Sulla strada del Moscato di Saracena. Parte prima

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Situato ai piedi dell’aspro massiccio del Pollino – «qui le rocce sono esposte, nude, dominano nel paesaggio come creature solenni e pazienti. È come se recassero su di sé i segni del lavorio violento del tempo, sembrano uscire da una lotta immane contro il vento e la pioggia, il gelo e il sole rovente», scrive Piero Bevilacqua nella Calabria del Touring Club ­– il paese di Saracena è arroccato su uno sperone dell’alta valle del Garga a 600 metri di altitudine, a mezza via tra le due coste calabresi, benché la sua naturale inclinazione lo spinga a rivolgersi verso la piana di Sibari a est, e dunque verso la riva ionica del mare, anziché verso quella occidentale tirrenica.

Il suo abitato è analogamente spaccato in due: alla parte storica più bassa, caratterizzata da strade medievali strette e diagonali, si contrappone quella più alta e moderna, scandita dagli obbrobri edilizi che negli anni del boom economico italiano – quando il dilagare del calcestruzzo e i soldi degli emigranti saracenari hanno tirato su palazzine con tanti piani quanti erano i loro figli – ne hanno esteso il perimetro e rovinato il profilo.

Poco più sopra Morano Calabro, con la disposizione delle case “a cascata” che disegnano un’irreale quanto irresistibile forma conica, è un altro dei borghi mirabili che il viaggiatore meno frettoloso non potrà che ammirare, unitamente agli imponenti resti del castello normanno-svevo posto sulla cima del paese o alle primizie rinascimentali contenute nella barocca collegiata della Maddalena, tra cui un delizioso polittico di Bartolomeo Vivarini dalla storia avventurosa (trafugato, smembrato, recuperato, ricomposto, restaurato) e la fascinosa statua della Madonna degli angeli con le labbra dipinte di rosso di Antonello Gagini.

Di lato Castrovillari, centro commerciale ed economico attivo fin dall’antichità, che già Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia descriveva come «un grosso borgo pionieristico degli Stati Uniti, con le botteghe emporio che vendono un po’ di tutto. Vi spiccano, nelle mostre, i salumi, le soppressate che sono forse le migliori d’Italia, e un’altra specialità del luogo, un impasto piccante di alici bagnate nel sale, peperoni tritati e olio. Questi peperoni tritati, più forti della paprika, si insinuano dappertutto nella cucina calabrese ed infuocano i cibi»: i gastronomi conoscono Castrovillari soprattutto per la Locanda di Alia, primo nome di spicco della cucina regionale e prima stella Michelin calabrese.

A lato della città moderna, che ruota attorno al rettilineo di corso Cavour, si ammira il nucleo più antico dalla sommità del santuario di Santa Maria del Castello (curiosamente, il castello propriamente detto, quello aragonese, abita la parte bassa della città), il  cui panorama  spazia dal massiccio del Pollino al Cozzo del Pellegrino. Attorno a Saracena sfilano infine una cintura di paesi di lingua albanese o arbëreshë come San Basile, Civita, Lungro, Firmo, Frascineto, che ancora conservano usanze, riti e liturgie della terra d’origine (in Calabria l’arbëreshë è parlato in 34 centri, di cui 25 in provincia di Cosenza, 6 in provincia di Catanzaro e 3 in quella di Crotone).

Secondo la tradizione, Saracena sorge nel luogo di fondazione dell’antica città enotria di Sestion: nel XVII secolo il padre cappuccino Giovanni Fiore la cita nella sua Calabria Illustrata come «terra antichissima che già fiorì con il nome di Sestio edificata dagli Enotrii». Da secoli qui si produce un vino “passito”, chiamato oggi Moscato di Saracena, Moscato al governo di Saracena o più semplicemente Moscato Passito (è ancora sprovvisto di una denominazione di origine, e il territorio sta lavorando alacremente per ottenerne il riconoscimento): nel Cinquecento il cardinale calabrese Guglielmo Sirleto lo faceva arrivare per nave alla corte pontificia affinché non mancasse mai sulla tavola di papa Pio IV. Più di recente George Gissing in By the Jonian Sea (1901) ricordava «come cosa in pieno degna dell’antica Sibari un vino bianco, gradevole al palato, chiamato moscato di Saracena» e Norman Douglas in Old Calabria (1915) «il prosperoso paese di Saracena, famoso fin dai secoli passati per il suo moscato».

È prodotto con un antico metodo casalingo in tre fasi: 1) le uve di moscatello e adduroca (uva autoctona molto spargola e poco coltivata, probabilmente imparentata con lo zibibbo, il cui nome dialettale significa “piena di odori”, “profumata”), raccolte in tempi diversi (l’adduroca è più tardiva) tra fine agosto e settembre, vengono messe ad appassire, generalmente appese; 2) entro la prima decade di ottobre si procede alla vendemmia della guarnaccia, un altro vitigno autoctono, e della malvasia, facendo concentrare il loro mosto attraverso bollitura; 3) gli acini appassiti di moscatello e adduroca vengono schiacciati manualmente e aggiunti al mosto concentrato per attivare la fermentazione e operare una macerazione di circa sei mesi.

