Al centro del Whisky. Diario di un viaggio alcolico. Prima parte

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In aereo verso la Scozia


Non è la prima volta che volo in Scozia. Ci sono stato trenta anni fa, esattamente. I miei genitori per i 16 anni mi regalarono una vacanza studio a Edimburgo. La città fu una meraviglia ai miei occhi, pieni di un’adolescenza appena iniziata. Sentivo in quei giorni nella capitale scozzese un profumo acre, insistente e pervasivo che mi sono portato come ricordo involontario ogni volta che parlavo di Edimburgo.

Ancora nella vita mi è capitato di associare un profumo a una città; così tutte le volta che vado ad Alba è facile annusare odore di nocciola e cioccolato, ovunque. Cosa fosse quell’odore scozzese è rimasta una curiosità via via ricorrente nel corso degli anni e, ogni volta che l’interrogativo tornava alla mente, era come scoprire una vecchia foto dimenticata in un libro letto e perduto in libreria con lo stesso effetto di una malinconica e dolce emozione.


Il profumo di Edimburgo mi è stato svelato tre o quattro anni fa in una serata alcolica estiva con il mio collega Jonathan Gebser. Era da poco tornato dalla capitale scozzese e stavamo parlando di città in cui poter vivere. Di punto in bianco disse: «Comunque io, tra Alba e Edimburgo, sceglierei Edimburgo, tutta la vita. In Piemonte respiro cioccolato, in Scozia il malto per la produzione di whisky». Fu un’epifania. Buttai il naso dentro il bicchiere di Springbank 10 y.o. e, immediato, sentii l’odore dei miei 16 anni.

Dopo trent’anni mi ritrovo su questo aereo che ha lasciato Pisa in direzione Glasgow. Io e i miei compagni stiamo andando a Campbeltown per il Malts Festival 2019. L’obiettivo è vedere Springbank, mitica distilleria famigliare, che nella minuscola cittadina della penisola del Kintyre, a circa 3 ore di auto da Glasgow, produce alcuni dei malti più famosi al mondo.

In auto verso Tarbert

Siamo al risparmio, è bene dirlo subito. Le nostre finanze non consentono lo spreco di denaro, soprattutto per dormire (tempo perso, almeno in questi giorni), vorremmo invece concentrarle sulla spesa alcolica, in particolare assaggi e bottiglie da portare con noi al ritorno. Dormiremo in una casetta di legno in un campeggio vicino a Tarbert, minuscola cittadina situata sull’omonimo Loch. Per Loch si intende una striscia d’acqua, lunga chilometri, che taglia in due anche intere regioni; è come se le rive opposte di un Loch avessero slittato sull’acqua in direzioni contrarie, regalando una geografia unica e spettacolare. A dirla tutta, abbiamo prenotato una casetta con soli due posti letto anche se siamo in tre, ingannando il campeggio. Il piano è questo: arriviamo a Tarbert, uno di noi scende, gli altri registrano i loro nomi e poi nottetempo rientriamo in tre e ci arrangiamo. Così faremo.

Six whiskies and two beers at The Corner House


Vengo scaricato dagli amici al porto. Uno parla molto bene inglese (lo scozzese, nella sua intonazione, richiede competenze specifiche della lingua), l’altro è l’unico che può guidare l’auto: sempre per i volgari problemi economici di cui sopra, abbiamo rifiutato l’onerosa estensione della guida con relativa assicurazione a tutti e tre i viaggiatori propostaci dall’agenzia noleggiatrice. Bene, aspetteremo notte qui a Tarbert. Sono le 6 di sera, già cenano e presto arriverà buio, così potremo rientrare al campeggio. A parte i pochi turisti e gli sparuti locali, Tarbert è assai deserta. I negozi sono chiusi. Vedo una bella bottega di whisky con un sacco di roba dentro ma la saracinesca è tristemente abbassata. Ci sono due o tre ristoranti aperti e un pub dalla scintillante insegna smeraldo che ne recita il nome: The Corner House.

