COVID, la scienza e i vini naturali/1

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La drammatica epidemia di coronavirus, che ancora ci attanaglia, ha scatenato un caleidoscopio di reazioni. Se da un lato ha messo allo scoperto fragilità inaspettate del nostro modo di vivere, dall’altro ci sta facendo riscoprire modi di vita meno frenetici. La rapida reazione dell’ambiente naturale alla rarefazione della presenza umana è stata sorprendente (delfini nei mari, paperette a spasso in città, non si contano i filmati che lasciano increduli) e piacevolmente sorprendente è stato anche il ritorno della razza umana all’ascolto dell’informazione autorevole, troppo abitualmente subissata dal rumore di fondo del pettegolezzo, della credenza, della bufala, per dirla alla moderna, delle fake news.

Una reazione comprensibile, almeno nei popoli con un minimo di cultura laica: “arriva un pericolo reale? ascoltiamo gli esperti!” Sì, è vero, c’è anche chi si è affrettato a comprare un’arma da fuoco, ma rimaniamo in Europa, oltremare sono oltremodo strani. Un ritorno quindi a una visione razionale, a una certa fiducia in quella che chiamiamo scienza e anche negli scienziati, benché questi fallibili, in quanto umani.

Cosa sia la scienza, ovvero il metodo scientifico, noi italiani dovremmo saperlo bene, noi toscani anche meglio (idiosincrasia dei livornesi a parte) visto che fu il pisano Galileo a consolidarlo una volta per tutte. E qui cito da Wikipedia ché non saprei dirlo meglio:

Il metodo scientifico, o metodo sperimentale, è la modalità tipica con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile, verificabile[2] e condivisibile. Esso consiste, da una parte, nella raccolta di dati empirici sotto la guida delle ipotesi e teorie da vagliare; dall’altra, nell’analisi rigorosa, logico-razionale e, dove possibile, matematica di questi dati, associando cioè, come enunciato per la prima volta da Galilei, le «sensate esperienze» alle «dimostrazioni necessarie», ossia la sperimentazione alla matematica.

Dallo scoppio dell’epidemia, poi diventata pandemia, abbiamo assistito all’accumularsi dei dati prima, poi alla creazione di ipotesi e teorie, alla loro verifica e smentita, alle azioni conseguenti, tutto nei tempi brevi dell’emergenza e sotto l’ovvia attenzione del mondo. Abbiamo assistito anche alla rapida perdita di credibilità dei politici meno accorti (“curiosamente” spesso di destra), i Boris Johnson, i Trump, i Bolsonaro (per tacere dei piccoli emuli italici) il cui iniziale impeto gradasso è stato prontamente censurato dagli esperti prima, e dal virus poi. Insomma, un bell’esperimento in diretta e la prova evidente che quando il gioco si fa duro è bene sapere come giocare.

Si dice che non torneremo come prima, non saprei, ma certo se il non tornare come prima lo decliniamo in termini positivi ne sarei ben contento. Tra le tante, una maggior attenzione a quanto è scientifico, e quindi reale, me la augurerei, non certo per negare fedi e spiritualità, ma per tenere ogni cosa al suo posto, come si era soliti fare in tempi non lontani. Così, visto che L’AcquaBuona non è una rivista di epistemologia, vorrei parlar di vino, un dominio di stretta materialità, che evoca quella convivialità in questo momento negata e il forte abbraccio di una bevuta insieme. Perché sì, anche nel campo di questo nostro amato vino, di questa cosa così terrena, un po’ di ultramondano vi si è infiltrato.

Vorrei parlare di VINO NATURALE, di come tale definizione mi piaccia per l’aggettivazione in grado di alimentare le migliori speranze, di come tale naturalità venga talvolta interpretata in modo sovrannaturale, aggiungendo un di troppo che potremmo risparmiarci (di certo se lo potrebbe risparmiare il vignaiolo). Cosa sia un vino naturale è gran fonte di dibattito, un dibattito certo anche motivato dal crescente apprezzamento che vini così nominati trovano tra esperti e pubblico; insomma, un dibattito che spazia dal filosofico al commerciale, che contrappone idee ma anche interessi.

E così, mentre in Italia alcuni vignaioli tentano un superamento dell’idea stessa di vino naturale per contrastare l’ovvia corsa a qualificarlo come tale anche da produttori che, a detta dei primi, non ne sono degni, in Francia più pragmaticamente si tenta un passo in avanti a tutela del consumatore, consentendo la dicitura “Vin méthode nature” su bottiglie prodotte seguendo un preciso disciplinare. Si potranno chiamare “vini naturali” quelli prodotti con uve provenienti da agricoltura biologica, raccolte manualmente, vinificate con lieviti non selezionati ecc. ecc., secondo un manifesto promosso dal Syndicat de défense des vins naturels.

