Pantelleria, isola del sublime/1

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Al centro del canale di Sicilia e nel cuore del Mediterraneo, più vicina alle coste tunisine che a quelle siciliane, differente – non solo per estensione (è la più grande, 83 km2, lunga quasi 14 km e larga 8) e ubicazione (è la più occidentale) ­– da tutte le altre isole dell’arcipelago siciliano (Eolie, Egadi, Pelagie), Pantelleria è un altro luogo, un altro continente.

Non è facile arrivarci. I voli diretti dalle principali città della Penisola sono disponibili solo durante l’estate, mentre nel resto dell’anno atterrare a Pantelleria non è agevole né tantomeno scontato: il vento è il padrone dell’isola e i bimotori, invece di decollare, talvolta rimangono fermi all’aeroporto di Birgi, in attesa di situazioni meteo più favorevoli (è capitato anche a me nel mese di maggio), talaltra tentano un paio di atterraggi per poi tornare indietro. Gli arabi – che qui hanno dominato per quattro secoli, lasciando una fiorente civiltà e molti toponimi, a partire da quelli delle contrade – pare la chiamassero Bint al-ariyah, “figlia del vento”, anche se più probabilmente il nome che usavano era Qawsarah, variante dell’antico Cossyra (“la piccola”), usato dopo la conquista romana. In precedenza, epoca fenicio-punica, era conosciuta come Yrnm (per alcuni “isola degli struzzi”). Per altri Yrnm e Cossyra o Cossura avrebbero lo stesso significato: “terra del ramo di mirto”, a indicarne la fertilità.

Pantelleria è un’isola estrema: accidentata, selvaggia, bellissima. Il paesaggio è frutto di collassi vulcanici, che recano tracce delle proprie originarie vestigia in piccole e grandi concrezioni piroclastiche disseminate ovunque. La Montagna Grande che la sovrasta, alta 836 metri, è quello che resta di un antico cono vulcanico emerso dal mare, attorno al quale si elevano 24 piccoli crateri minori  chiamati cùddie, o kùddie, «le colline di Pantelleria, escrescenze tumorali di una Creazione indecisa e che sembrano scoppiare ancora nell’ebollizione dei primordi» (Giosuè Calaciura, Pantelleria. L’ultima isola).

Tutt’intorno sono visibili i fenomeni del vulcanismo secondario nelle favare, o solfatare, emissioni di vapore acqueo dai crepacci delle rocce; nelle stufe, grotte naturali colme di vapore; nelle buvire, pozze di acqua salmastra. L’incantevole Specchio di Venere, o Bagno dell’Acqua, ubicato nella parte nord-est dell’isola, è un lago colore turchese nella cui forma ellittica Pantelleria sembra quasi rispecchiarsi. È un’antica caldera che contiene acque termali dalla scura poltiglia e dall’odore di zolfo, ideale per i fanghi naturali. Ironicamente, una delle rare spiagge dell’isola – la presenza della soda la rende di un bianco abbagliante – è su un solo lato di questo lago: l’isola vanta più di 51 chilometri di costa e nemmeno una spiaggia. Nonostante le apparenze, Pantelleria è un’isola di terra non di mare, di contadini non di pescatori. Qui gli attracchi sono impervi e scendere a mare, tra rocce scabre e aguzze, nel dedalo della macchia mediterranea, significa ferirsi, non fare il bagno.


Poco lontana, Punta Spadillo, introdotta dalla sagoma antropomorfa del Re del Khagiàr, presenta uno scenario “lunare” nella teoria infinita di rocce, guglie e concrezioni, ora gigantesche ora sbriciolate, in mezzo ai lentischi e ai fichi d’india. La costa è frastagliata e il paesaggio con il faro sembra uno scorcio di Bretagna. Quasi nascosto alla vista, il Museo Vulcanologico è una tappa fondamentale per comprendere l’anima vulcanica dell’isola. La sua storia eruttiva racconta di un complesso magmatico partorito centinaia di migliaia di anni fa e suddiviso in due tipologie: la prima acida o silicea, simile a quella dei Campi Flegrei, espressione dell’antica area calderica; la seconda basica o basaltica, affine a quella dell’Etna e di formazione più recente. Tre le fasi: una prima eruttiva a bassa intensità; una seconda esplosiva (dai 181.000 ai 44.000 anni), scandita da almeno sette grandi eruzioni piroclastiche e due collassi calderici; una terza più blanda, con eruzioni di tipo stromboliano, in due principali sottofasi (dai 35.000 ai 15.000, e dai 10.000 ai 7000 anni).

