Bellezza e sfacelo. Riflessioni sulle Calabrie/3

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Contraddizioni, contrasti. Quelli del paesaggio e quelli dell’uomo. Alle porte dell’Aspromonte, Pentedàttilo, frazione di Melito di Porto Salvo, è una visione che lascia senza fiato. La montagna afferra un villaggio di poche case con le cinque dita dei suoi pinnacoli di roccia (da cui il nome, dal greco pentedáktylos). Il borgo sembra ricavato, non costruito, dalla rupe che la sovrasta con un effetto scenografico strabiliante. Ci si aggira tra case semiabbandonate e fatiscenti, alcune delle quali irrimediabilmente in rovina, dove il bar è chiuso, l’ospitalità delle case rurali segnati sui cartelli sembra una chimera, in preda alla malia di un luogo a metà tra le rocce incombenti di “Picnic ad Hanging Rock” e un western d’Arizona.

C’è un senso di deserto intorno a questo angolo monumentale che dista pochi chilometri dalla costa. Scendendo dai tornanti, vedi una collina da dove sembrano precipitare in picchiata degli alberi d’olivo piantati a ritocchino e poco sotto un fabbricato in cemento armato da cui spuntano i tondini del non finito calabrese. La violenza del paesaggio, la violenza sul paesaggio.

Arrivando a Reggio di Calabria le contraddizioni esplodono. Dov’è finita «la bellissima», come l’apostrofa Cesare Malpica nel suo Dal Sebéto al faro. Impressioni di viaggio nelle Calabrie del 1845? Tale da innalzarsi al di sopra dei sinonimi, da sortire «quella voluttà che ti ricerca tutte le fibre; quell’incanto che ti ammalia; quella dolcezza che ti seduce – quell’inesprimibile non so che; ad una volta sentimento e idea, astrattezza e realtà, acquiescenza e desiderio; che ti rapisce alla terra mentre sei su la terra; che ti satolla, e ti solletica, e sfida tutti i sapienti a penetrare il suo mistero».

Che ne è della città cantata da Edward Lear «tra infiniti fichidindia e sentieri d’aloe, giardini pieni di fichi e aranceti»? «Reggio», scrive, «è veramente un grande giardino e senza dubbio uno dei posti più belli che si possono trovare sulla terra. […] Sotto le mura del castello sono sparsi giardini di aranci, limoni, cedri e bergamotti, e tutto questo genere di frutta è chiamato dagli Italiani “agrumi”; il grande verde che va dal colle alla spiaggia e fin dove l’occhio può vedere da una parte all’altra, è solo diviso dalle grandi linee bianche di qualche corso di torrente».

È vero: la città è stata ricostruita dopo il devastante terremoto del 28 dicembre 1908 (solo una cinquantina d’anni dopo!) e il lungomare del «più bel chilometro d’Italia», come pare avesse a definirlo Gabriele D’Annunzio (ma Malpica parla addirittura di un viale «lungo dodici miglia»), con le sue palme, i giganteschi fusti dei suoi ficus magnolioides, il mare che è una meraviglia di azzurri e cobalti, l’orizzonte dove sfila come un miraggio a portata di mano la costa siciliana, con Messina in primo piano e l’imponente silhouette dell’Etna, a Muntagna, sullo sfondo, non lascia indifferenti. Lear peraltro magnificava esattamente il contrario, a sancire un diverso primato, ovvero la visione della costa calabra provenendo dal porto di Messina: «Reggio scintilla sulla riva del mare, Scilla sulla sua rocca dove la guida (metaforicamente) dice che si possono forse sentire enormi cani abbaiare attraverso lo Stretto; e si vedono l’alto e maestoso Aspromonte, coronato dalle nuvole, e le scogliere perla-pallido di Bagnara».

Ma usciti dal centro, con la sua pianta a scacchiera, i lunghi viali paralleli alla costa che s’inerpicano in salita (c’è addirittura un tapis roulant aperto durante il giorno per alleviare gli sforzi delle persone, non solo le più anziane), i suoi palazzi tardo-liberty dai colori pastello, i negozi di corso Garibaldi, l’impatto urbanistico sfiora la desolazione di una periferia che si allarga a macchia d’olio senza arte né parte, anonima e scialba: caseggiati e palazzine di assoluto grigiore, abusi edilizi, strade piene di buche, viabilità assassina, pattume sui marciapiedi.

Il contraltare dei lordazzi (da lordìa, sporcizia) che infestano le vie è naturalmente rappresentato dall’accecante bellezza dei Bronzi di Riace, i due magnifici e possenti guerrieri in bronzo scoperti nelle acque al largo di Riace nel 1972. Superbi esempi di scultura attica del V secolo a.C., sono posizionati al centro di una sala climatizzata al piano terra del Museo Archeologico Nazionale, cui si accede dopo una piccola sosta in una “stanza filtro” che elimina gli agenti inquinanti provenienti dall’esterno. I due Bronzi dai tratti greco-mediterranei e dallo sguardo che “buca lo schermo”, in posa perfetta e flessuosa, da atleti a riposo prima che da guerrieri, visibili tutt’intorno nella loro armoniosa, integrale nudità (guardateli verso l’ora di chiusura, quando non c’è quasi più nessuno: sarà un’esperienza intima e indimenticabile), sono naturalmente l’attrazione principale di questo museo hi-tech, quasi avveniristico se paragonato al resto delle infrastrutture reggine e calabresi.