La notizia ha avuto ovviamente grande eco anche nel nostro paese, dove sono numerosi i vignaioli sensibili all’argomento e forse ancora di più le associazioni che promuovono stili, anche diversi, di naturalità. La traduzione giornalistica, si sa, è spesso affrettata, ed ecco così che in alcuni casi, riportando la notizia, l’uva è diventata “da agricoltura biologica e biodinamica,” perché ormai biologico e biodinamico sono diventati un po’ come gli Assiri e i Babilonesi dei nostri libri delle scuole elementari: vanno sempre in coppia.

E diciamolo, se “biologico”, specialmente in campo vinicolo, è diventato un termine quasi scontato, “biodinamico” mantiene quell’aura di mistero che fa brillare gli occhi del sommelier di turno quando ve lo propone. Un atteggiamento che sinceramente mi crea un po’ di fastidio, perché nella maggior parte dei casi sono sicuro che il sommelier, o ristoratore che sia, probabilmente usa l’aggettivo senza una conoscenza men che superficiale dell’argomento.

Non è questo certo un caso isolato, si tende tutti a orecchiare un termine, ad associarci un giudizio positivo o meno, magari pronunciato da persona di cui ci fidiamo, e a mantenere tale idea anche senza sapere nulla del significato reale dello stesso. Un esempio poderoso è quello dei farmaci omeopatici, apprezzati da buona parte della popolazione, e in bella evidenza sopra ogni insegna di farmacia, quando la stragrande maggioranza delle persone non conosce assolutamente il significato di omeopatia (etimologia a parte), né come un farmaco omeopatico si differenzi da un farmaco vero.

Sì, “vero”, perché l’omeopatia non solo non ha nulla di scientifico, ma neppure è fondata logicamente, e, soprattutto, non ha nessun riscontro sperimentale secondo quanto sopra definito. In due parole, l’omeopatia non esiste. Ebbene, sono sicuro che basterebbe un minimo sforzo di conoscenza e l’utilizzo del solo buon senso per rendere chiaro a tutti, o quasi, quanto appena affermato. Ma non è questo il momento di discuterne, tiriamo avanti.

So bene che a questo punto sto rischiando di perdere una buona parte dei lettori, che potrebbe giudicarmi prevenuto, ma vi chiedo un po’ di pazienza e mi anticipo, sulla biodinamica il mio giudizio non sarà così tranchant.

Prima di procedere torniamo però al metodo scientifico e al suo utilizzo nelle scienze che studiano le strutture viventi, quali la biologia, l’agronomia (tra cui la viticoltura) e anche la medicina. Il modo di procedere così ben descritto da Galileo si adatta alla perfezione ai sistemi semplici, o meglio a quelli semplificabili, quelli tipicamente studiati in fisica, che accettano una intellegibile rappresentazione matematica.

Quando si riesce infatti a formulare matematicamente la teoria che sottende un certo fenomeno, siamo a cavallo. A quel punto la fase empirica dello studio lascia il posto alla speculazione teorica, e si può poi procedere all’esperimento per verificare la teoria, ma sapendo già cosa andare a cercare, e non a tentativi. Sulla potenza delle formulazioni teoriche in fisica non importa neppure stare a discutere, e neppure serve citare i successi strabilianti di teorie al loro esordio sembrate esoteriche, quali la relatività einsteniana o la meccanica quantistica; basta guardarsi intorno, o meglio davanti. Il computer o il telefono che stiamo utilizzando per leggere non è stato progettato a suon di tentativi, ed è sì un sistema complesso, ma solo come complicata addizione di mattoncini elementari semplici (transistor e via dicendo) che obbediscono precisamente alle leggi della fisica, secondo le quali sono stati progettati e poi costruiti.

Diverso, dicevamo, è il caso dei sistemi complessi, quando sono tante o troppe le variabili che entrano in gioco. Si pensi all’atmosfera: i suoi moti sono descritti da leggi fisiche ma il suo comportamento dipende da tanti fattori, e come se non bastasse è anche particolarmente birichino, così sensibile a piccolissime variazioni (in termini tecnici: caotico) che, nonostante gli sforzi di migliaia di persone e dei computer più potenti al mondo, le previsioni del tempo sono quello che sono: ci indovinano sì, ma mica sempre!

