Nel cuore frizzante dell’Emilia. Incontro con Elisabetta Montesissa

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Di Elisabetta Montesissa da Carpaneto Piacentino avevo sentito parlare, sapevo che i suoi vini sono conosciuti più a New York e a San Francisco che in Emilia o a Milano, ma mai avrei creduto in un incontro così sorprendente. In giro per respirare un po’ d’aria fresca sui colli piacentini in una domenica infuocata di luglio, ho provato a chiamare in azienda: «va bene dopo pranzo», mi ha risposto la madre al telefono. Allora andiamo.

Quel che dice il navigatore in questo caso non mi convince per niente. Dopo uno sterrato lungofiume di un chilometro e mezzo spunto su un pianoro un po’ più largo, un po’ di mais, poche mucche al pascolo, vigneti di cui molti abbandonati, una chiesa vecchiotta (non antica). Rallento perché risulta che sia quasi arrivato, poi la traccia si ferma davanti a un borgo di quattro case e un’osteria. Che posto strano, scendendo dalla macchina mi sento un po’ come Troisi e Benigni al di là del passaggio a livello.
«Scusi cercavo l’azienda Montesissa Emilio…»
«…»
«Fanno vino… Montesissa Emilio…»
«Ah sì, prosegua a piedi per quella stradina sterrata, l’ultima porta a sinistra»
Boh, devo aver sbagliato qualcosa. La viuzza di ciottoli è interrotta da lavori, si passa solo a piedi. Trovo un campanello, c’è scritto Montesissa Emilio, dai che ci sono. Suono e sento un trillo nel vuoto. Difatti nessuno si affaccia. Eppure un’ora fa avevo telefonato per confermare che arrivavo. Proseguo ancora alcuni metri verso una corte in ristrutturazione. Ci pensa il cane a notarmi, fortuna che è legato; fa un baccano infernale, si vede che è un simpaticone ma deve far valere il suo ruolo di guardia. Fatto sta che poco dopo arriva dall’aia un signore.

Dalla mia faccia spaesata capisce la situazione, non devo essere il primo a perdersi in questo borgo tra le colline piacentine. «Venga, si accomodi, vado a chiamare la mia figliola, Elisabetta». Me lo dice in un dialetto così stretto che al primo giro non capisco, me lo deve ripetere due volte. Anche la mamma arriva, mi fa accomodare premurosa in cantina al fresco, una cantina minuscola con tante bottiglie e tre bicchieri già pronti sul tavolo. «Aspetti che mio marito va a chiamare l’Elisabetta». L’imbarazzo è breve. Una stretta di mano, quegli occhi mi dicono che non ho sbagliato indirizzo, sono nel posto giusto.

Hai voglia di scrivere, hai voglia fare giri di parole, ma l’orgoglio del papà e della mamma nel dirmi che arrivava la loro figliola per farmi assaggiare i vini non si descrivono, e non li dimenticherò, sono una perla silenziosa di questo incontro inaspettato.
Elisabetta durante la settimana lavora a Roma, è vicedirettore della Fondazione Campagna Amica, e nei fine settimana corre qua a Carpaneto Piacentino a coltivare la vigna a fianco al papà e a gestire le spedizioni e le relazioni coi clienti.
«Se non amassi così visceralmente la mia terra, chi me lo farebbe fare: ho uno stipendio dignitoso, vivrei a Roma… Ma credimi, la gioia di vedere il nome di mio padre stampato sulle bottiglie che vanno in tutto il mondo… Non mi interessano le vacanze fuori, non mi interessano i weekend in giro da postare sui social. Eccomi qui. Iniziamo dal bianco?»

Un colpo secco dal tappo a corona, siamo nel cuore ancestrale dell’Emilia, regno dei frizzanti naturali.
Iniziamo dal Bonissima, bianco a rifermentazione spontanea da uve malvasia e ortrugo. Annata 2018, 11 gradi alcolici, quindici giorni di macerazione sulle bucce. Ha una grammatica olfattiva antica, tra la generosità aromatica della malvasia e gli accenni di erbe officinali, salvia, santoreggia in primis. Secco come una rasoiata, tosto e tannico come solo la malvasia sa essere, che qua dicono “un rosso travestito da bianco”.

