Quaderni chiantigiani. Corzano e Paterno, Il Borghetto, Vecchie Terre di Montefili

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CORZANO E PATERNO – Settembre 2007

Mi sono sempre piaciuti i vini di Corzano e Paterno. Di più, mi sono sempre piaciute anche le persone. Prendi Aljosha Goldsmith per esempio, l’anima della fattoria: volto da eterno ragazzo, passione bruciante, umiltà, amore incondizionato per una terra che ha iniziato a “praticare” fin da piccolo …insomma, un moderno campagnolo dai modi gentili e dall’indole comunicativa, per niente affetto dalla sindrome di “gigantismo professorale” – tutta prosopopea, frasi fatte e puzza sotto al naso – che ancor oggi “miete vittime” nella beneamata categoria dei produttori. Bene, ora aggiungeteci pure i luoghi: un angolo di Chianti appartato e luminoso, di insondabile bellezza e reale suggestione: ecco così che il trittico assume i contorni (e la sostanza) di un qualche cosa che non scordi.

Sono circa 40 anni che Aljosha conosce questa terra, da quando cioé la sua famiglia (lui era un bambino) si trasferì dalla Svizzera natìa sulla collina di San Pancrazio, a un passo o due da San Casciano Val di Pesa, dove vocazione, luoghi e privilegi fanno passare in secondo piano il fatto che qui il Chianti non si possa più chiamare Classico. Fu lo zio materno Wendel Gelpke, stimato architetto, ad avviare tutto l’ambaradan, da quando si innamorò di quei luoghi incontaminati ma in stato di incipiente abbandono. Erano tempi non sospetti quelli: 1970 o giù di lì. Dal 1972 i primi timidi imbottigliamenti del Chianti Terre di Corzano, derivato in larga parte dalle vigne trovate già a dimora. Da lì a poco, quasi non bastasse, un’altra esigenza prende corpo e assume la forma di 4 pecore, che Wendel decide di portare con sé in Toscana. Oggi Corzano e Paterno, oltre al vino, alleva 600 pecore e produce formaggi “dialettici”, attività quest’ultima che ruota attorno alla villa di Paterno, seconda acquisizione in ordine di tempo. Aljosha cura tutte le fasi della produzione vinicola, dalla campagna alla vinificazione, finanche le pubbliche relazioni e la comunicazione. Da qualche tempo gli danno una bella mano la nuovissima, funzionale cantina ed Arianna Gelpke, cugina ed enologa, tornata in pianta stabile in azienda dopo qualche anno di esperienza all’estero.

I vigneti sono disposti su pendii assai ripidi attorno alla colonica fortificata di Corzano, un gioiello architettonico di struggente ruralità. Molti di loro occheggiano a sud – sud ovest e affondano le radici su terreni ghiaiosi, calcarei e argillosi di deriva alluvionale, disposti a circa 300 metri slm. Le vigne hanno età diverse e coprono 17 ettari; da qualche anno sono state fatte oggetto di reimpianto. Dalle vigne più vecchie (oltre 15 anni) proviene il sangiovese che innerva il Chianti Riserva I Tre Borri, ambizioso e coccolato cult wine; invece la vecchia vigna a cordone alto di cabernet sauvignon (datata 1985) informa di sè e della sua speciale categoria il celebre Corzano -blend di cabernet sauvignon, sangiovese più un saldo di merlot-, uno dei vini più caratterizzati della Toscana tutta, in barba a chi si ostina a chiamarlo semplicemente Supertuscan, storcendo pure il naso. Per il resto, ecco un Chianti Terre di Corzano ammirevole per costanza ed affidabilità, ed un Vin Santo (da uve a bacca bianca) di folgorante presenza scenica, che qui si chiama Il Passito ed è un vino a IGT, dal momento in cui la Doc Vin Santo non ammette gradazioni inferiori a 15°. Lui se ne infischia, mostra con orgoglio i suoi 9-10 ° e ti coinvolge amorevolmente nel suo abbraccio. Non lo dimenticherai.

Eppoi, a ben vedere, c’è un tratto distintivo che accomuna i rossi della fattoria e ne afferma l’originalità: l’inconfondibile timbro tannico, un timbro tannico profondo e austero, figlio legittimo di quella terra, ciò che ne segna il carattere e ne assicura intriganti le evoluzioni (provare per credere Corzano 1995 o Corzano 1997). Recenti testimonianze in tal senso ci provengono da un Corzano 2004 forte e volitivo, capace di imprimere una accelerazione sul palato da vero fuoriclasse, dotato di una struttura invidiabile da far presagire un futuro radioso; o dalla bella materia “sangiovesa” del Chianti Riserva I Tre Borri 2004, che chiede solo tempo per smussare alcune spigolosità giovanili e qualche scoria boisé. Sulla stessa falsariga, sia pur su un piano di minore articolazione, si muove il Chianti Terre di Corzano 2005, un vino che onora la tavola quotidiana con dignità e fierezza e ti conquista alla beva. Se invece ripenso alle elegiache effusioni de Il Passito 1998, l’inevitabile mio distacco da questa campagna avrebbe potuto dipingersi di pensieri malinconici e inquieti. Poi ho realizzato che a vegliare su tutto -vini luoghi ed estri- c’è la figura solare ed ispiratrice di Aljosha, una persona che appare davvero in sintonia con le cose e i ritmi della terra. Niente di più tranquillizzante per i miei ritorni. Niente di più tranquillizzante per una rinnovata serenità.

