Tirreno CT: uno sguardo sulla ristorazione professionale

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La Fiera di Carrara, pensata alla fine degli anni 70 per ospitare l’industria più rappresentativa della zona, quella del pregiato marmo delle vicine Alpi Apuane, fin dagli esordi ha differenziato la sua attività puntando a svariati altri settori di mercato. Tra questi, quello che forse di più di altri ha riscosso successo è quello dell’ospitalità alberghiera e della ristorazione. D’altra parte Marina di Carrara, a pochi chilometri dal confine tra Toscana e Liguria, rappresenta la punta settentrionale del lunghissimo litorale che, appunto, dalla Liguria, estende le sue spiagge fino a Livorno, passando per luoghi di grande richiamo turistico. Turismo che rappresenta oggi il maggior traino economico di quest’area.

TirrenoCT è appunto la fiera di riferimento per l’ospitalità, giunta alla sua 39sima edizione. Una fiera che mostra tutta la vitalità del settore alberghiero e, specialmente, della ristorazione, come ci si poteva attendere anche leggendo del crescente fatturato legato al “mangiar fuori”. Crisi o non crisi, gli italiani consumano sempre di più i loro pasti al ristorante, al bar, alla mensa che sia, e a questi si aggiungono i crescenti flussi turistici che, oltretutto, se scelgono l’Italia lo fanno anche per il buon cibo.

È piacevole quando si visita una fiera le cui aziende passano un buon periodo: lo si nota dai volti rilassati, dagli stand curati, dall’atmosfera un po’ di festa. Se poi aggiungete il fatto che si sta parlando di mangiare e di bere… ecco, la festa diventa ancor più tale. Ma TirrenoCT, almeno per il sottoscritto, forse più avvezzo a frequentare artigiani del gusto e vignaioli con le mani segnate dal lavoro dei campi, desta interesse in quanto parla la lingua più concreta del bisinesse dell’industria della ristorazione. Abbiamo o non abbiamo una delle più interessanti cucine del pianeta? Vero! Ma certo non penseremo che tutti quegli 85 miliardi di euro spesi in pranzi fuori casa siano legati a creazioni di chef stellati coadiuvati da poderose brigate di cucina. Come fare allora a sfornare tutto questo cibo mantenendo però un livello qualitativo degno del nome che portiamo?

La risposta non è neppure così nascosta, se in una zona della fiera fanno bella mostra di se le attrezzature per la ristorazione, un settore in cui l’Italia primeggia (forni da pizza, macchine da gelato, macchine da caffè… le troverete in tutto il mondo), in un altro padiglione si allineano uno dopo l’altro i numerosi marchi (più o meno famosi) dei preparati per ristorazione, ovvero dei semilavorati che permettono al piccolo bar/tavola calda, come al ristorante di qualche pretesa, di sfornare in poco tempo, a costi contenuti e ottimizzando gli sprechi, piatti che direste fatti sul momento partendo dalle materie prime acquistate al mercato di buon mattino.

L’offerta è ancora più varia di quello che mi aspettassi, dalle basi per pizza (o pinsa, che ora va di moda), all’ovviamente ubiquo sushi, dal branzino sottovuoto col suo condimento, ad ogni tipo di primi piatti, dalla pasta fresca “dall’aspetto artigianale” ai funghi trifolati, alle zuppe e chi ne ha più ne metta. E come potrebbero poi mancare dolci, cornetti, sfoglie, pastarelle di ogni tipo? Anche se queste meravigliano meno, l’odore e l’aspetto dei croissant appena scongelati nel fornetto dietro al banco è esperienza comune in tanti bar dello stivale.

Intendiamoci, se in effetti sono rimasto un po’ meravigliato a trovarmi di fronte una tal varietà di semilavorati, non voglio dare una connotazione negativa a questa mia sorpresa. Anzi, come da sempre affermo che le macchinette automatiche per caffè e similia sono una delle punte tecnologiche dell’industria italiana (fanno dei caffè molto migliori di quanto si possa bere nei miglior bar che distano più di 10 km dai nostri confini), così mi sembra che l’offerta che scorreva davanti ai miei occhi possa avere il suo valore. Un buon semilavorato è probabilmente meglio di una cucina improvvisata, e tutti noi ne avremo goduto chissà quante volte trovando il risultato di buona qualità.

Non posso però negare di seguire filosofie opposte per quanto riguarda il cibo. Faccio molta fatica a mangiare affettati pretagliati, aborro le insalate pronte, non mangio pomodori fino alla giusta stagione, fulmino con lo sguardo il ristoratore che mi proponga uno spaghetto scampi e zucchini in pieno inverno, non compro mandarini cileni… insomma, vanno bene le basi, va bene la perizia del cuoco che riesce comunque a farne dei piatti buoni e gustosi, va bene che non si può andare tutti nell’orto a cogliere il pomodoro prima di sedersi a tavola (neppure io posso farlo), ma se questo è il compromesso da accettare per sfamare decentemente tutte queste persone, ameno diamo un giusto prezzo alle cose. Non si può pensare che aprire una confezione e infilarla in microonde, o anche saltarla e insaporirla, costi quanto andare a scegliere il pesce al mercato, pulirlo e cucinarlo!

Ho la fortuna di fare talvolta colazione in un bar che si trova vicino ad una rinomata pasticceria, una da premi del miglior pasticcere d’Europa o giù di lì. Il bar prende i croissant da detta pasticceria. Belli, grandi (controtendenza sull’offerta diminutiva dei mignon), buoni, vari, vuoti o ripieni delle miglior creme, siano esse classiche, al pistacchio, alla cioccolata. Stesi, arrotolati e decorati a mano. Prezzo del croissant, al bar, un euro e mezzo. Non lo trovo alto, siamo al nord, ci guadagnano il bar e la pasticceria, mentre quello che trovo insostenibile è l’euro o anche l’euro e 10 che mi viene richiesto dal bar 100 metri più avanti, così come in altri migliaia di posti simili in cui lo sforzo più grande è stato quello di non bruciacchiare il croissant surgelato da 10 centesimi (o meno) che viene anche proposto caldo, come se fosse un prodotto d’autore!

Quindi: siamo in tanti, tanti sono i turisti, tutti dobbiamo mangiare e vorremmo mangiare con gusto. L’industria offre dei prodotti anche ottimi, per permettere anche a chi non è un mago dei fornelli di offrire dei piatti, pure elaborati, di buona qualità. Bene, sia benvenuta questa offerta e anzi si miri a renderla buona, salubre e sostenibile, ma poi non esageriamo col prezzo. Dieci o quindici euro per un piatto di spaghetti che abbiamo appena tolto dalla confezione sottovuoto non vanno bene (e forse non vanno bene neppure se gli spaghetti li abbiamo cotti e il sugo fatto al mattino). Ridiamo il giusto peso e prezzo al cibo, che non è certo un bene di consumo secondario.

E non sarà mica che quel record degli 85 miliardi di cui sopra non derivi dal fatto che si mangia sempre di più fuori ma piuttosto dall’aumento continuo dei prezzi della ristorazione? Prezzi che, dopo lo slancio del passaggio all’euro, non si sono mai veramente stabilizzati.

Luca Bonci

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