La valorizzazione del cru nella legislazione italiana: le menzioni geografiche aggiuntive (MGA) in Piemonte

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In un precedente articolo ho cercato di sintetizzare alcune mie considerazioni su come in Francia viene concepito il concetto di cru: come è stato declinato, e soprattutto come, in ispecie, ciò conduca a una gerarchia qualitativa dei prodotti. Vediamo adesso cosa succede in Italia.

Tanto per cominciare non abbiamo un catasto viticolo nazionale, con tutto che siamo (spesso) il paese che produce più vino al mondo. La stessa Istat, in occasione del censimento 2010, ha riscontrato variazioni sull’ammontare della superficie vitata rispetto a valutazioni basate sugli estimi catastali dell’ordine del 13,4% (!)[i]. Il Ministero delle Politiche Agricole aveva costituito apposita società per implementare un GIS (Sistema Informativo Territoriale) che incrociasse i dati provenienti dai più diversi archivi con rilievi aerofotogrammetrici, anche ai fini dell’erogazione dei contributi all’espianto dei vigneti concessi dalla Comunità Europea: in tale occasione, solo in Puglia furono rilevate discrepanze sulla superficie vitata dell’ordine dei migliaia di ettari.

E vogliamo parlare di cru?

Le Langhe rappresentano l’area di produzione italiana con cultura enologica più eminentemente francese (anzi, di matrice borgognona). Per questo territorio esiste un copioso archivio di prezzi delle uve provenienti dai diversi vigneti, nonché dovizia di studi storici, geologici, climatici atti a perimetrarli. E infatti, dopo estenuanti discussioni, sono state qui “promulgate” per la prima volta le già famigerate Menzioni Geografiche Aggiuntive, sciaguratamente ribattezzate Unità G.A., cosicché l’acronimo diviene “UGA”, come l’indimenticata figlia di Fantozzi.

Plaudiamo alla coerenza e alla lungimiranza dell’idea, ma abbiamo qualcosa da eccepire sulla sua realizzazione, che infatti ha scontentato praticamente tutti. In ordine sparso:

1.       E’ mancato il coraggio. Ovvero, al profluvio di menzioni non corrisponde una gerarchia qualitativa. Si può capire che ciò tocchi nervi scoperti, poiché andrebbe ad intaccare valori fondiari già importanti. Peraltro, i produttori e i consumatori italiani competenti NON SONO STUPIDI, E SANNO PERFETTAMENTE quali sono i vigneti corrispondenti alle menzioni migliori. Quindi coprirsi con la proverbiale foglia di fico, accettando una soluzione alla volemose bene del tipo “tutte le menzioni sono uguali”, è una contraddizione smentita dalla realtà.

2.       Ma non tutti i consumatori sono competenti o sanno individuare i cru migliori. Occorre non dimenticare che una menzione ulteriore in etichetta introduce informazioni aggiuntive che possono più confondere che altro, specie quando non hanno un riscontro diretto con quanto si ritrova nel bicchiere. In soldoni, si scorge un nome altisonante in etichetta e si pensa a priori a una qualità superiore che potrebbe non esserci (con buona pace delle previste rese per ettaro inferiori per le menzioni), oppure, se c’è, non è necessariamente connessa a quanto il vigneto di riferimento effettivamente dovrebbe conferire.

3.       Allora qui melium deficere quam abundare, ovvero tutto quello che NON C’E’ in etichetta non può trarre in inganno. E se menzione deve essere, che vivaddio corrisponda a qualcosa di più e di diverso. Altrimenti, è più onesto farne tranquillamente a meno. Più onesto, già, ma non necessariamente più remunerativo.

4.       Inoltre, il modo con cui alcune menzioni sono state definite e/o subito emendate grida allo scandalo. Vedi un cru come Cannubi dilatato fino a includere l’areale Muscatel, dicitura cancellata d’imperio “poiché vi era rischio di confusione per il consumatore con i vini a base di Moscato” (sic!!).

5.       Oppure la Bussia, anfiteatro fuoriclasse di vigne le più diverse per esposizione, ventilazione, altitudine, granulometria del suolo, tutte caratteristiche che il Nebbiolo distilla con proverbiale puntualità; purtroppo è stato collezionato in una nebbia indifferenziata che sussume una potenziale diversità di meravigliosa fecondità (e che fortunatamente i produttori continuano a perseguire). E da qualunque cartografia, la dimensione di questo cru (ovvero, lo ricordo, una vigna le cui caratteristiche specifiche la distinguono da quanto è adiacente per riconoscibili personalità e qualità) emerge abnorme, senza alcun legame con la logica né tanto meno con la pedologia.

La analoga iniziativa presa a Diano d’Alba per il Dolcetto potrebbe essere propedeutica a un’effettiva valorizzazione di un vitigno che ha grossi problemi di immagine, purché l’eventuale affermazione di singoli cru non svilisca (mettendola in ombra) la grande massa della produzione. E lo stesso in casi analoghi, come il Nizza DOCG per la Barbera, che peraltro gode di buon successo.

E questo è tutto per il Piemonte. Ma il problema si pone anche per le altre regioni italiane. Ne parlerò in un prossimo articolo.

[i] Fonte: https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/article/31/34/la-viticoltura-italia-quali-dimensioni-produttive

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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