«Altro che “orange wine”! -puntualizza Elisabetta-. Il vino bianco qui ha sempre avuto questo colore carico. Oggi si usa molto questa espressione, ma quale orange. Come se fosse una moda. Questo è il vino che si è sempre fatto qui!»
«L’unica differenza tra il mio vino e quello che faceva mio padre, è che io non filtro. Uso solo 5 mg di solforosa in fase di pigiatura e poi basta, nient’altro. Anni addietro, era in voga la filtrazione. Andavi al Consorzio e ti consigliavano di filtrare, per stabilizzare il vino e pulire il colore… tutti lo facevano, e finivi per adeguarti. Ho voluto tornare allo stile tradizionale del vino che si è sempre fatto. Certo, ogni bottiglia fa storia a sé, e può essere leggermente diversa. È una materia viva».

«A che punto sta, oggi, il vino dei colli piacentini? Sembra ancora a un bivio, tra la quantità e la qualità…»
«È un momento molto critico. L’idea del vino piacentino da vendere sfuso non regge più. È cambiato il mondo dei consumatori, non è più tempo di vino in damigiane. E l’approccio delle grandi aziende che in virtù delle quantità fanno il vino da prezzo basso danneggia queste colline, danneggia i piccoli produttori che puntano alla qualità. Abbiamo un territorio magnifico, e una storia enologica ricchissima alle spalle, ma rischiamo di svendere tutto questo a ottuse ottiche di prezzo basso. Dobbiamo far capire che prima del vino che ti verso nel bicchiere c’è la storia, ci sono queste colline favolose. Il vino viene da qui». Con la mano abbraccia idealmente, lo percepisco, tutti quei tornanti, quei boschi, i campi e le vigne che pettinano le colline ripide.

«Ho visto vigne abbandonate in giro… come mai?», provo a chiedere.
«Eh, se il vino lo fai con la testa di ieri e non sai evolverti nell’oggi… Finisce che non conviene più farlo. Le abitudini son dure a morire: se hai una visione diversa, vieni subito messo all’angolo… Vai al bar, e ti dicono: “hanno raccolto tutti, tu che fai, non raccogli? Lasci marcire l’uva in vigna?” Funziona così. Tutti fanno così… »
«Ma a fare tutti la stessa cosa finisce che diventi preda degli stereotipi…»
«E il tuo prodotto non ti consente più di vivere. Sai una cosa che mi fa piangere il cuore? Sentire i giovani che fanno lavorare la terra rimettendoci, e ti dicono: “è la terra dei miei, la lavoro per tenerla pulita”. Ti rendi conto? La terra coltivata in perdita. Possibile che il prodotto fatto col sudore quassù in collina venga valutato con l’ottica del minor prezzo? È un sistema che non funziona!»
«Cosa serve?»
«Una visione diversa. Saper coltivare e saper proporre il prodotto e il territorio, l’uno legato all’altro. Questo cerco di fare nel mio piccolo. Ce la faremo? Solo se tutto il territorio cresce insieme, in modo armonico. Allora vedrai anche i cigli delle strade puliti, vedrai i turisti che vengono per l’arte, il paesaggio e la nostra proposta gastronomica. Deve essere una cosa di sistema. Con un paesaggio così…».

«Dove vendi i tuoi vini?»
«Principalmente all’estero. Ho appena finito di preparare la spedizione per il Canada. Elena Pantaleoni (la titolare de La Stoppa, azienda di Rivergaro, ndr) mi ha raccontato di una volta in cui era a Portland, in Oregon (Portland, mica a New York!), e in un ristorante trova in carta i vini miei, di Croci e di un altro produttore piacentino. C’erano più Gutturnio lì che in una carta dei vini di un ristorante di Piacenza!»

