I vini del mese e le libere parole. Maggio 2019 (ma anche un po’ di aprile)

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Mâcon-Pierreclos Tris des Hauts de Chavigne 2007 – Guffens Heynen

Luigi Veronelli era solito portarsi il calice al cuore quando un vino profumava di grano, un piccolo gesto che racchiudeva in sé tutta la struggente intimità di cui può farsi portavoce una cosa cara, cara come un affetto.

E il Mâcon-Pierreclos Tris des Hauts de Chavigne 2007 di Guffens-Heynen questo è.

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Soave Classico Staforte 2016 – Graziano Prà

Alcol morigerato e accorto, tappo a vite e tanta, tanta energia buona.
Impressionante bevibilità per un vino che va al cuore di un vitigno (la garganega) e di un territorio, che di nome fa Soave.
Lo fa con rigore, garbo e dedizione, arrivando fin dove ogni piega di sapore va a fondersi con un invidiabile senso del dettaglio, il tutto per richiamarti essenza, autenticità.

Ora, non so bene per quale dannata ragione certi Soave della consapevolezza nuova (e ve ne sono) facciano ancora fatica a penetrare comme-il-faut i nostri mercati, so soltanto che un alito di purezza è passato da qui. Lo ritengo un privilegio, con buona pace dei mercati e della loro cecità.

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Côtes de Vendômois Les Vignes d’Emilien Colin 2016 – Patrice Colin

Già dal nome è una dedica, la spontaneità del sorso lo ribadirà. D’altro canto le dediche non esisterebbero se non vi fosse implicita la sincerità, e una sincerità ingenua poi vale doppio.

Il vitigno si chiama Pineau d’Aunis, qui ricavato da alcuni “giovani” appezzamenti del 1890 e del 1920, tanto per ribadire di come certi dettagli diano una piega speciale al tempo e alle storie.

Ah, se vi andrà di meravigliarvi di fronte all’esplosione gioiosa di pepe, spezie officinali e pierre à fusil proveniente da questo bicchiere, non preoccupatevi, fa parte della dedica.

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Barolo Riserva 2010 – Borgogno

Di fronte al Barolo Riserva 2010 di Borgogno non hai alcuna possibilità di evitare la bellezza. Ci cadi dentro per restarne beatamente “vittima”.

Di più, di fronte a un vino così gli estensori di un disciplinare di produzione che si rispetti dovrebbero interrogarsi se non sia il caso di approdare alla legittimazione della parola “monumentale” da apporsi direttamente in etichetta.

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Barbacarlo 2007 – Lino Maga

“Per quanto riguarda l’abbinamento si consiglia di essere in due, la bottiglia e chi la beve”. Così recita l’allungo firmato dall’autore sotto forma di cartoncino appeso al collo della bottiglia.

Immenso commendator Maga Lino! E immenso il suo Barbacarlo 2007, vino resistente agli accomodamenti, partigiano per antonomasia, orgogliosamente schierato. Se poi avrai la fortuna di berlo in compagnia di chi ne comprenderà il linguaggio, più facilmente si spanderà “nell’aere” un sentimento di amicizia vero.

“Grande la capacità di racconto”, avrebbe scritto Gino Veronelli. Ed io con lui.

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Bramaterra 2015 – Colombera & Garella

Nomen omen. Anzi, nomen vinum, dacché ti fa bramare davvero una terra, questo Bramaterra della premiata ditta Giacomo Colombera e Cristiano Garella.

E se oggi dovessi immaginarmi un vino che possa rappresentare l’eleganza in un ipotetico percorso di approfondimento della disciplina sensoriale, è a lui che penserei. Perché di una eleganza completa si tratta, che all’evidenza ci lega il “didentro”, partorendo unicità e togliendo d’impaccio le parole, che quelle ormai non servon più.

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Le Pergole Torte 1999 – Montevertine

Fare il giro del mondo per ritornare qui, circondato da un affetto antico che riconosco a istinto e che il tempo non scolora.  Quale emozione travalicare la soglia dei venti anni e sentire che tutto è ancora intero!

Ma fin dove potrà spingersi l’immedesimazione fra un vitigno e un territorio? C’è un oltre dopo un vino così? C’è ancora spazio per altre meraviglie?

Non saprei dirvi, ma oggi sono a casa, perciò mi fermo qua.

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Immagine di copertina: “A la mie” di Henry de Toulouse-Lautrec (1891)

FERNANDO PARDINI

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