Il glossario lavico dell’isola parla di rocce piroclastiche distinte, in rapporto alle loro dimensioni decrescenti, in blocchi o bombe, lapilli e ceneri. Ne fanno parte i tufi (rocce a grana fine poco coese), le pomici (molto vescicolate, prodotte durante le eruzioni esplosive di un magma pieno di silice e gas) e le scorie (meno vacuolari ed esplosive, prodotte da eruzioni stromboliane, povere in silice); i basalti, rocce ignee effusive (eruttate in superficie, contrariamente a quelle intrusive), presenti soprattutto nella parte a nord dell’isola; le più rare ossidiane, un vetro vulcanico privo di cristalli e ricco di silice; la pantellerite, una roccia effusiva acida, evoluta, dall’aspetto vetroso, ricca di silice e sodio, presente in varie tipologie (come colate laviche o depositi di pomici); le trachiti, lave poco vetrose, microcristalline, presenti nel blocco Monte Grande/Monte Gibele e contraddistinte dalla presenza di feldspato potassico. Se Pantelleria fosse una conchiglia, il nostro orecchio sentirebbe l’ebollizione del fuoco invece del rumore del mare.

Situata tra la scogliera di Khattbuàli e il bastione frastagliato di Punta Spadillo, Cala Cinque Denti, angolo d’incanto per il colore cangiante del suo mare, è il frutto più tardivo dell’ultima fase eruttiva dell’isola, quella di Kuddia Randazzo, che quasi 8000 anni fa generò il fiume di lava oggi conosciuto con Lave del Khagiàr (dall’arabo hagar, pietra nera).

Il paesaggio di Pantelleria è metamorfico. Poco lontano da qui, lungo la Perimetrale Dietro Isola, il Faraglione di Cala Levante, che si stacca da terra come un isolotto in mezzo ai flutti di un mare intinto nel blu, sembra un angolo di Costiera Amalfitana trapiantato a Pantelleria, e, poco più oltre, l’Arco dell’Elefante è un capolavoro di scultura organica: la roccia raffreddata in un’immensa proboscide frastagliata di zigrinature si getta nell’acqua della cala con impressionante effetto scenografico. Altri scorci in altri luoghi, più alti, con le chiese bianche sormontate dai campanili sullo sfondo di un orizzonte indaco ricordano alcune istantanee di Santorini.

Pantelleria vive di contrasti, di opposizioni, di meraviglie. Tutto esplode: il nero vulcanico (rocce, scogliere, muretti), il bianco accecante delle case, i colori pastello della natura, la terra brunita, l’azzurro del cielo, il cobalto del mare. Un paesaggio solare e lunare, chiaro e scuro, bianco e nero. Un atollo dalle geometrie frantumate, solido e friabile, punteggiato da grotte, insenature, cale, gole, orridi, crateri, rilievi. Una vegetazione rigogliosa, che in primavera si fa irresistibile: le fragranze dell’elicriso, che profuma di liquirizia, dei rosmarini, delle lavande, le api che ronzano continuamente intorno i fiori. A Pantelleria la natura si articola in cinque formazioni: la steppa mediterranea, che durante l’estate va incontro a fenomeni di essicamento, fitta di graminacee e diffusa nelle zone dell’Aeroporto e delle Favàre; la gariga, che cresce nei luoghi più inospitali (Satarìa e Khagiàr), con il suo corredo di lavanda, elicriso, timo, origano, artemisia arborescente, agave, fico d’India; la macchia mediterranea e la macchia foresta, insediate nelle lande più aspre (Gelfisèr, Gelkhamàr, Kuttinàr, Khagiàr, Sciuvèki) e gremite di rovi, ginepri, caprifogli, ginestre, lentischi, euforbie, eriche; infine il bosco sempreverde della Montagna Grande con lecci, corbezzoli e conifere.

Pantelleria è l’apologo dei quattro elementi: acqua (il mare), aria (il vento), terra (vulcanica), fuoco (la lava). È il trionfo del sublime. «L’angoscia inesprimibile di avere messo piede nell’estremo conclusivo della Creazione e nello stesso tempo nel laboratorio dove la Natura sperimenta se stessa e il suo atto definitivo» (Calaciura).

