Sono passati quindici anni, ma sembra un’altra èra: del vino, del pianeta. Era proprio un’altra èra, a pensarci; e non mi scuso per il bisticcio di parole. Ero di passaggio nel sud della Francia. Suona bene ma non è che mi càpiti spesso, eh. È più frequente che sia di passaggio nel sud di Roma, città dove attualmente si possono scorgere un po’ ovunque nuovi e poco ammirevoli monumenti, o chiamiamole installazioni moderne: torri di spazzatura, edifici di monnezza, statue di bustoni di plastica puzzolenti.
Nel 2004, dunque, mi trovavo nel Sud della Francia. Là un collega francese, il sommo Michel Bettane, mi suggerisce di fare visita “a una vera istituzione francese, il santuario di monsieur X, in rue Gambetta, a Montpellier”. Scrivo signor X perché, mea culpa, non ricordo il nome del leggendario proprietario. L’età.
Vado, trovo l’enoteca, entro, e sono subito in una sorta di caverna del tesoro di Alì Babà. Scaffali e scaffali delle più rare e salivanti bottiglie francesi. Rotaie di DRC. Campanili di Armand Rousseau. Piramidi di Chave. Ma la vera sorpresa, che dà le vertigini, è la stanzetta dedicata esclusivamente ai vini di Coche Dury. Una specie di studiolo di Federico da Montefeltro, piccolo e foderato non di tarsie lignee ma di bottiglie di François Coche Dury.
Vengo còlto da uno stordimento da sindrome di Stendhal.
Chiunque abbia avuto la fortuna rara di vedere più di tre flaconi di Coche insieme sa di cosa parlo. In quel caveau tutti gli scaffali erano di Coche. Coche ovunque. Da terra fino al soffitto. L’enotecario spegne in un attimo lo stato ipnotico in cui mi trovo affrontandomi con durezza: “lei è qui per comprare e rivendere? spero di no per lei, perché i furbi li annuso al volo e li caccio subito”.
Sì, perché un’altra virtù incredibile del posto erano i prezzi “còscici”: Meursault a 70 euro, Meursault 1er Cru a un centinaio, Volnay a 40 euro, Bourgogne “di base”e Aligoté a 30. Corton Charlemagne, se ben ricordo, a 160: un’allucinazione lisergica, già all’epoca. E i furbi andavano lì a comprare e poi rivendevano al doppio, magari. “No, no, sire: sono qui in pellegrinaggio”, gli rispondo con le lacrime agli occhi. Lui capisce. E da quel momento diventa uno zuccherino.
Seguono ore di conversazione, durante la quale apprendo che il tizio era in quel periodo il primo assegnatario di Coche del mondo. “François è unico, nessuno vinifica come lui”, mi dice. “A lei piacciono gli aerei? Sì, perché i vini di Coche sono aerei. Non nel senso dell’aggettivo, proprio nel senso delle macchine volanti. Io anni fa ho visto lo Spirit of St Louis, il monoplano con cui Lindberg ha fatto la prima trasvolata atlantica, nel 1927. Però ai vini di Coche si adatta ancora meglio lo Spirit of Ecstasy, lo spirito dell’estasi che sta sulle Rolls Royce.” “Potrei mettere un ricarico triplo su queste bottiglie, ma non mi interessa speculare, preferisco che facciano volare più gente possibile”. Sul momento mi sembrava normale parlare di aerei e auto storiche, certo per via dell’alcol, visto che nel frattempo sorseggiavamo un luminescente Aligoté. Oggi in effetti fa un effetto un po’ bizzarro.
Ho ripensato a quell’eccentrico personaggio, che non ho più rivisto*, stappando l’ultima bottiglia di Coche comprata da lui, un Auxey-Duresses 2002 Coche Dury davvero lirico, quintessenziale, di purezza rarefatta come l’aria che attraversa un aereo ad alta quota.
In tutti questi anni i vini di François Coche sono divenuti sempre più costosi e inavvicinabili. Fossi stato un collezionista lungimirante ne avrei approfittato, dopo aver superato la diffidenza dell’enotecario. Ma non l’ho fatto. Essendo solo un bevitore, ho bevuto. E basta.
* pare purtroppo che le Caves Gambetta non esistano più; o comunque che la proprietà sia cambiata