Nel bicchiere intanto è arrivato il Rosissima, frizzante naturale da uve barbera e bonarda vinificate in rosa con la tecnica del salasso, di un rosa pieno e brillante, piacevole e incisivo, dall’acidità ben spiccata e dalla bolla fine.
«I vini frizzanti a rifermentazione spontanea sono la nostra espressione del territorio. Vedi, se noi riusciamo a fare i frizzanti naturali è merito di questo – e mi mostra una manciata di conchiglie fossili trovate in vigna -. Il terreno qua è una giacitura marina del Pliocene, ricca di fossili e povera di azoto. L’azoto è il principale alimento per i lieviti, ed essendocene poco, a novembre, con l’arrivo del freddo, le fermentazioni si interrompono senza che tutti gli zuccheri siano stati trasformati. Il vino resta fermo così per tutto l’inverno, poi a Pasqua imbottigliamo, e il caldo successivo fa completare la fermentazione in bottiglia, così si crea il frizzante naturale»

«Quindi se io ti dico che tu fai vini pet-nat…»
«Mi incazzo di brutto! – ride-. Oggi va di moda questo termine, pet-nat, sembra che se vuoi vendere vini non devi fare altro che vini frizzanti… Ma attenzione, non basta fare dei frizzanti torbidi per fare vini buoni, santo cielo! Qui il vino è frizzante da sempre, c’è dietro una motivazione storico-gastronomica e anche geologica, come ti ho fatto vedere».
«Che ne pensi dell’ondata travolgente dei vini naturali? Ci sono sempre più locali che vendono solo un certo tipo di vini…»
«È un fatto positivo ma bisogna stare attenti che non sia solo una questione di estetica. C’è bisogno di operatori che sappiano conoscere a fondo questo mondo; improvvisarsi venditori di vini naturali per seguire una moda temporanea non giova a nessuno. Servono solide basi».

Arriva anche il momento del rubino luminoso del Rio Mora. Un vino gastronomico spumeggiante, adattissimo ai salumi e alle carni in virtù della sua tempra succosa, dell’acidità viva, e del suo corpo agile.
«I miei sono vini gastronomici, da pasto, dove la bevibilità è la caratteristica principale. Voglio fare vini sempre legati all’idea di abbinamento al cibo, facili da bere».
È una lama fresca di piacevolezza questo Rio Mora (annata 2017). Poi Elisabetta sparisce un attimo in cantina, e riappare con una bottiglia di Bonissima lasciata invecchiare, annata 2013.

«Ci tengo a farti capire la capacità di invecchiare di questi vini. C’è lo stereotipo che i frizzanti vadano bevuti entro un anno. Beh, se sono ammazzati dalla filtrazione e dalla solforosa sì, ma se sono vivi, evolvono per anni».
Il Bonissima 2013 ha la grazia struggente della maturità; si è spogliata dell’abito primario dell’aromaticità della malvasia per rinforzare le note marine e di erbe officinali, salvia, timo, santoreggia essiccate… insieme alla rotondità olfattiva classica dell’età matura di un vino. Bolla ancora viva e avvolgente, è un vino che si fa leggere e comprendere in modo istintivo. Mi ricorda la stretta di mano e il saluto in dialetto del papà di Elisabetta, mi richiama gli occhi di sua mamma.

«Guarda fuori, quei ponteggi, c’è un po’ di caos perché sto pian piano cercando di ristrutturare queste case. Non voglio che questo borgo resti abbandonato. È il posto dove i miei hanno vissuto, dove sono cresciuta, voglio che torni ad essere accogliente. Insieme al vino voglio che sia il territorio a rifiorire».

È tempo di salutarci, come se fossimo stati amici da sempre. In strada, incrociamo il papà di Elisabetta sul trattore, è appena stato a falciare l’erba. So che qui c’è un altro pezzetto delle storie incredibili che il vino permette di conoscere. Un altro pezzetto di casa.

 

Azienda Agricola Montesissa Emilio
Loc. Magnano – Case Biasini, 189 – 29013 Carpaneto P.no (PC)
Tel. +39.0523.850158 (sempre aperto, previo appuntamento telefonico)
email: info@montesissaemilio.it
www.montesissaemilio.it

coordinate geografiche: 44°50’30.1″N 9°47’06.1″E

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Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

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