La scheda tecnica del vino, come e perché

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Chiunque frequenti il modo del vino anche marginalmente, per lavoro o per passione, è ben consapevole che le sue mode e tendenze, e il modo in cui esse vengono connotate, evolvono nel corso del tempo. Tra corsi e ricorsi storici, le parole d’ordine ( i tormentoni?) nel periodo che va dallo scandalo del vino al metanolo fino ad oggi sono state salubrità, pulizia, cantina, struttura, barrique, equilibrio, bevibilità, salubrità (di nuovo, ma è sempre stata sotto traccia) e, più recentemente, mineralità e “naturalità”. Il fatto che siano state prese ad emblema di tendenze stilistiche o di vere e proprie filosofie di produzione ne ha estremizzato, quando non trasfigurato, il significato. Ma c’è un altro termine che tutto sottende, che sempre più dilaga e dal quale non si può prescindere: “comunicazione”.

In un mercato globalizzato i vignaioli lottano disperatamente per affermare la propria unicità: da molto tempo ormai non è più sufficiente proclamare che un vino è buono, tipico o quel che sia (“territoriale” compreso), bisogna diffondere il messaggio con modalità differenziate a seconda del destinatario di riferimento; strumenti una volta scontati, come ad esempio la brochure aziendale, vengono completamente ripensati, a volte con tecnica quasi subdola ma potenziale, ovvero il famigerato storytelling: come dire, all’occhio del profano, parlo apparentemente d’altro per focalizzare l’attenzione sul messaggio da far recepire. Pure, a monte, non si può prescindere dai contenuti, ed è una riflessione che mi è balzata alla mente dopo una recente esperienza.

Chi Vi scrive ha recentemente condotto una degustazione dedicata a 7 diversi Pinot Nero Spumante Metodo Classico dell’Oltrepò Pavese, di fronte a una platea di ristoratori, sommelier ed aspiranti tali. Lo scopo di un evento così congegnato, a parte il notevole piacere della degustazione in quanto tale, è affermare la qualità diffusa e incentivare la conoscenza del territorio in oggetto, ma soprattutto tentare di definirlo a livello identitario: ovvero, pur nelle ineliminabili e benefiche differenze tra i campioni sottoposti all’assaggio, individuare una cifra comune, una caratteristica condivisa (ammesso che vi sia!) che possa essere riferita alla circostanza di avere a che fare con prodotti di quel territorio, e non di un altro. Si noti bene che l’agognato fattore in questione può dipendere da caratteristiche pedoclimatiche, dall’interpretazione di un determinato vitigno (in termini di vinificazione), da pratiche enologiche sedimentate dalla tradizione, ecc. ecc.

Va da sé che con tale aspirazione alla definizione sistematica, un’adeguata documentazione a monte della degustazione è necessaria, e pertanto il sottoscritto si è procurato le schede tecniche di tutti i campioni presenti: detto fuori dai denti, mi sono cascate le braccia, ovvero tutte quelle schede (che per le aziende hanno un costo!) erano speculari una all’altra, quasi fossero il frutto di una perversa operazione di copia e incolla.

Tutti i vini provenivano da terreni “argilloso-calcarei” situati a quote intorno ai 200 mt. slm. Qualcuno si spingeva a menzionare l’esposizione o la resa per ettaro, altri il numero di ceppi/ha o l’età delle viti. Quanto alla vinificazione poi, la spumantizzazione metodo classico di certo non aiutava, poiché tutti i campioni erano ovviamente rifermentati in bottiglia. Meglio le note di degustazione, che almeno sottolineavano riconoscimenti aromatici affatto particolari e peraltro non riconducibili allo stereotipo del Pinot Nero mosso (piccoli frutti rossi, ecc.), poi effettivamente emersi all’assaggio.

Infine, per quanto attiene gli ormai inevitabili suggerimenti per gli abbinamenti, informazioni così ansiosamente richieste dal mercato internazionale, le aziende se la cavavano salomonicamente con un “adatto come aperitivo e a tutto pasto”, con qualche episodica puntualizzazione di specifiche pietanze. Mi duole dire che per quello che mi ripromettevo di trarre dalla degustazione, le predette schede non mi sono state di nessun aiuto!

Mi sono quindi chiesto a cosa servisse tutto ciò (ripeto, una scheda tecnica ha un costo). A mio avviso, se un interlocutore di un’azienda, a qualunque livello (sommellerie, clientela retail, buyers, stampa specializzata) si “compromette” a richiedere una scheda tecnica, in un mondo perfetto (e magari anche in questo) dovrebbe avere un qualche interesse a conoscere come e perché un vino è fatto in un certo modo. Senza che una scheda debba trasformarsi in un mini trattato di enologia o di agronomia (che la leggibilità e la fruibilità sono caratteristiche essenziali), si potrebbe/dovrebbe osare di più nell’approfondire la descrizione di una certa etichetta, evidenziando tutti quei fattori critici che fanno sì che quel vino sia proprio quello e non altro.

In primis, la descrizione del territorio: giaciture, composizione dei suoli, esposizioni, gradienti termici, magari con una concisa sottolineatura di ciò che tutti questi fattori determinano, poiché non è così scontato che certi collegamenti causa-effetto siano noti. Poi il vigneto: ad esempio, nel caso specifico del Pinot Nero, comunicare che sono stati scelti cloni selezionati nella Champagne (o altrove) in quanto consentono una notevole maturità delle bucce (e quindi degli aromi) senza smarrire quell’acidità necessaria alla presa di spuma, potrebbe essere un valore aggiunto.

A seguire la vinificazione: se è vero come è vero che la selezione dei lieviti è essenziale per la spumantizzazione, puntualizzare magari che si usano ceppi autoriprodotti con un pied de cuve dopo ripetute prove, potrebbe essere una dimostrazione dell’accuratezza del lavoro svolto dall’azienda, nonché una ulteriore “giustificazione” del prezzo richiesto, al di là della qualità intrinseca del vino.

Ovviamente, con questo non voglio affermare che la scheda tecnica fa il prezzo, piuttosto che descrivere con precisione il lavoro svolto in vigna e in cantina contribuisce alla “premiumizzazione” (madonna quanto è brutta questa parola!) di una determinata etichetta. E lo stesso fatto di sottoporre all’attenzione degli astanti una scheda tecnica circostanziata non è forse una prova che ci si pone il problema di fare le cose per bene, e che non si esegue un compitino tirato via giusto perché non se ne può fare a meno?

La scheda tecnica non è certo l’alfa e l’omega della comunicazione del vino. Ma, in considerazione degli sforzi e delle risorse che a prescindere i produttori dedicano a raccontare il proprio lavoro, non dovrebbe essere misconosciuto il fatto che anch’essa, nel suo piccolo (che poi tanto piccolo non è) potrebbe e dovrebbe contribuire ad evidenziare che si è unici, si è magici, che si ama profondamente il proprio lavoro e che il liquido che ammicca invitante da quel calice ne è la diretta e piacevolissima conseguenza.

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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