Come riportano in questi giorni le cronache locali (Gazzetta di Alba, Il Corriere di Alba Bra Langhe Roero), dopo alcuni mesi di iter giudiziario un produttore piemontese di vino Barolo è stato condannato a sei mesi di reclusione e a una multa di seimila euro “per i reati di contraffazione di Indicazioni Geografiche Tipiche, contraffazione di Indicazioni Geografiche e falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico.”
Di quale grave reato di contraffazione si tratta, nel dettaglio? Il produttore in questione, che ha regolarmente vigne a Novello, ha però vinificato le uve al di fuori del sacro recinto indicato graniticamente dal disciplinare. E dove, precisamente? in Liguria? in Puglia? in Belgio? (dove per inciso venivano e forse vengono tuttora allegramente imbottigliati vini italiani Doc, per esempio un noto bianco dell’Italia centrale). No. Tale gravissimo illecito – “diraspatura, pigiatura, fermentazione” – è avvenuto a Rodello, un comune che dista “ben” dieci chilometri in linea d’aria da Barolo! E quindi, per la legge, il risultato è un Barolo falso.
Tutto ciò appare lunare, una volta di più. Non tanto per l’ottusa applicazione della legge (“la legge è legge”), quanto per la palese sperequazione con i numerosi casi di liquidi pseudovinosi che vanno in commercio senza che alcun controllore si senta in dovere di regolamentarne la libera vendita. Un rosso da uve “atte a divenire” Barolo vinificato a qualche chilometro dai confini della denominazione viene confiscato, il produttore addirittura incarcerato (o comunque formalmente condannato alla prigione). Parallelamente, per fare solo un accenno senza nomi, un rosso finto come una moneta di ottone dorata e prodotto in milioni di pezzi viene spacciato – termine più appropriato di venduto – in Italia e all’estero.
Una delle cause principali di questa stortura risiede – per quel poco che ne posso capire aborrendo lo studio delle disposizioni legislative nel settore vinicolo – nel mondo alla rovescia rappresentato dall’esiziale accoppiata burocrazia pre-imbottigliamenti/commissioni di assaggio. La prima infatti si adopera per rendere la vita impossibile ai produttori, seppellendoli sotto tonnellate di carte e adempimenti, vessandoli con controlli cervellotici, comminando multe per violazioni infinitesime e del tutto ininfluenti sulla qualità del vino finito. Le seconde, all’opposto, sono di manica incredibilmente larga, attribuendo non di rado la fascetta della Doc o Docg a soluzioni idroalcoliche di dubbia qualità o – in un passato nemmeno tanto remoto – addirittura scandalose.
Esattamente all’opposto, i controlli pre-imbottigliamento dovrebbero essere limitati all’essenziale (corrispondenza tra vigne e produzione in primis). E l’esame delle commissioni d’assaggio rigorosissimo. Proprio per garantire al consumatore che sta acquistando il prodotto tutelato dalla famosa fascetta.
Un mesetto fa ho ribevuto un rosso che definire verace è dire poco, il Pacina 2011 dell’azienda omonima. Sangiovese in massima parte, proviene da vigne pochi metri fuori i confini del Chianti Classico. Vibrante, tagliente, di particolare energia motrice al palato, è tutto meno che un vino docile. Alcuni anni di bottiglia non ne hanno smussato poi molto gli spigoli ma, vivaddio, ha più carattere chiantigiano “essolui” che non alcuni Chianti Classico morbidoni, informi e spalmati al gusto. Per me è un Chianti vero, anche se non c’è scritto in etichetta.
È deprimente osservare che in casi non sporadici la legge tutela il finto – o quantomeno non lo sanziona – e condanna come falso ciò che invece è autentico.