Cronaca di una serata indimenticabile: le nuove annate di Montevertine e molto altro

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«La 2018 è una vendemmia che vorremmo avere tutti gli anni, la 2017 mai». Così esordisce Martino Manetti nella presentazione delle nuove annate di Pian del Ciampolo, Montevertine e Le Pergole Torte. Una serata molto bella passata intorno a un lungo tavolo presso l’Osteria dell’enoteca in via Romana, a Firenze.

L’attesa delle nuove annate di Montevertine riveste un’importanza che va oltre la singola prestazione enologica. La realtà della famiglia Manetti a Radda in Chianti è un’icona produttiva la cui storia aziendale, la cui continuità qualitativa e la cui coerenza stilistica rappresentano una sorta di riferimento generale in grado di definire le coordinate essenziali di una vendemmia per un vitigno, il sangiovese, e per un territorio, il Chianti Classico.

Martino Manetti è in piedi mentre il volume crescente delle chiacchiere suggerisce la convivialità di questo incontro. Ci zittiamo subito quando il padrone di casa entra nel merito dei vini che assaggeremo nel corso della serata. «Si impara sempre da ogni vendemmia – ci dice – e, d’altra parte, uno dei valori in cui crediamo con forza è quello di riflettere fedelmente l’andamento di un’annata, nel bene e nel male. I nostri vini hanno evoluzioni difficilmente pronosticabili nel lungo periodo ed è sempre divertente a distanza di anni rimanere sorpresi da una vecchia bottiglia che pare abbia vissuto una propria vita indipendente dalle nostre cure e aspettative».

Nella sua trasparente leggerezza il Pian del Ciampolo 2018, da uve sangiovese, canaiolo e colorino, rivela una vendemmia che ha donato al vino densità e dettagli. In questa fase embrionale del percorso evolutivo si gusta la verve dinamica che regala succosità dalla quale si sprigionano aromi agrumati di mandarino. La levità del sorso libera bene il palato da qualche contrattura giovanile già smorzata del resto dall’ottimo piatto in abbinamento: ceci in zimino, ben fatti, conditi con olio extravergine di Montevertine.

Più complesso l’assaggio del Montevertine 2017 (sangiovese, canaiolo e colorino), affinato in grandi botti di rovere. Il campione, oltre che prelevato da botte, ancora non è stato assemblato nella consueta e decisiva operazione di cantina in cui Martino, l’enologo Paolo Salvi e pochi altri decidono la composizione del Montevertine futuro assaggiando i tanti affinamenti. Una sorta di azzardo quindi; ma siamo tra amici intorno a un tavolo, in cui non è tanto il giudizio su questa particolare bottiglia a contare quanto approfondire, e di questo si deve ringraziare Martino, il lavoro dietro le quinte dell’azienda chiantigiana.

È vino complicato, in effetti, in cui la parte vegetale e tannica ingombra e frena la materia liquida. Per fortuna, a una settimana di distanza, chi ha assaggiato ancora questo vino a Terre di Toscana a Lido di Camaiore, ottenuto stavolta dal taglio crediamo definitivo, è rimasto molto ben impressionato. Ciò però non conta, vale di più parlare di un’annata difficile in cui la gelata primaverile prima e la siccità poi hanno messo a dura prova l’equilibrio delle vigne «Non è stato facile scegliere il periodo giusto della vendemmia e selezionare i grappoli degni di questo vino» confessa Paolo Salvi.

Eppure il quadro a tinte fosche tratteggiato dai commenti sull’annata 2017 viene per fortuna messo in discussione dal vino successivo che tutti aspettiamo, senza dircelo apertamente, fin dall’ingresso in osteria. Forse l’unico vino la cui etichetta genera curiosità quanto il suo sapore. Le Pergole Torte 2017, sia pure campione da botte e ancora non assemblato, rivela un allungo gustativo di pura sostanza nobile, percepibile nella densità depositata nella parte terminale della bocca, appena prima della deglutizione. È in questo cuore di energia che il vino raggiunge, integra e armonizza un corredo gustativo ancora scontroso che rivela i tratti di una vendemmia estrema che costringe il piacere della complessità in pochi esemplari alcolici.

Il risotto “riserva san Massimo” al piccione mantecato al formaggio Monte 27 esalta ancora di più la tessitura del vino. Al tavolo ci scambiamo opinioni sul fatto che, forse, è l’uso della barrique a donare quella dimensione aggiuntiva al vino in grado di rintuzzare i tratti indomiti, pur nella precarietà del campione in assaggio. Martino dissipa ogni dubbio: «In annate del genere che definire estreme è un eufemismo – ci dice – le vigne vecchie sanno sempre come comportarsi ». La saggezza delle piante antiche: la suggestione di questo pensiero porta a bere un altro bicchiere e a pesare quella goccia di Pergole come un dono raro e prezioso. Così è.