Un metodo produttivo unico, dal fascino antico per un vino dolce che non assomiglia a nessun altro di quelli prodotti nel Mezzogiorno italiano. Quasi abbandonato dopo l’emigrazione del secondo dopoguerra, il Moscato di Saracena è sopravvissuto grazie alla tenacia di alcuni piccoli vignaioli locali, che continuano a produrlo dai pochi ettari vitati del comprensorio, che a stento arrivano a una trentina. Andare a trovare questi produttori nel borgo storico di Saracena significa entrare nelle loro case: le cantine sono piccole, “garagiste”, ricavate in spazi stretti e in luoghi domestici. Entrandoci, si respira il fascino della tradizione casalinga, il sapore dell’artigianalità più autentica.

Il saracenaro Luigi Viola, classe 1941, ha insegnato per 35 anni alle scuole elementari del suo paese. Fin da piccolo voleva fare il maestro, come la madre e la nonna. Si fa addirittura bocciare al ginnasio di Castrovillari per fare le magistrali a Lagonegro, in Basilicata. Finché eredita le terre del nonno. I suoi fratelli non hanno voglia di continuare, lui non se la sente di vendere il fondo. «All’inizio è stato un sacrificio», racconta, «non ne sapevo niente, poi ho cominciato a leggere dei libri, a studiare la materia, impratichendomi. Andare in campagna non mi sembrava più lettera morta. C’era poi questo Moscato di Saracena che veniva prodotto in piccole quantità per consumo familiare e si stava perdendo per l’emigrazione di massa.

Ho cominciato a produrlo, decidendo negli anni Ottanta di commercializzarlo, con grande fatica perché non avevo nessuno che mi aiutava. Produrre questo vino è ancora laborioso». La famiglia Viola è tra le cantine più conosciute della zona. Luigi ha coinvolto in questo lavoro prima la moglie Margherita e poi i figli Alessandro (nato a Cosenza nel 1976, diplomato in ragioneria, segue la potatura, la vinificazione e la parte commerciale) e Claudio, nato a Lugro nel 1979, laureato in sociologia, dedito al lavoro di campagna.

Dopo diversi reimpianti oggi gli ettari in produzione sono quattro, situati sull’argilla rossa della contrada Rinni, più un nuovo vigneto di quasi un ettaro a 500 metri, in contrada Serra, dal terreno più bianco e calcareo. La coltivazione è biologica da sempre, oggi anche certificata. Il loro Moscato Passito 2016, prodotto in 4000 bottiglie, è una gioia per i sensi: colore ambrato-aranciato brillante, con ariosa aromaticità e freschezza al naso: fichi, scorza di arancia candita, albicocca sciroppata, erbe aromatiche e officinali (timo, rosmarino, malva, melissa), sfumature di amaretto; palato sensuale, denso, invitante, pieno di sensazioni candite, agrumate, balsamiche. Sviluppo lungo, naturale, sinfonico, fresco, con finire di erbe aromatiche e allungo di muschio e albicocca secca.

Ma la produzione dei Viola, come quelle delle altre famiglie locali, non si esaurisce nella bontà del Moscato di Saracena (questa è, non dimentichiamolo, anche terra di olio). Il Biancomargherita 2016 è un taglio di guarnaccia bianca al 65% e di mantonico bianco per il restante 35%, con un 10% della massa fatta maturare in barrique e almeno un anno in bottiglia prima della commercializzazione: colore paglierino intenso, naso mediterraneo cosparso di fiori gialli, palato spesso, polposo, ricco, non cedevole né stanco, sottofondo di sapidità, qualcosa di marino nell’aria, un’entità di sapore per nulla prevedibile che cresce in bocca al secondo bicchiere.

Il Rossoviola 2014 è invece un magliocco in purezza, raccolto a mano in cassetta con rese contenute (60/70 quintali per ettaro), con un paio di giorni di macerazione a freddo pre-fermentative, otto/dieci giorni di contatto sulle bucce, affinamento in barrique in larga parte usate per un anno e almeno due anni in bottiglia prima della messa in commercio. Tinta rubino intenso e gran naso sanguigno, con toni di sottobosco, sensazioni di piccoli frutti rossi, pepe e spezie da sembrare quasi un syrah. Palato succoso e sanguigno, avvolgente e pepato, con note mediterranee, sfumature di china, grande uscita acida, molto contrastato, moderatamente alcolico (12,5%!): un invito alla beva.

Continua…..

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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