Il mio pane al tempo dell’isolamento

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Milano, terza settimana d’isolamento in casa. Fuori dalle finestre è tutto stranamente deserto, c’è un silenzio surreale. È dura andare avanti in questi lunghi giorni del virus. Non eravamo preparati a rivoluzionare così tanto il nostro rapporto con il tempo, con il movimento, con il pensiero, con i progetti futuri. Ogni tanto, a sera, mi trovo ancora a pensare: “Dai, sabato prossimo andiamo tutti a pranzo sulle colline…” Poi il sorriso del sogno si gela davanti alla realtà. Non ci saranno uscite, non sappiamo per quanto.

In questa quarantena interiore, per non cedere alla bulimia da informazione compulsiva, cerco di dare più spazio alle cose che mi piacciono.
Per esempio fare il pane.

C’è da dirlo, in questo cambio forzato del ritmo di vita c’è modo di seguire la lievitazione con più attenzione, attendere i giusti tempi, studiarci un po’ di più. Proprio in questi giorni infatti sono usciti i pani migliori, da quando ho iniziato a fare il pane.
Il profumo della cottura lascia nella casa un aroma di dolcezza persistente, che fa dimenticare per un po’ i problemi e ti fa correre a prendere il burro e il barattolo della marmellata, e raccontare a tua figlia di quando eri piccolo tu, e nonna ti chiamava per la merenda.

Faccio il pane in casa dal 2007. Una mattina di gennaio di quell’anno, dopo un tentativo andato a vuoto, l’impasto di acqua, farina, miele, yogurt innescò la fermentazione: era nato il mio lievito. Lo chiamai scherzosamente Ugo, un nome di persona, come fosse uno della famiglia, forse in omaggio allo sketch di Massimo Troisi sui nomi da dare ai figli: brevi e secchi, altrimenti quelli non ti danno il tempo di pronunciare tutto che sono già sgattaiolati via.

Tante cose legate al pane e al lievito negli anni hanno assunto per me un’abitudinarietà quasi rituale. La “casa” di Ugo, dove lo conservo in frigorifero, è un barattolo in vetro di quelli bassi e larghi, con il meccanismo di chiusura a leva (ma senza la guarnizione in gomma altrimenti Ugo lo fa esplodere). Tappo azzurrino, barattolo trasparente. Sempre stato così. Per lievitare c’è una ciotola in plastica gialla con coperchio: vietato usarla per altro, è solo per fare il pane. La vincemmo che io e mia moglie eravamo ancora fidanzati, pensa te, a una pesca della Festa de l’Unità di tantissimi anni fa, quando c’era l’Unità. Misura giusta per fare un solo pane di poco meno di un chilo, proprio quello che servirà per una settimana circa.

Dicevo della ritualità che è nata negli anni attorno al fare il pane. Oltre ai contenitori, sempre gli stessi, c’è un’altra consuetudine: per impastare il pane e maneggiare il lievito, tolgo sempre l’orologio. Sicuramente è nata per praticità, ma poi ha assunto contenuti più interiori: liberarsi dal concetto di fretta se si vuole fare il pane. Sono il lievito e la temperatura delle stagioni, e altri impalpabili fattori a dirigere l’orchestra, non la monotonia di un tic tac troppo regolare.

Non ho mai pesato un ingrediente per fare il pane. Lo so che sarebbe pratico, importante, conveniente… Non mi importa. Per me il pane non può essere che fatto a occhio, anzi, meglio, a sensibilità. Mescolo sempre più farine, e in proporzioni sempre differenti, un pane è sempre diverso da quello precedente.

Il rinfresco del lievito madre ha infine un’ultima particolarità. Solo pensieri positivi. Impasta e caccia via i pensieri di rabbia, le frustrazioni della giornata, dai spazio solo a cose belle. Non puoi permetterti il negativo mentre rinnovi un lievito. Questa cosa l’ho presa da Davide Longoni, un grande della panificazione, che raccomanda di non stare a pensare a cose negative mentre si impasta. E così faccio anch’io.