Ma non è finita. Viene servita una sorra di chianina brasata con purè di patate e al contempo entrano 9 litri di vini suddivisi equamente in tre bottiglioni da 3 litri ciascuno coperti. “Selezione a sorpresa dell’azienda Montevertine” recita il menù. Che bella sorpresa, pensiamo tutti noi.

Purtroppo il Sodaccio di Montevertine 1986 è condizionato dall’ossidazione che ne vela l’espressione aromatica e la complessa leggerezza gustativa. Il Sodaccio è un vino da singola vigna di 1,5 ettari piantata nel 1972, esposta a sud-sud/est ad una altezza tra 380 e 420 metri, su terreno calcareo, duro e sassoso, contigua alla vigna storica del Pergole Torte. Nato su specifica richiesta di Giorgio Pinchiorri, è stato prodotto in dodici annate tra il 1981 ed il 1998. Una rarità del genere rovinata dal tempo: che peccato! Ma sono gli incidenti di percorso che occorrono solo ai privilegiati come noi stasera.

Fausto Ferroni, degustatore di Slow Food, della solita annata ne ebbe a scrivere nel 2013 in occasione di una verticale completa “Ennesima conferma dell’attuale stato di grazia di molti grandi vini toscani, base sangiovese, in questa annata non catalogata tra le più accreditate. Il naso è il naso della verticale: sfumato e cangiante, floreale e dal fruttato integro, nettamente salmastro e iodato, ben definito e con splendida e fine terziarizzazione. La bocca non ha grande peso, si muove con eleganza e passo felpato, con tannino ben risolto e saporito. Manca il guizzo finale e la profondità di altre annate, e, alla distanza, non nasconde la sua intrinseca fragilità. Ma non si può chiedergli di più…” Siamo certi, per esperienza, che tale intrinseca fragilità sia una filigrana sottile di finezza destinata a durare, e che questa sia una bottiglia maledetta (3 litri ahinoi). Ma solo altri incontri potranno confermarlo.

Il Montevertine 2004 è compatto, spigoloso e vibrante di acidità. Un diamante grezzo, vien da pensare d’acchito, al quale il tempo (5 – 10 anni) donerà la rarefazione e l’infinità dei dettagli propria delle belle annate; annate fresche e ricche di struttura che oggi definiamo “classiche”. Ma mentre mi perdo in questi pensieri il vino e l’ossigeno dialogano e al sorso successivo si stagliano nella densità della materia sensazioni di ferro e agrumi con una succosità nuova che ben si armonizza con il piatto di carne.

Scopriamo infine Le Pergole Torte 1995. È sublime, semplicemente. La levità dell’ingresso e il tratto setoso del centro bocca dispensano aromi delicati di frutta fresca e complessità balsamiche che rimangono a lungo nel succo, ereditate dalla freschezza acida che sostiene il sorso. Vino tra i migliori mai assaggiati, che si pone tra i monumenti nella mia personale educazione al vino.

Mi riprendo da questo sorso convinto della sua assolutezza. Pare strano come nella felicità di un fine cena splendido (felicità che in questo periodo così difficile per tutti appare un remoto appiglio per speranze future) ci si possa ritagliare un momento di riflessione e crescita di consapevolezza: potere del vino e magia della sua suggestione.

Con divertita impazienza Martino si alza dal tavolo per fare un annuncio. «Siccome invecchio e qualche sfizio me lo voglio togliere… ecco che Montevertine è diventata produttrice di Gin, naturalmente con tutte le botaniche offerte dal podere», conclude ridendo.

Il Gin di Montevertine è servito con splendidi mezzi paccheri “Afeltra” cacio e pepe cotti alla perfezione. Si tratta di un Gin Tonic per me abbastanza violento che non saprei ben definire ma del quale avverto il piacere della temperatura bassa, l’afflato balsamico delle erbe, l’amicizia del colpo alcolico. Non essendo però un cultore della materia mi fermo a queste impressioni grezze che mi spediscono direttamente nell’ebbrezza, alla quale serviranno due caffè e una bella camminata nel freddo cittadino per dileguarsi e lasciare soltanto tracce memorabili di una serata splendida.

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Fabio Pracchia

Vive sulle colline lucchesi. È uno dei principali collaboratori di Slow Wine, la guida annuale del vino pubblicata da Slow Food Editore. Si occupa da circa quindici anni di vino e cultura cercando di intrecciare il lavoro alcolico con quello narrativo.

1 COMMENT

  1. Beh…poteva anche portare una seconda bottiglia del Sodaccio visto che ne ha……devi anche mettere in preventivo qualche bottiglia storta…..boh…

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