Capezzana: vino, olio e opere d’arte. Seconda parte

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Se i rossi della casa sono compiuti e piacevoli, solidi e definiti, espressione precisa di un terroir dove da sempre il sangiovese convive con il cabernet, il vino più tradizionale ed emozionante della tenuta è il Vin Santo di Carmignano, la cui bontà lo colloca tra le migliori espressioni toscane della tipologia. Citato nei libri aziendali dei conti fin dal Settecento, nasce nell’antica vinsantaia, che conta circa 300 caratelli di diverse capacità in legno di rovere, ciliegio e castagno.

La vinsantaia è un luogo speciale. Posto sottotetto, ha un’atmosfera tutta sua (quella dei vecchi granai), una magia sospesa, profumi stratificati di cose buone. Qui nasce uno dei vini più autentici, “naturali” (autenticamente naturale?) ed irresistibili del pianeta terra, davanti al quale l’enologia più tecnica alza le braccia in segno di resa.

Il Vin Santo “si fa da sé”: dove può infatti arrivare il controllo della tecnica nella fase dell’appassimento, nelle lunghe, spontanee, discontinue fermentazioni/maturazioni del vino dentro caratelli sigillati per anni? Negazione dei principi dell’enologia contemporanea (che va sottoterra, che ricerca il buio e il freddo, che lavora sotto azoto), il Vin Santo, alchimia naturale, nasce sottotetto, in mezzo alle escursioni termiche del caldo e del freddo, con fermentazioni tumultuose e irregolari senza controllo della temperatura, in piccole botti scolmate dentro il furore di processi ossidativi.

Dopo l’appassimento fino a gennaio del trebbiano (e di un 10% di san colombano, un’uva dai grappoli spargoli e dai chicchi allungati; di recente è stato introdotto nell’uvaggio anche il canaiolo bianco), comincia dunque una lunga fermentazione e un’altrettanto lunga maturazione a contatto con la madre per circa 7 anni. Al momento dell’imbottigliamento viene aggiunto un 10%-15% di Vin Santo più vecchio.

Benedetta, che gli dedica giorno e notte amorevoli cure, lo considera il suo quarto figlio. La Riserva 2011 ha colore mogano rossiccio dalle sfumature arancio. Paniere olfattivo di frutta secca, uva sultanina, amaretto, zabaione, soffitta, granaio. Palato tanto denso quanto dinamico. Sviluppo viscoso di miele, zabaione, amaretto, uva passa, caramello mou. Caleidoscopico, persistente. A queste note trascritte al Deus Cycleworks Café, affianco quelle di altre annate stilate in azienda lo scorso anno.

La Riserva 2010 ha colore mogano rossastro intenso e brillante, olfatto di gran carattere e gran balsamico, con corredo di frutta secca, uva passa, pasta di mandorle, amaretto. Palato denso, viscoso, prorompente, delizioso: frutta secca a gogò, nobile nota alcolica, ariosità balsamica, notevole equilibrio nonostante i 270 grammi di zucchero residuo.

La Riserva 2002 presenta analoga tinta mogano-rossiccia con intensi riflessi ambrato-aranciati, poi note all’olfatto di incenso, canfora, zabaione, uva passa, fico, caramella d’orzo, accensioni balsamiche. Palato denso, ricco, con caramello e caramella d’orzo, sviluppo contrastato, con un elegante filo di tannino sul finale che gli arriva dal castagno del caratello.

La Riserva 1990, indimenticabile, ha note balsamiche e officinali, toni di amaretto, sentori di caramello, sensazioni di noci: una grande evoluzione olfattiva. Palato “classico” (un giorno bisognerà scrivere un libro per spiegare il significato di questa parola applicata al vino), alcolico il giusto e sapido il giusto, con sviluppo contrastato, elegante, aristocratico. Non ha grassezza, ma corpo e sapore. Grande naturalezza e grande classe. Lungo, officinale, etereo. «Una nuvola profumata» (Benedetta). Il Vin Santo di Carmignano 1985 ha punta di volatile e gran terziario. Stile tradizionale, non privo di spigoli d’asprezza, con sentori terrosi, sapore più secco che dolce, nobilmente alcolico.

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Legata al nome dei Contini Bonacossi è anche la storia di una delle collezioni d’arte più importanti e controverse del Novecento, creata dal conte Alessandro Contini Bonacossi, bisnonno di Beatrice, Benedetta e Giovanni. Nato ad Ancona il 18 marzo 1878 da Camillo Contini e dalla contessa Elena Bermudez Bonacossi, Alessandro rimase prematuramente orfano di padre e all’età di diciannove anni si trasferì a Milano. Qui, nel 1897, su una panchina dei giardini del Castello Sforzesco, conobbe Erminia Vittoria Galli, ventiseienne, nata a Robecco d’Oglio da una famiglia di umili origini. Si sposano e si trasferiscono a Barcellona.

Alessandro Contini Bonacossi dirige la succursale di Madrid della Chemical Works Co. Limited di Chicago, cominciando in Spagna l’attività di collezionista e commerciante filatelico, concentrandosi soprattutto sui francobolli delle colonie spagnole. Dal 1908 intraprende la stessa attività nel campo dell’arte. Nonostante la mancanza di una cultura specifica a riguardo, riesce, grazie allo studio, al proprio fiuto commerciale e al consiglio di esperti autorevoli (prima il giovane Roberto Longhi, conosciuto sotto le armi dal figlio Augusto Alessandro a Gaeta, successivamente Bernard Berenson, ritenuto al tempo il più importante conoscitore dell’arte italiana), a formare una delle più prestigiose collezioni private d’arte antica e un fiorente commercio attraverso compravendite con i più importanti collezionisti, uomini d’affari e banchieri americani (H. Goldman, Henry C. Frick, J. P. Morgan, A. W. Mellon, William R. Hearst, W. C. Whitney, Jules S. Bache, Felix Warburg, Simon Guggenheim e soprattutto Samuel Henry Kress).