L’interesse della collezione non si esaurisce comunque nei Bronzi o negli altri due importanti pezzi della stessa sala (la meravigliosa testa bronzea del Ritratto di Filosofo della metà del V secolo a.C. e il suo non meno impressionante e coevo dirimpettaio, conosciuto come Testa di Basilea, sempre bronzeo, dalla lunga barba ondulata e da una benda tra i capelli, ambedue scoperti nel 1970 nel relitto di Porticello), ma coinvolge anche gli altri allestimenti su due piani (livello A: preistoria e protostoria; livello B: città e santuari della Magna Grecia; livello C: necropoli e vita quotidiana della Magna Grecia; livello D: storia di Reggio fino all’età romana con il kouros in marmo pario del 500 a.C.; i Bronzi di Riace e il relitto di Porticello; livello E: necropoli ellenistica, lapidario ed esposizioni temporanee).

Viaggio sulla Costa Viola con Eleonora Uccellini, reggina innamorata della sua terra che mi fa da Cicerone. Eleonora si è laureata con dottorato in Conservazione dei beni architettonici e ambientali presso l’Università di Reggio Calabria, ha lavorato nel campo della promozione dell’enogastronomia locale e della valorizzazione del patrimonio culturale e da due anni è la locandiera di Casa Canale, confortevole R&B di Reggio dove l’ospitalità è una vocazione e dove si organizzano eventi musicali, teatrali, formativi, corsi di cucina.

La Costa Viola – così chiamata, pare addirittura da Platone, per i particolari riflessi cangianti del suo mare, che non si possono più definire semplicemente blu – si allunga sulla sponda tirrenica della regione dallo stretto di Messina, a nord di Villa San Giovanni, fino a Palmi. Qui scorrono altri luoghi d’incanto, come la rupe di Scilla, dominata secondo la leggenda dal celebre mostro a sei teste che assaliva le navi dello stretto, uno sperone di roccia a picco sul mare che divide la Marina Grande da Chianalea, il borgo dei pescatori dove gustare il panino con il pesce spada di fronte al mare al Civico 5 o una squisita granita al bergamotto da Zanzibar. E altri contrasti più o meno stridenti.

I vigneti sopra Bagnara Calabra, ad esempio, sono sparigliati in modo disordinato, sistemati su terrazze e contornati da muretti a secco (armacìe) nel mezzo di una vegetazione fascinosa, spontanea, caotica. In cima a queste vigne, sotto una canicola spietata, lo sguardo oscilla dall’incanto del mare “viola” di fronte a sé alla visione soggiogante del viadotto Sfalassà sopra la propria testa. Noto anche come Ponte di Bagnara, è una costruzione in acciaio e calcestruzzo armato inaugurato nel 1972, ovvero nello stesso anno in cui i Bronzi vennero rinvenuti al largo di Riace: con la sua vertiginosa altezza di 253,78 metri risulta essere il ponte ad arco spingente più alto del mondo e il terzo in assoluto in Europa dopo il Viadotto di Millau in Francia e, sempre in Calabria, il Viadotto Italia sul fiume Lao, tra Laino Borgo e Laino Castello, nel Pollino.

Dagli spettacolari, eroici vigneti a picco sulla Costa Viola si producono un paio di vini rossi “di mare” che ogni appassionato dovrebbe conoscere. Sono vinificati nella Casa Vinicola Criserà, una cantina-capannone sotto il ponte dell’autostrada in uno dei luoghi più brutti nella provincia, Catona, che non è più il villaggio ridente contornato da agrumeti che Malpica ricordava nel suo libro di viaggio.

Di lunga tradizione storica (la sua fondazione risale alla fine dell’Ottocento), Criserà produce varie etichette, ma i vini di maggiore caratterizzazione sono fuori discussione quelli prodotti dalle vigne locali di nerello calabrese, malvasia nera e gaglioppo. Da questo uvaggio, con vendemmia ai primi di ottobre da vigneti trentennali e vinificazione in acciaio, nasce Scilla 2018, un rosso che profuma di cappero, di macchia mediterranea, di piccoli frutti neri, che concentra il più classico calore mediterraneo in un palato succoso e piccante, acido e saporito, carnoso e contrastato, con fresco e salmastro finale di sa

lsedine.

Ancora più intenso e avvincente l’Armacìa Costa Viola 2017, apologo della viticoltura a gradoni di questo incantevole e controverso tratto della costa reggino-tirrenica. Dai vigneti terrazzati coltivati da piccoli produttori riuniti nella Cooperativa Enopolis Costa Viola e da una vinificazione tradizionale in acciaio, nasce un rosso in cui alla malvasia nera, al nerello e al gaglioppo si aggiunge l’uva prunesta, così chiamata perché quando è matura sa di prugna: sfoggia un colore amaranto-viola, profumi di Mediterraneo, di macchia, di salsedine, di sangue, di acciuga. Il palato è succoso e solido, di bella naturalezza, con sensazioni di cappero e prugna, di susina e macchia, di elementi selvatici per un profilo dinamico, contrastato, guizzante. Un rosso che sa di mare, che respira il mare, che restituisce il mare. «Il problema», mi racconta Vincenzo Tramontana, che guida l’azienda con i suoi tre fratelli, occupandosi della parte amministrativa e commerciale, «è che i vigneti si stanno progressivamente estirpando per costruire case, mettendo a serio rischio la sopravvivenza della viticoltura locale e di questo vino».

Nonostante i clamorosi contrasti e le clamorose contraddizioni di questa regione (o forse proprio per questo), c’è qualcosa di potente, di irresistibile, di viscerale che ti entra dentro, un “mal di Calabria” che va al di là di tutto e che è più di un languore o di una nostalgia: è un richiamo che ti spinge a tornare. Lo conoscono bene i professionisti calabresi che hanno deciso di rimanere e quelli che hanno studiato altrove – a Roma, a Firenze, a Bologna, a Milano – e poi sono tornati.

La prossima volta, allora, racconterò l’Aspromonte.

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Contributi fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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