa notizia sfoglio pagina e incredula trovo un altro articolo legato all’allevamento di salmoni: Neptune to build salmon delousing barge, ovvero “il cantiere olandese Neptune Marine costruirà una chiatta per la disinfestazione dei salmoni”. Disinfestazione da cosa lo si capisce leggendo l’articolo. Gli allevamenti di salmoni stanno subendo una crescente infestazione da parte di piccoli crostacei i cui attacchi portano al deperimento e in alcuni casi alla morte dei pesci, e comunque a una perdita qualitativa del prodotto.

Non serve un genio per capire che l’infestazione cresce in stretta relazione all’aumento della promiscuità degli animali. Una condizione comune ai mega allevamenti, dove si moltiplicano con facilità non solo i parassiti degli animali, ma anche patogeni che possono attaccare altri animali e l’uomo. Si pensi a quei grandi incubatori di virus influenzali che sono gli allevamenti avicoli dell’estremo oriente.

Ecco così che mentre si mettono in cantiere allevamenti sempre più grandi, si deve anche pensare a cercare soluzioni per le storture che tali modalità di allevamento provocano. Le ragioni economiche sono però le sole che hanno voce in capitolo, e anche se in entrambi gli articoli si esaltano le innovazioni in fatto di compatibilità ambientale delle nuove tecniche di allevamento come di disinfestazione, si tace sull’impatto che due milioni di salmoni, allevati con mangimi artificiali (scarto dell’industria alimentare?) possono avere sull’ecosistema marino. D’altra parte basta leggere chi sia il committente della chiatta per la disinfestazione: Cermaq Canada, che gestisce ben 28 allevamenti di salmone atlantico in Columbia Britannica, la cui capostipite Cermaq si dà da fare in tutto il globo, in Norvegia come in Cile, dove i danni ai fiordi legati all’allevamento del salmone sono ben noti.

Quale poi sia il risultato di tutto questo investimento di risorse, è già stato raccontato su questa rivista meglio di quanto possa fare io, nell’articolo Cena a salmone, perfetto cafone.

Ah, dimenticavo… buon sushi!

Per approfondire:
https://www.wwf.ch/it/specie/salmone-straordinario-migratore

Foto tratte da:
https://www.wwf.ch/it/specie/salmone-straordinario-migratore
https://www.maritimejournal.com

Francesca Zuddio

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