In questi ripetuti viaggi negli Stati Uniti, la moglie Donna Vittoria, oltre che un’inseparabile compagna di viaggio, si rivelò una preziosa quanto inaspettata consigliera. Con sua stessa sorpresa, scoprì in sé un talento naturale nel riconoscimento e nella valutazione delle opere d’arte: «Perché io, senza mai aver studiato, comprendo le opere d’arte in un modo che gli studiosi stessi rimangono meravigliati? Non è solo intelligenza, secondo me anche questo è un dono di Dio, ma c’è un mistero che non possiamo spiegare», si legge nella pagina dei suoi Diari datata 10 febbraio 1927.

L’anno prima scriveva sulla città di New York: «Non vivrei mai in questa babilonia, preferisco Capezzana cara, ma bisogna pur convenirne che è una splendida città non solo moderna ma ultramoderna. A me fa l’impressione di un futurismo, città che si può immaginare nel 2926 ma non nel Mille» (14 dicembre 1926, corsivo mio). Il marito aveva acquistato la tenuta nel 1922 dalla vedova Franchetti-Rothschild.

Conte dal 1928 (con aggiunta del cognome Bonacossi due anni dopo), senatore dal 1939, Contini Bonacossi contribuì in modo determinante alla formazione del primo nucleo della raccolta Vittorio Cini a Venezia, donò diverse opere ai musei italiani (l’arredo completo di sette sale per Castel Sant’Angelo a Roma; due tavole di Vitale al Museo Civico di Bologna; il modello in terracotta del monumento a Luigi XIV del Bernini alla Galleria Borghese di Roma; parte degli arredi di Palazzo Strozzi a Firenze, con dipinti, tra gli altri, di Cosimo Rosselli e Andrea Schiavone), finanziò il restauro degli affreschi di Filippo Lippi a Prato, decise di collocare la propria collezione privata nella casa fiorentina di via Valfonda (già Villa Strozzi e ora Villa Vittoria in onore della moglie) e infine, assecondando il desiderio di Donna Vittoria, di donarla allo Stato italiano purché rimanesse intatta.

Ma nel testamento, redatto nel 1950, cinque anni prima della sua morte, Contini Bonacossi si limitò a trascrivere che le sue intenzioni a riguardo coincidevano con quelle della moglie, non dubitando che i figli «vorranno rispettare il nostro desiderio facendo tutto quanto sarà loro possibile per attuarlo», senza di fatto renderlo esecutivo. Bisognerà dunque attendere il 1969 per vedere perfezionata la donazione, ridotta a 144 pezzi – scelti da una commissione di esperti – dei 1040 che componevano il patrimonio originario, trasferito nel frattempo a Palazzo Capponi di Firenze, dopo che Villa Vittoria fu adibita a palazzo dei Congressi.

L’accordo svincolò alcune importanti opere che vennero vendute, non senza polemiche, all’estero (come il Piatto di cedri, cesto di arance e tazza con rosa di Zurbaran, il Flautista di Savoldo, la Crocifissione di Giovanni Bellini, il Ritratto di Sigismondo Malatesta di Piero della Francesca), ma questo non impedì che alla città di Firenze arrivassero in dono capolavori quali la Madonna delle Nevi del Sassetta, la Madonna col Figlio e otto Apostoli di Bramantino, la Maddalena di Savoldo, le Lacrime di San Pietro di El Greco, il San Girolamo nel deserto di Giovanni Bellini, più opere di Duccio, Andrea del Castagno, Paolo Veneziano, Boltraffio, Veronese, Jacopo da Bassano, Cima da Conegliano, Tintoretto, Giuseppe Maria Crespi, Goya, Velasquez, la scultura del San Lorenzo di Bernini, decine di cassoni, robbie e maioliche per un valore complessivo di più di tre miliardi e mezzo di lire del tempo.

Esposta nella Meridiana di Palazzo Pitti, la collezione ha dovuto aspettare un tempo insolitamente lungo per essere definitivamente trasferita nel luogo originariamente indicato, ovvero la Galleria degli Uffizi, dove solo dal mese di marzo del 2018 fa parte del percorso di visita, dopo lustri di scarsa visibilità. Di questo, oltre che di una serie di dicerie sulla natura e qualità della donazione, si lamentava Ugo Contini Bonacossi nel giugno del 2012, pochi giorni prima della morte, con Sandro Pazzi, legale della famiglia, chiedendogli di raccontare finalmente la verità sulla tribolatissima storia di questo lascito.

Non poteva esserci interlocutore migliore, considerando che Pazzi aveva partecipato alle trattattive tra i Contini Bonacossi-Papi e lo Stato italiano per la donazione, aveva assistito gli eredi in tutte le successive traversie giudiziarie ed era stato testimone diretto dell’intreccio di storie e scandali famigliari (come il triangolo tra Sandrino Bonacossi, nipote del conte Alessandro, la moglie attrice Elsa De Giorgi e l’amante di lei Italo Calvino, il celebre scrittore) che ha saputo mettere su carta nel suo appassionante “La donazione dimenticata. L’incredibile vicenda della Collezione Contini Bonacossi” (collana ElectaStorie, Milano, Mondadori Electa 2016, pp. 239, illustrato, € 22,90), da cui provengono le fonti e le citazioni di quest’ultimo paragrafo.

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Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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