Pane e quarantena, solo pensieri belli. Giro l’impasto nella ciotola gialla, il rumore lieve dell’impasto che si attacca alle pareti, le mani umide che profumano di grano. Giro l’impasto, come in una danza gira anche la ciotola in senso contrario, ricordo le canzoni di Battiato al mare d’estate, rovescio l’impasto e tuffo le mani nel ricordo del forno a legna acceso a Pasqua, il gesto di una nonna che puliva il fondo del forno con una fascina fatta di foglie di carciofo. Piego l’impasto e nelle pieghe della memoria c’è spazio per il ricordo di una ragazza, un profumo di adolescenza. Giro ancora e mi ricordo il giorno in cui da bambino il nonno mi fece assaggiare per la prima volta la birra, ne ricordo l’odore amaro come fosse oggi, mi ricordo la schiuma e quel gusto straniante.

Fuori c’è silenzio. Anzi no. A stare attenti adesso si sentono i fischi dei merli, i primi canti dei passeri.

Avanti, continuo a impastare. Il pane poi lieviterà con i suoi tempi. Avanti.

La mia maniera
Allora ecco, non prendetela per oro colato, vi racconto la mia maniera di fare il pane. Ovviamente senza dosi e senza pesi.

Ma prima -per chi non ce l’ha- va creato il proprio lievito madre. Si può fare anche in quarantena, basta un po’ di farina e acqua. Ma per questo lascio la parola a Davide Longoni, che ha girato tre brevi e utilissimi video per insegnare come creare il proprio starter del lievito madre.
Li trovate a questi link:
Parte 1
Parte 2
Parte 3

Rinfresco. Sera.
Prendo il vasetto del lievito madre che conservo in frigo (si può conservare per una settimana, in frigo), lo metto nella ciotola, aggiungo una tazzina d’acqua, faccio disfare il lievito spezzettandolo con un cucchiaio. Poi inizio a aggiungere farina (manitoba in questa fase) e a impastare. Aggiungo finché non raggiungo una consistenza morbida ma non appiccicosa, creando una palletta. Divido la palletta di lievito in due parti. Lavorando con un po’ di farina per spolvero, con la prima metà del lievito faccio una palla e la rimetto nel vasetto, che nel frattempo ho lavato. Lui sarà il lievito che tornerà in frigo e userò le volte successive.

Impasto
L’altra metà del lievito la prendo e infarinandola la spezzetto sul fondo della ciotola da impasto. Aggiungo le farine che mi piacciono. Io in questo periodo uso mischiare in parti simili farina tipo 2, farina integrale, farina di farro. Se voglio un pane più profumato e sfaccettato, aggiungo una parte anche di farina di segale: sappiate che la segale ha poco glutine e vi farà impazzire perché appiccica. Metterà in crisi i vostri pensieri positivi durante l’impasto. Non la raccomando per iniziare.
Quindi, dopo aver messo le farine a secco (peso totale delle farine circa 450-500 grammi), aggiungo i semi. Mi piace metterci sempre almeno due tipi di semi: i semi di lino, ricchi di nutrienti, e i semi di sesamo, ricchi di gusto. Quelli di sesamo che si troveranno sulla crosta, in fase di cottura si tosteranno, dando al pane un profumo caldo e dolce.
Aggiungo anche un cucchiaio d’olio d’oliva, ma non è obbligatorio.
È il momento di mettere l’acqua e il sale. Per non danneggiare il lievito, il sale è bene metterlo già sciolto nell’acqua. Quindi prendo un bicchiere d’acqua tiepida e vi sciolgo due mezzi cucchiaini scarsi di sale (dose per un pane). Verso nella ciotola e inizio a mescolare col cucchiaio. Subito dopo devo aggiungere altra acqua, stando attento a non metterne troppa per non fare un impasto troppo morbido. Mi regolo mettendo acqua sufficiente a impastare quasi tutta la farina, ma non tutta, poi lascio il cucchiaio e inizio a impastare a mano.

Trovare le giuste dosi è questione d’occhio e di tentativi. Altrimenti ci sono le ricette che vi dicono i grammi per filo e per segno, ma non le avrete da me! La bilancia, come l’orologio, durante la preparazione del pane se ne sta in disparte.
Continuo a impastare circa cinque minuti, in modo che si crei la maglia glutinica che consentirà all’impasto di staccarsi dalle pareti della ciotola. Mi fermo, copro la ciotola. Lascio riposare un quarto d’ora.
Poi riprendo a impastare. Già al tatto la sensazione è diversa, l’impasto è più disteso e liscio. Due-tre minuti di impasto, prendendo i lembi dell’impasto dall’esterno verso l’interno, e girando la ciotola per manipolare in modo uguale tutta la massa. Ecco fatto. Copro. Di solito è sera. Metto il pane a lievitare per la notte, coperto da un pile in una zona senza correnti.