Se l’atmosfera è un sistema complesso, non parliamo degli esseri viventi! Già una cellula è composta da troppe cose per fornirne un’affidabile descrizione matematica, figuriamoci una pianta o un animale. Ecco così che nessuno potrà dirci, sulla base di un’equazione matematica, quante foglie metterà la nostra pianticella di vite, se i grappoli rimarranno sani, se alla fine l’uva maturerà bene, e questo sarebbe vero anche se potessimo prevedere alla perfezione il tempo atmosferico. Questo però non vuol dire che nella vita ci sia qualcosa in più della scienza, vuol dire soltanto che la vita è fortunatamente troppo complessa per essere descritta in modo riduzionistico, ovvero come somma del comportamento delle singole componenti (gli atomi, i protoni, gli elettroni).

Empirismo ed esperienza si prendono così la rivincita sulla teoria, anche se qualche fondamento teorico si deve pur sempre avere per non procedere totalmente a caso. Ma aggiungerei anche un’altra guida, per discriminare tra il plausibile e l’impossibile: quella del buon senso. Ciò che a qualunque abitante mediamente acculturato del terzo millennio, di questa epoca così densa di informazioni, non dovrebbe mancare.

Ecco, il mio intento è quello di esaminare la prassi della viticoltura biodinamica, senza soffermarmi sul sottofondo spirituale che la informa, per capire, con un po’ di buon senso, quanto si possa sfrondare tale disciplina da aspetti che la rendono forse affascinante ma a mio avviso poco credibile a un esame razionale.

Partiamo da quelli che, per sommi capi, sono i capisaldi della viticoltura biodinamica: utilizzo del sovescio e di particolari lavorazioni del terreno al fine di proteggere/aumentare il contenuto di sostanza organica nello stesso; utilizzo di preparati basati su sostanze di origine animale, vegetale e minerale, sia sui terreni sia sulle viti; attenzione ai cicli lunari, planetari, astrali nella temporizzazione delle varie operazioni da eseguire.

A fianco di queste pratiche attive ci sono poi le ovvie, per una viticoltura naturale, proibizioni. Nessun prodotto di sintesi per la cura delle viti, nessun utilizzo di concimi chimici, vinificazioni spontanee ecc. ecc.

Un quadro abbastanza ampio, come si vede, da esaminare in dettaglio nella prossima puntata.

 

Luca Bonci

3 COMMENTS

  1. caro Luca, continua cosi’ sono molto curioso di ascoltare il resto. Riguardo l’omeopatia sono daccordo con te che non esiste, pero’ in alcuni casi rende inesistenti le malattie che dovrebbe curare. Lo dico da genitore: immagina genitori normalmente apprensivi che si fidano di un buon medico che, oltre ad essere un medico di base, e’ un omeopata. Essi tenderanno a filtrare un certo numero di suggerimenti che il pediatra ( e il resto dell’ambiente attorno ai bambini) da’, per cui il bambino, non piu’ assaltato da farmaci di vario genere tende ad ammalarsi di meno. Insomma, c’e’ sicuramente un effetto placebo un po’ amplificato, ma forse anche un effetto collaterale legato alla riduzione di farmaci. Riguardo la biodinamica, nella piccola vigna della famiglia di mia moglie non la pratichiamo, ci accontentiamo di un biologico empirico e non certificato, ma siamo sulla strada del vino naturale, vedremo quanto spingerci. Sperando di potervi fare assaggiare il nostro vino, ti saluto
    Ferdinando

  2. bell’articolo, interessante ed utile lettura, il paragrafo sui leader politici lo trovo fuori contesto, ma rispetto la libertà di opinione. Leggerò con piacere la prossima puntata.

  3. Caro Ferdinando, mi fa piacere sentirti e sapere che siete diventati anche vignaioli! Spero di poter assaggiare presto il vostro vino. Quanto all’omeopatia sono d’accordo con te. E infatti la considero una buona medicina per persone sane, visto che può aiutare a guarire dalle malattie dello spirito (quelle inesistenti come le chiami te) senza far ricorso a farmaci che potrebbero aggravare la situazione. Questo però presuppone rimanere nell’ignoranza, visto che perché ci sia l’effetto bisogna crederci. Il pediatra delle mie figlie, non omeopata, adottava una strategia alternativa, se la malattia era di chiara origine ansiosa, da buon toscano ci prendeva un po’ per i fondelli (noi genitori) e alla fine consigliava un po’ di riposo e acqua zuccherata.

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