Entro per una birra e per leggere il libro che mi sono portato, mentre aspetterò gli amici e il da farsi. Bevo dalla spina una Caledonia Best, stout cremosa dalla dolcezza rassicurante la cui perfetta temperatura di servizio ha il dono di renderla deliziosa. Dietro la simpatica signora troneggiante al di là del bancone ci sono un sacco, ma dico un sacco, di bottiglie di whisky alla mescita, il che mi riempie di gioia l’anima. Birra scura, tavolino con vista porto: attendo felice gli altri mentre continuo a leggere il mio libro.

“Verde Brillante” è il primo libro dello scienziato Stefano Mancuso, scritto con la giornalista Alessandra Viola. Mancuso guida il lettore nel magnifico universo senziente e intelligente delle piante, lo invita a guardare il mondo vegetale con occhi nuovi e ad affondare lo sguardo, attraverso un’attenzione mai posta prima, sul verde che ci circonda per scoprire le innumerevoli e vive espressioni con le quali le piante, date per scontate e immobili, si relazionano con il paesaggio circostante e con gli altri esseri viventi. Il verde brillante del libro è evidente in questo paese dalla geografia antica. Nelle due ore di viaggio fino a qui ho visto paesaggi splendidi e cangianti con i colori limpidi delle tante fioriture alle quali, per ignoranza, non riesco ad associare un nome.

Proprio per questo mi accontento di respirare questa diversità e staccare la messa fuoco dello sguardo per ricevere, come da un quadro impressionista, l’indistinta cromaticità smeraldina dei boschi, dei prati erbosi e delle colline modellate dal vento. Un respiro che mi fa stare bene così come il sorso di una birra alla giusta temperatura. Arrivano gli amici. Si sono registrati al campeggio. Sono le otto di sera e fuori c’è ancora luce. Usciamo dopo un’altra birra e cerchiamo qualcosa da mangiare. Guardiamo i prezzi e i relativi menù: troppo cari. Siamo al primo giorno e va benissimo un “tipico” fish and chips per fare base e poter tornare al pub ad assaggiare whisky. La friggitoria a pochi passi emana un odore poco invitante, una volta dentro l’olezzo di frittura pare diventare una sorta di sostanza viscosa e translucida che infiltra i vestiti e la pelle. Aspettiamo fuori le rispettive scatoline. Sono abbastanza tristi nella loro essenzialità: letto di patatine fritte e due pezzi di quello che credo sia stoccafisso avvolto in uno spesso strato di impanatura. Però non puzza e si può buttar giù. Mangiamo su due panchine di fronte al piccolo porto, alla bassa marea che lascia scoperti il fango e le chiglie nere delle imbarcazioni e, incredibile, ancora alla luce del giorno: saranno le nove e mezzo.

Non avevamo considerato la latitudine scozzese e il Maggio che regala luce, troppo abbacinante per noi e utile, fin troppo, al custode del campeggio. Un attacco di moscerini rovina, si fa per dire, la cena. Finalmente possiamo tornare a The Corner House per iniziare il viaggio nel malto. Non avevo mai visto in vita mia pub con una tale schiera di bottiglie di whisky a disposizione. Una vista alla quale mi abituerò presto, in Scozia. La signora dietro il banco ci guarda divertita mentre ci porge la lista delle bottiglie in mescita con relativi prezzi. La sfogliamo avidamente e il sorriso si triplica nel vedere i prezzi dei bicchieri che va da 3 ai 5 pounds. Sono le 22 di sera, nel pub ci siamo noi, la signora e un paio di signori del post,o anche loro con il loro bicchiere di orzo distillato. Scegliamo come primo giro Kilchoman Sanaig, Dalwhinnie 15 y.o., Clynelish 14 y.o..


