Il tappo, il topo, l’irregolare e il fiasco

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Il fatto è questo. Ricevo un bel regalo inaspettato da amici che ho aiutato in qualche maniera. Sono sei bottiglie di vino recapitate lussuosamente a casa dall’enotecario amico mio. «Ciao Fabio – mi dice da dietro la mascherina sulla porta di casa – abbiamo scelto noi, speriamo di averci azzeccato», «Certo – faccio io contento come un bambino – grazie mille!».

Sono vini naturali, sicuro; dove non arriva la conoscenza, soccorre l’esperienza. Sei “bocce” miste. L’etichetta con i fumetti su una, l’aria brutale nell’altra e l’atmosfera naif, noiosamente hipster, di certi segni inquadrano bene la vitrea composizione: tutto torna. Ringrazio i donatori e cerco su Internet notizie sui produttori, mai sentiti in vita mia; li stano tutti, tranne uno. Nascono come funghi, penso dentro me. Non avevo sbagliato, gli sconosciuti appartengono al cosiddetto universo dei vini naturali. Non vedo l’ora di bere e cercare informazioni aggiuntive.

Arriva cena. Decido subito di stapparne una. I Cacciagalli Zagreo 2017. Questa la conosco bene; assaggio spesso i loro vini e mi piacciono molto. Siamo in Campania, alto casertano. I Cacciagalli è un’azienda che ha elettrizzato, con vini originali e caratteriali, il panorama enologico regionale. Il vino in questione è un Fiano vinificato in anfora con contatto prolungato sulle bucce. Nell’ultima estate libera, durante le degustazioni per la guida Slow Wine, mi aveva emozionato; soprattutto per la capacità di mantenere nitida la filigrana del frutto di partenza pur nel tratto ossidativo, che in quel caso donava spessore e sapidità. Questa invece sa di tappo. Fa lo stesso, succede. La richiudo e domani chiamerò l’amico enotecario per farmela cambiare.

Dirotto la sete verso una delle bottiglie francesi completamente sconosciute.  Domaine des Grottes, cantina del Beaujolais. La ricerca digitale mi porta al sito ufficiale ancora in costruzione. Dal portale del distributore italiano (non so se è il solo), Rolling Wine, apprendo che è un’azienda che lavora in biodinamica fin dai suoi albori, vale a dire dal 2007. Impostazione naturale fino al midollo con certificazioni biologiche e biodinamiche. Il vino, senza annata, si chiama Truc de Buve, trucco ubriaco in italiano, un simpatico anagramma di un altro vino aziendale, il Brut de Cuve.

Gamay in purezza, vinificato in macerazione carbonica per 5 giorni. Senza solfiti aggiunti e con 11% di alcol. Ha tutte le coordinate per piacermi. Poco alcolico, leggero, profumato e succoso. Purtroppo sa di topo. Lo bevo e la bocca viene completamente invasa da un senso, tra il tattile e l’aromatico, disgustoso. Leggendo il bel pezzo di Lamberto Tosi su questo sito, apprendo come il ph delle mie mucose sia proprio sensibile al maledetto ratto. Ne faccio assaggiare un goccino anche ai miei figli più grandi, stesso ph si vede, e stesso risultato. Non nascondo un certo orgoglio paterno: hanno riconosciuto il difetto a 10 anni. Io ce ne ho messi 45. Insomma, altra bottiglia da dimenticare. A dirla tutta, cominciano a girarmi un pochino le palle.

Pesco un’altra carta dal medesimo mazzo. Azione Vini, Cerasuolo d’Abruzzo 2018. Chi è costui? Boh, anche nella prima ricerca sommaria era l’unico che non dava segni di esistenza. L’etichetta è un bel disegno evocante lo stile futurista di Fortunato Depero, pittore e designer che ebbe il genio di progettare la piccola bottiglia, a calice rovesciato, del Campari Soda. Decido di assaggiare prima di approfondire. Finalmente! Ha un bel sorso viscoso che si allunga con indolenza, dotato di ottima sapidità; forse insiste sulla dolcezza e su un leggero “topino” anche qui ma, nel complesso, gli aromi di frutta risultano deliziosi e poi ora sono incline al godimento, provenendo da due bottiglie sfortunate.

