Diari d’Oltrepò. “Il vino è una cosa seria”. Ovvero, la resistenza dei vignaioli pensanti/2

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Tornare in Oltrepò, alla corte di un “certo” Oltrepò, significa tornare alla concretezza, dimenticarsi dei fronzoli e puntare all’essenza. Che in questo caso poi è essenza di vita e di mestiere: cosa significhi cioè fare il vignaiolo qui, calati in una realtà meravigliosa, contraddittoria e difficile come l’Oltrepò, dove le ferite ancora aperte generate da visioni del territorio miopi e debilitanti convivono con una insopprimibile volontà di riscatto etico e fattuale, affidata oggi all’eloquenza di una proposta enoica che si leghi a doppio nodo con la qualità dei gesti e dei modi. Tutto dipende insomma da come intendi governare la campagna e da come intendi tradurre la tua terra in un bicchiere, affinché i vini tornino a parlare di lei con incorrotta autenticità. Ecco sì, autenticità, rispetto, idealità, concretezza, le doti su cui si fonda l’esigenza di una nuova visibilità, qui in Oltrepò.

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ANDREA PICCHIONI

“Autenticità, rispetto, idealità, concretezza… le doti su cui si fonda l’esigenza di una nuova visibilità, qui in Oltrepò”. Ma anche le doti su cui si fonda, ad esempio, la personalità di un Andrea Picchioni, vignaiolo in Val Solinga, storica culla del Buttafuoco, prossimissima a Canneto Pavese ma rientrante di già nella giurisdizione di Stradella.

Andrea ha mani grandi e fisico imperioso. Di contro, un carattere dolce e solo apparentemente timido. Dietro una voce flessuosa e acuta, dall’eloquio accurato e dalla scansione svelta, si cela una delle teste pensanti di questo territorio. Perché Andrea è un naturale accumulatore energetico: convoglia e stimola, unisce e aggrega. Attorno a lui, uno stuolo di vignaioli artigiani mossi dalle stesse pulsioni: far bene al proprio territorio, e farlo senza compromessi, fra tentazioni anarchiche e voglia di coaugulare energie, fra istintivo rigetto della burocratizzazione imperante e premurosa azione di salvaguardia dei naturali contesti paesaggistici.

Fra le tante cose che mi piacciono di lui, e che ne rendono appieno l’unicità di uomo, è che non sfrutta affatto rendite di posizione legate alla sua fama, trovando sempre il modo di coinvolgere i suoi colleghi, persone in cui crede e di cui rispetta il lavoro, anche se magari distante dalla propria concezione stilistica. Così è stato nel corso della mia ultima trasferta oltrepadana, dove il frangente di un assaggio in cantina della produzione ultima “picchionesca” si è trasformato in un affollato happening enogastronomico trascorso in pieno relax con le gambe sotto a un tavolo, con i vini di tre diversi produttori in gioco e con il conforto delle leccornie di una madre angelica che in cucina sa decisamente il fatto suo.

Dei due vignaioli che Andrea mi ha presentato quel giorno nutrivo ricordi minuti e lontani, oggi finalmente aggiornati grazie alla loro presenza, alla loro umanità e alla loro “testa fina”. Nei vini di Alessandro Torti (azienda agricola Pietro Torti) e in quelli di Franco Pellegrini, l’esemplificazione di uno di quei rari casi di corrispondenza euritmica in cui il carattere della persona e quello dei vini si ritrovano in perfetta simbiosi.

Intanto, torno a ripetermi: nei rossi di Picchioni c’è una speciale levigatezza, e una tattilità liscia e setosa, che ne raddrizza la “brutale” irruenza (Mario Soldati docet) su tonalità più educate. Fondati su un frutto còlto a piena maturazione e su una dote tannica particolarmente fine, il traguardo della compiutezza viene felicemente garantito sia pur nelle maglie strette di una consistenza robusta e di un malcelato temperamento alcolico, lì dove a comandare è la croatina (o bonarda), vitigno indomabile e primattore, accompagnato – nelle etichette più importanti – da ughetta (vespolina), barbera e uva rara, l’ossatura ampelografica avuta in dote dalla tradizione.

Forse è per controbilanciare l’attitudine alla veemenza di vini nati per ben “vecchieggiare”, e che una volta spogliatisi delle giovanili riottosità andranno a convergere su una visceralità dialogica e più equilibrata, o forse perché in Oltrepò non ci si fa mancare niente in fatto di versatilità nella proposta, che si produce qui anche un singolare metodo classico da uve pinot nero, Profilo, il cui fascino indisciplinato fa affidamento sulle pieghe ossidative lasciate in dote dal tempo e sulla permanenza eroica sui lieviti fini, un sorprendente Pinot Nero chiamato Arfena e una più recente ma deliziosa “creatura” in rosso, Da Cima a Fondo, che ripercorre i fasti del vino rifermentato in bottiglia “alla Lino Maga” in una accezione di golosa spontaneità.