Ecco alcune note: Kilchoman è una distilleria che si trova a Islay, sacro luogo per tutti gli amanti dello spirito. Fondata nel 2005, è una delle poche realtà (forse l’unica?) a ciclo chiuso, coltivando l’orzo nelle fertili pianure attorno. Il Sanaig matura in botti di sherry e bourbon, con una netta prevalenza delle prime. Lo indovini già nel palato l’antica presenza di oloroso nei barili di rovere. La sapidità marina come tratto incisivo e splendido, per questo liquido a 46 % di volume alcolic, che esprime il rigore necessario alla finezza senza cedere ad alcuna ridondanza. Eppure in tale essenzialità vivono profumi di agrumi e frutta secca, di brezza marina e fiori secchi impregnati da un soffio continuo di torba di bellissima integrazione.

Dalwhinnie 15 y.o. è un distillato delle Highland centrali.  Assaggiarlo dopo il Sanaig è stato un errore clamoroso, benché inconsapevole. È una bevuta aggraziata, senza ombra di dubbio, che rivela il carattere più semplicemente fruttato del liquido a 43 % di volume alcolico; tuttavia la persistenza gustativa è davvero ben poca cosa.

Il Clynelish 14 y.o.  è un altro Highland dalle sensazioni tattili viscose e dalla dinamica succosa, leggiadra e molto piacevole. Da questa si dipanano aromi di cera, nota identitaria del liquido in questione, con frutta secca e lieve tostatura che esalta la fine nota di cereali. Come inizio non c’è male, i bicchieri passano di mano in mano, assaggiamo e condividiamo emozioni e pareri, senza tanta esperienza ma con l’entusiasmo del viaggio addosso e questo senso di libertà sempre più prezioso con il passare degli anni.

Fuori il cielo imbrunisce lentamente ma non sono più tanto preoccupato per il campeggio, ho in testa il whisky. Non occorre nemmeno suggerire un altro giro, la lista è di nuovo nelle nostre mani. Il secondo terzetto è costituito da Glenkichie 12 y.o., Hazelburn 13 y.o. Oloroso e Longrow Peated. Il Glenkinchie è un Lowland di ottima espressione materica. Denso quanto basta per fornire un piacere schietto e duraturo, reca nella parte retronasale lieve affumicatura, mallo di noce e note di menta. La sua dote alcolica di 43 gradi si sente tutta e pare non troppo integrata; ciò inficia la piena finezza del sorso.

Ora lasciamo che Campbeltown entri dentro di noi. Hazelburn e Longrow sono due distillerie della città che vedremo domani, entrambe di proprietà di Springbank. Il primo, affinato in botti di sherry, ha la giusta severità iniziale che disvela un tratto avvolgente di estrema compattezza sapida; richiama aromi di mandorla, curry e buccia d’arancia. I suoi 49,6 % alcolici sono impercettibili, nascosti nelle pieghe di una materia che pare cesellata dal più bravo degli artigiani orafi. Appena avvicinato alla bocca, il secondo esibisce d’acchito il carattere affumicato della torba che si diffonde nell’aria circostante. In questo “clima” il palato regala al cervello preziosi cortocircuiti, che poi sarebbero sinapsi.  Si sente il suo grado, che è circa 46 %. La torbatura, pur evidente, è decisamente elegante, con sentori marini, di alghe e sale, intrisi di una balsamicità che solo chi ha respirato il mare può descrivere.

Prima notte

Siamo lucidi -più o meno- ed è buio. A pochi chilometri di distanza rintracciamo la nostra strana abitazione. È un monoblocco in legno di forma semicircolare con due letti, due appendini, un piccolo tavolino con sopra caffè e bollitore, perfetti per il risveglio. Mi dispongo accanto al mio amico che nel frattempo è crollato secco e duro sopra le lenzuola con tutti i vestiti addosso. So già che lo ritroverò così quando il sole si affaccerà di nuovo su queste latitudini, fra poche ore. Spero di non russare. Mi leggo ancora un poco di Verde Brillante. Ieri ero ancora a Lucca, domani a Campbeltown: niente male.

Il diario continua: seguitemi verso Springbank!!

Fabio Pracchia

Vive sulle colline lucchesi. È uno dei principali collaboratori di Slow Wine, la guida annuale del vino pubblicata da Slow Food Editore. Si occupa da circa quindici anni di vino e cultura cercando di intrecciare il lavoro alcolico con quello narrativo.

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