Meno male, penso, mentre giro la bottiglia per approfondire la sua conoscenza. Cerasuolo d’Abruzzo e basta. Credo non sia possibile inserire la denominazione senza certificazione, ci deve essere un errore. Leggo sotto la seguente frase: “questo vino è prodotto da agricoltura biologica torchiato a mano, da fermentazione spontanea. Nessuna chiarifica e filtrazione, né utilizzo di solforosa. Vino = Autenticità”. Solo 830 le bottiglie prodotte. Ok, siamo nel campo dei vini naturali, però il campo è di un altro produttore. Il vino è prodotto e imbottigliato all’origine da un codice alfanumerico, come previsto dalla legge vigente, per conto di Azione Vini e nome del titolare a seguire.

Il vino è irregolare perché non ha fascetta che attesta la certificazione, quest’ultima però compare regolarmente nel caso delle uve che sono state controllate e ammesse dall’organismo certificatore Bioagricert. Invio un messaggio a un mio collega abruzzese. Lui non ha mai visto questa etichetta in giro e mi dice che probabilmente è un vino per amici. Non mi torna. A parte la denominazione è tutto in regola, con i costi del caso, e poi questa bottiglia è stata regolarmente acquistata in enoteca e regalata al sottoscritto, insomma ha creato una filiera di consumo. Lui dice che in Abruzzo stanno nascendo come funghi – appunto dico io (leggi sopra) – piccoli imbottigliatori che attingono dall’enorme bacino di vino prodotto in regione e sfruttano la tendenza “naturale”.

Dopo un po’ mi arrivano i risultati dell’”indagine” dell’amico abruzzese. L’azienda che imbottiglia è di Chieti e il “vignaiolo” è un ragazzo che ha un locale a Sulmona. Dice che lo vende solo nel suo locale. Forse il vino è entrato nell’orbita d interesse di qualche distributore ed è arrivato per vie traverse all’enoteca del mio amico. Chiedo se le uve sono coltivate, almeno in parte, da questo ragazzo. No, mi risponde. Non c’è niente di male e può essere divertente, alla fine il vino funziona ma qualcosa di fastidioso mi si appiccica addosso.

Mi alzo dal tavolo e scendo in cantina. Inoltrandomi nell’oscuro conosciuto, penso che il paradosso del vino naturale (tema ormai stantio, ne convengo) si muova proprio dalla confusione delle etichette, in senso letterale e simbolico. Insomma uve biologiche, fermentazione spontanea, nessuna aggiunta di solfiti, purezza di intenzioni sovraesposta….. Ma se tutte queste pratiche rivendicate in etichetta non riportano a un gesto originario che è la coltivazione della vigna, si tratta di argomenti spuri e di una sonante mistificazione del termine naturale. Forse mettere il vino in bottiglia con dichiarazioni che rimandano a una paventata anarchia contadina regala la sicurezza di appartenere a un movimento simpatico e vincente, almeno in questo periodo, ma non c’è niente di naturale in questo, solo un mero strumento di marketing.

Afferro un fiasco di vino bianco. Proviene da una damigiana presa nel Carso. L’ho infiascato lo scorso anno, dopo una bella avventura nell’acquisto dal produttore della panciuta damigiana. Lo porto a tavola e stappo. A un anno il colore giallo si è arricchito di tonalità profonde, quasi ambra. Malvasia e vitoska nel bicchiere. Lo conosco; un pochino ignorante all’inizio anche per via di quel tappo ignobile che ho messo con la mia tappatrice, accidenti a me. Ma non appena l’ossigeno comincia a lavorare con il vino, il sapore esibisce una rassicurante schiettezza fatta di semplice succosità, così densa a centro bocca e dissetante alla deglutizione. Il fiasco è di paglia e il suo vetro è verde. Nessuna etichetta da leggere né appartenenze esibite, la sua eloquenza è affidata a fatti e gesti realmente compiuti nell’intimità di una relazione tra chi fa il vino e chi lo beve; il suo sapore guida verso la calorosa confidenza del ricordo e la certezza della sua origine: è soltanto vino, e tanto mi basta.

Fabio Pracchia

Vive sulle colline lucchesi. È uno dei principali collaboratori di Slow Wine, la guida annuale del vino pubblicata da Slow Food Editore. Si occupa da circa quindici anni di vino e cultura cercando di intrecciare il lavoro alcolico con quello narrativo.

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