Il Buttafuoco dell’Oltrepò Pavese Cerasa 2018 rilascia profumi nitidi di frutti rossi e viola; è succoso, morbido, tattilmente docile e coinvolgente. Nasce come uvaggio di croatina in prevalenza, ughetta e barbera, e si beve d’istinto.

Arfena 2016 è un Pinot Nero sottile e speziato, dritto ed affusolato. C’è un rivolo di dolcezza a marcare il timbro del territorio. E’ aggraziato, stilizzato (a suo modo), certamente personale.

Il Rosso d’Asia 2016 (croatina in prevalenza, ughetta a commento) è compattezza allo stato puro. Saldo, forte, energico, che bello il modo che ha di disporsi sul palato e di infondere pienezza e “schiocco” acido! Vibrazioni sapido-minerali ne allungano la persistenza nel verso del carattere, e lui è davvero bello, davvero futuribile.

Il Buttafuoco dell’Oltrepò Pavese Bricco Riva Bianca 2016, etichetta simbolo della casa, vanta un frutto rosso maturo maturo, una melodiosa dolcezza bilanciata da una energia motrice travolgente, una bocca calda ma integra, esplicita ma suadente.

Da Cima a Fondo 2016, rosso della Val Solinga rifermentato in bottiglia con i lieviti suoi, è una meraviglia di vino che alla briosa generosità del tratto coniuga un’eleganza composta e inconsueta, toccando vertici assoluti di golosità senza filtri e sentimentale versatilità.

 

 

PIETRO TORTI

Alessandro Torti possiede 10 ettari coltivati in regime biologico a Montecalvo Versiggia, nella Valle del Versa, lì dove il paesaggio è pura evocazione. Dalla sua persona invece emergono lucidità e una particolare pacatezza, quasi che i pensieri vengano filtrati da una consapevolezza quieta, prima di approdare a suono di parola. Il garbo gentile ed elegante di quest’uomo si riflette nell’accurata silhouette dei suoi Metodo Classico, di gran lunga i vini che vanno sancendone l’autorevolezza in ambito territoriale.

Dell’Oltrepò Pavese Metodo Classico Pinot Nero 2014 (non dosato) mi piace il lato verace e fruttato. Unito alla verve carbonica rende al sorso una rustica brillantezza, incrocio virtuoso di sapore e spontaneità.

L’ O.P. Torti Metodo Classico Pinot Nero Cruasé 2013 è intenso, vibrante, incisivo, con i risvolti ossidativi ben bilanciati dalla dote fresca del frutto. Il finale è spedito e salino, le sprezzature austere ne amplificano il carattere.

L’O.P. Torti Metodo Classico Pinot Nero 2006 trascorre “appena” 120 mesi sui lieviti ed è la prima annata prodotta. Evidenze resinose-ossidative, poi vaniglia, spezie, iodio. Dritto e affilato, senza concessioni, nella sua glaciale compostezza nasconde un carattere senza fronzoli, di sola dinamica.

Le foto di Alessandro Torti sono di Diego Ravenna

FRANCO PELLEGRINI

Quella di Franco Pellegrini è una storia di indipendenza, di affrancamento dai cliché, di felice isolamento, di amore incondizionato per i propri luoghi. Nel luminoso sorriso e nella lucidità di pensiero – pensiero obliquo e poco allineato, a ben vedere –  vi intravvedi anarchico individualismo ma anche un velo di tenerezza frammista a malinconia. Franco ispira sincerità. Così i suoi vini, di cui mi colpisce la visceralità senza filtri e la carnosa sensualità.

Nella sua casa-cantina (nonché apprezzato agriturismo) a picco sulla vigna storica del Buttafuoco, in Valle Solinga, dalle vertiginose pendenze di uno sperone di ghiaie, sabbie e argille (conglomerato di Rocca Ticozzi), da 5 ettari di vigna che ha incominciato a lavorare per conto proprio negli anni ’90, la Famiglia Pellegrini (così firma le sue bottiglie) produce vini caratterizzati e sanguigni. Floridi e irruenti se còlti in tenera età, ma “capaci di resistere al tempo e ad ogni evenienza”, come era solito sostenere Luigi Veronelli degli amati rossi dell’Oltrepò, il loro passaggio non lascia mai indifferenti, perché sembra che sappiano bene come scuotere i sensi offuscati dai deja-vu.