Formatura. Mattina
La mattina l’impasto nella ciotola si presenta più morbido, ha raddoppiato il volume e qua e là si presentano le gobbe di alcune bolle. Preparo un cesto (per chi ce l’ha, un banneton, ma va bene un cesto in vimini di misura adeguata, rotondo o allungato) foderandolo con un panno bianco, e spolverandolo di farina. Spolvero anche il tavolo e vi rovescio sopra l’impasto aiutandomi con una spatola per staccarlo dalla ciotola. Con le mani inumidite allungo sul tavolo l’impasto, e procedo a piegare. Per le pieghe ci sono tanti stili. Per il pane tondo è funzionale la piegatura a “folder”, stendendo la pasta a rettangolo, e tirando prima un lato verso il centro e poi l’altro lato verso il centro, quindi “pirlando” per fare un panetto. Per il filoncino, segnalo questo video di Longoni.
Poi il panetto lo metto a testa in giù nel cesto, infarinato e coperto dal panno. Starà altre due ore a lievitare, al calduccio, meglio se coperto da un plaid di pile.

Cottura
Passate le due ore accendo il forno a 225-230 gradi. Nel forno lascio a scaldarsi anche la placca in ferro. Un piccolo accorgimento, per dare la giusta umidità all’aria del forno al momento di introdurre il pane, è di porre una ciotolina sul fondo del forno, con dentro alcune pietre porose (roccia lavica, piccoli ciottoli di fiume). Anche queste si scalderanno ad alta temperatura.
Quando il forno raggiunge la temperatura, preparo tutto per le operazioni d’infornatura, che devono essere rapide: lametta Gillette (o coltello molto affilato) per il taglio, mezzo bicchiere d’acqua da mettere nella ciotolina, pane lievitato pronto a portata di mano.
Tolgo dal forno la placca rovente, vi rovescio il pane, faccio il taglio con la lametta bagnata (taglio a croce, o a quadrato o a foglia); poi subito in forno, e con prudenza metto l’acqua nella ciotolina, che inizia a sfrigolare creando vapore. Chiudo il forno.
Tempo complessivo 53 minuti da contare al timer, i primi 20 minuti da fare a 225 gradi, poi il resto a 200 gradi.

Silenzio. Il pane cuoce. In silenzio cresce, ma non lo guardo crescere, quasi per un accordo di pudore fra me e lui. Cresce e cambia colore, che si fa pian piano più maturo. I tagli fanno da guida alla sua attività tellurica, il pane si crea come una montagna, ma non lo guardo, è una magia silenziosa.

Suona il tempo, è ora di sfornare. Se tutto è andato bene, quando si prende in mano con le presine si sente che è leggero il giusto, che ha il peso specifico del pane buono. Il profumo per adesso è di tostato forte, ma dalle crepe già esce la dolcezza, il profumo di grano sublimato dalla fermentazione. Dieci minuti sulla graticola a raffreddare e già il tostato se ne è andato, la stanza -la casa!- è tutta inondata dal calore morbido del pane. Deve raffreddare un paio d’ore. Oggi lo mangeremo a pranzo.

Un altro ciclo del pane.
Fuori c’è silenzio. Anzi no.
Avanti.
Impasta e caccia via i brutti pensieri, dai spazio alle cose belle.
Avanti.

29 marzo 2020

 

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

1 COMMENT

  1. Ciao Paolo,
    sono la figlioccia della Maria Pelletti.
    Ho letto con grande piacere il tuo articolo del pane, del tuo pane e della dedicazione e cura con cui lo fai. Gradita, molto, l’idea :” dai spazio alle cose belle” per scacciace la malinconia de la pandemia e queste nostre case adesso “vuote” e silenziose. (non ti dico poi quanto son vuote le nostre ghiacciaie! specialmente quella della Maria!).
    La Maria fa il pane tutti i venerdi. S’e fatta fare apposta un bel forno a legna nel suo giardino. Dopo aver letto il tuo racconto, ho suggerito alla Maria che si metta in moto per fare le fotografie e metterle sull’Acqua Buona. E altrettanto potrebbe fare mio fratello Marco (abita in Argentina ed ha un pizzeria famosa) il quale fa un pane buonissimo e facilissimo da fare.
    Ti saluto. Alla prossima!
    Isabella

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