A questo scenario primordiale – tormentato, turbolento, tramortente – si affianca, secolare, il lavoro, strenuo e coraggioso, dell’uomo. Scandiscono il paesaggio i dammusi, le tipiche abitazioni dell’isola a forma cubica, di origine araba, costruite in pietra lavica con muri spessi, archi a tutto sesto e tetti a cupola imbiancati a calce (evoluzione delle coperture a botte prima e a capanna poi), anche a forma di palazzetto a più piani. Nati con coperture per raccogliere l’acqua piovana e dunque naturalmente “climatizzati” (freschi d’estate, tiepidi d’inverno), sono un esempio di antica architettura bio-climatica. I primi prototipi erano poco più che rozzi tuguri ai margini dei poderi, oggi sono dimore signorili. Se ne contano circa 8000 sull’isola, di cui 4000 ristrutturati. Alle vecchie pavimentazioni in tuffu (battuto di calce e lapillo) o in lastre di pietra sono seguite quelle in cotto siciliano o in maiolica campana. Gli alberi da frutto (specialmente agrumi), inseparabili dai dammusi, sono custoditi da alti muri circolari o ellittici in pietra lavica chiamati giardini panteschi (jardini), che proteggono le piante dalle raffiche di vento, trattenendo al contempo le preziose stille dell’umidità e delle condense che servono per nutrirle: il coronamento di questo torrione è appositamente inclinato verso il basso. «Di notte anche l’aria piange nel cuore del Mediterraneo e ogni lacrima distillata dall’osservazione e dall’intuizione, spinta fisicamente dalle pietre sino alla pianta, diventa profumo di zagara, zucchero, vitamia C. U jardinu è il ventre della madre, la sacca di liquido amniotico. Promessa per il futuro» (Calaciura). Il fortilizio del giardino pantesco è un abbraccio di pietra.

Tutta Pantelleria è disseminata dall’infinita serie dei muretti a secco, sempre in pietra lavica, neri come il carbone, e dei relativi terrazzamenti con cui è stato sistemato e delimitato il suolo, tra esigenze di stabilità del terreno e di proprietà fondiaria. Qui, accanto agli ulivi, potati bassi per proteggerli dalle insidie del vento, e ai capperi (i più famosi del mondo, dai boccioli turgidi e succulenti, che fioriscono da maggio a settembre, con un nuovo, faticoso raccolto ogni dieci giorni) cresce la vigna dello zibibbo in alberelli bassi interrati nelle buche. Vitigno che appartiene alla famiglia dei moscati (è noto come moscato di Alessandria), di origine mediterranea e probabilmente importato dagli arabi (l’etimo più accreditato del nome zibibbo proviene non a caso dal nordafricano zabīb, uva secca o passa, nel dialetto locale racìna), è all’origine del celebre e irresistibile Passito di Pantelleria, benché dia risultati ragguardevoli, quanto ancora infrequenti, anche nelle versioni secche.

Come i giardini panteschi, molti dei quali giacciono in stato di abbandono o rovina (se ne contano oggi sull’isola circa trecento), anche le garche (appezzamenti di terra) dello zibibbo hanno visto negli ultimi decenni un significativo svuotamento della loro estensione: dai 4000 ettari coltivati fino agli anni Settanta si è passati ai 540 attuali. Uno stato di abbandono visibile nelle terrazze vuote di vigna e invase dalla vegetazione spontanea, rovi e macchia, simile a quanto accade nelle Cinque Terre o nell’Enfer d’Arvier. Una viticultura estrema ed eroica, Patrimonio dell’Umanità UNESCO, dove l’alberello assetato e contorto vegeta e fruttifica nella sua culla di ossidiana, letti leggeri di pietra pomice che crocchiano silenziosi sotto le suole nella musicalità del “soki soki” in davanzali sul mare lungo una serie di contrade. 

continua…

Questo breve reportage di impressioni, visioni ed assaggi è frutto di due viaggi primaverili nell’isola di Pantelleria avvenuti nel maggio del 2018 e del 2019. E di due principali letture:

Giosuè Calaciura, Pantelleria. L’ultima isola, Bari, Laterza 2016.

Peppe d’Aietti e Grazia Cucci, Pantelleria. Il continente tascabile, Mazara del Vallo, Il Pettirosso Editore 2017.

Contributi fotografici dell’autore.

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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