Solinga 2016 è un uvaggio di barbera (in prevalenza), croatina, ughetta e uva rara che fermenta spontaneamente, macera piuttosto a lungo sulle bucce e matura un annetto in fusti di rovere prima dell’imbottigliamento. Colpisce per l’essenza dicotomica e la selvatica naturalezza, che ad un naso maturo e confit, provvidenzialmente screziato da note terrose, tartufate e pietrose, fa seguire un gusto più austero e nobilmente trattenuto, contrastato, alcolico, provvisto di un trazione sapido-minerale in grado di far la differenza.

E sempre su toni austeri e personali si muove il Buttafuoco dell’Oltrepò Pavese 2015 (“copia dell’atto di instromento delli 2 febbraio 1861”, si legge in etichetta, a rimarcare la provenienza delle uve dalla vigna regina della collina del Buttafuoco): figlio della stessa concezione enologica e dei medesimi vitigni, è un rosso profondamente balsamico, intensamente fruttato (frutti neri anziché rossi) e decisamente speziato, dal temperamento caldo, dalla materia ricca e vibrante, dalla chiusura sapida e dal futuro assicurato.

La foto di Fabio Pellegrini è di Diego Ravenna

LINO MAGA

Venti giorni fa era luglio inoltrato, e noi siamo arrivati in Oltrepò che la pioggia picchiava duro, a rompere il perdurante dominio della calura che aveva imperversato sul territorio già da diversi mesi. Il sole però si è riaffacciato nel pomeriggio, proprio nel momento esatto in cui siamo entrati nella corte interna di Lino Maga, a Broni centro, in Via Cavour. La giornata si è rimessa al bello, con il cielo finalmente terso e non più intaccato dall’umidità. Cielo settembrino. Ed io dico che non è un caso.

Ho trovato Lino dimagrito, con qualche acciacco dovuto all’età. Lui alla ristrettezze imposte dalla disciplina medica va rispondendo con il non collaborazionismo. Dopo le prime MS senza filtro (ne ha fumate 8 in un paio d’orette) ha incominciato a carburare e a dispensare i suoi sorrisi sornioni, soprattutto dopo ogni battuta sagace particolarmente apprezzata, e quando Lino Maga sorride ti si apre il cuore.

Il Commendator Maga Lino non abbisogna di presentazioni, è la faccia pulita dell’Oltrepò, la cui intransigenza e la cui indole combattiva in difesa del vignaiolo-artigiano, quale lui è sempre stato, ne hanno comportato da un lato la consacrazione ad esempio virtuoso per una intera categoria, dall’altro il quasi isolamento rispetto ad un mondo complicato come quello dell’Oltrepò vitivinicolo, svilito dai malpensanti e da certe istituzioni cieche. Ma questa è storia, e per chi volesse saperne un po’ di più della sua incredibile storia e del suo Barbacarlo, possiamo ben rimandare ad un pezzullo che scrissi su di lui qualche annetto fa, intitolato “ Il vino è la terra. Lino Maga e il suo “antico” Barbacarlo“.

Sono state due ore intense, a tratti contemplative, scandite dalle proverbiali pause e dall’immancabile alone di fumo, e poi le frasi nette dentro un pensiero impressionista dalla metrica jazz, la voce come un soffio roco, i ricordi e gli affetti, e l’auspicio grande verso le nuove generazioni. Abbiamo incontrato anche il figlio Giuseppe, super indaffarato continuatore della specie, con il quale abbiamo scambiato pensieri veloci sul concetto di vino naturale, o meglio, per dirla alla Maga, sul vino genuino.

Abbiamo bevuto Barbacarlo 2015, 2016 e 2017. Abbondantemente. Come sempre, vini che non abbisognano di parole, ché ti entrano subito in circolo per non lasciarti più. Nel frattempo, Lino ha mandato a memoria la sintesi qualitativa di ogni annata prodotta dagli anni Sessanta fino ad oggi: questa sì, questa no, questa eccellente, questa asciutta…. Implacabile. Poi purtroppo è giunto il momento del commiato. Emozionati, lo abbiamo ringraziato per il tempo speso in nostra compagnia e per i vini parlanti. Lui ci ha risposto: ” io non sono nessuno, sono solo un contadino. E ricordatevi: il futuro è nelle vostre mani”.

Io mi son sentito piccolo piccolo e totalmente inadeguato nell’eventuale ruolo di “fabbricatore” di futuro, ma lui che attende nell’aia per salutare la nostra partenza con la mano è una visione che ancora fa bruciare gli occhi di commozione.

Continua…..

Foto “Maga experience” di Lorenzo Coli

FERNANDO PARDINI

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