…Sì, di Corzano e Paterno mi sono sempre piaciuti i vini. Di più, mi sono sempre piaciute anche le persone.

Fattoria Corzano e Paterno
Via Paterno 10 – San Pancrazio
50020 San Casciano Val di Pesa (FI)
Tel: 055.8248 179 corzpaterno@libero.it

IL BORGHETTO – Settembre 2007

Sono arrivato al Borghetto grazie a un vino, un piccolo-grande vin de garage. In lui mi è parso di individuare il “nutrimento” di cui aveva bisogno la mia curiosità, al punto da ispirare – quasi pretendere – nuove partenze. Oddio, già per come ti si presenta (il vino intendo) non è che te la manda a dire la sua ambizione: bottiglia borgognotta modello Renaissance, tiratura che non arriva alle 2000 bottiglie…. un Chianti Classico Riserva (eh sì, proprio un Chianti Classico) in una bottiglia borgognotta: curioso, no? Però poi lo assaggio e…… e decido di prendere e partire per Il Borghetto, non ci sono storie.

Così oggi mi ritrovo sulla Collina 21, nel comune di San Casciano Val di Pesa, zona Chianti Classico. Da quassù è possibile scorgere le magioni di Corzano e Corzanello sui colli di fronte, e già mi oriento meglio. Giù in basso, in mezzo alla valle, c’è il fiume Pesa a dividere. Il Castello di Bibbione, con la sua stazza solida e rassicurante, sta a un passo da qui, a due il borgo di Montefiridolfi, qua e là resti di tombe etrusche. La strada procede volentieri sul crinale e regala scorci emblematici di Toscana. Se prosegui arrivi in un attimo alla Tenuta Santa Cristina e ai vigneti del Tignanello, non prima che il tragitto ti abbia offerto in successione incalzante un mare ondulato di oliveti, infilate prospettiche di muretti a secco e visioni “contundenti” di Chianti, di quelle a cui le parole possono poco.

Al Borghetto ho conosciuto il proprietario, Antonio Cavallini, ed appreso ben presto che qui si gioca sull’intimità dei piccoli numeri e sulle dimensioni amichevoli di una azienda a conduzione familiare (meglio, individuale), dove ogni intuizione, ogni pentimento, ogni ritrosia ed ogni entusiasmo sono naturali conseguenze dello stato d’animo, della volontà e della curiosità del vignaiolo stesso. Non un filtro, non una intermediazione. Intanto, dopo una prima vendemmia (2003) conferita ad una importante cantina della zona non c’è voluto molto per capire che quella terra meritasse una ribalta migliore e il privilegio di un imbottigliamento esclusivo. Da qui l’idea di Antonio di dedicarsi in prima persona all’affaire, non prima di aver chiamato con sé un tecnico capace di appassionarsi ed immedesimarsi, quasi fosse un membro aggiuntivo della famiglia. Lo ha trovato nella persona di Tim Manning, giovane enologo inglese con peculiari esperienze chiantigiane (Riecine) e diverse vendemmie/vinificazioni effettuate fra Oregon e Nuova Zelanda, alle prese con il vitigno “monstre” pinot nero. Tim costituisce oggi il riferimento tecnico aziendale, coadiuvato da un fattore e da due operai specializzati autenticamente “autoctoni”.

E fin da subito i gesti della consapevolezza nuova hanno dimostrato la loro determinazione; in primis, è apparso ineludibile acquisire una conoscenza sul campo di ciò di cui si disponeva: le vigne in produzione coprono oggi 4,5 ettari, sono state impiantate assai recentemente (1999) ed ospitano in prevalenza sangiovese (diversi i cloni messi a dimora) più qualche altra varietà internazionale come merlot e cabernet sauvignon. Sono perlopiù collocate su declivi assai ripidi disposti a sud sud ovest, in una sorta di conca in unicuum che si concede qualche appendice separata, per realizzare una ventina di piccolissimi appezzamenti. E sono state proprio certe intuibili micro-diversità di suolo, esposizione ed altitudine (abbinate alla composizione ampelografica prescelta) ad offrire la stura per praticare vinificazioni parcellari assai articolate. La cantina infatti è un work in progress. Nell’attesa che vengano ricavati ulteriori spazi, logisticamente salvifici, mi sono ritrovato in un piccolo cantiere enoico dove tutto (vino e idee) sta prendendo forma e sta crescendo, in un coinvolgente esperimento in itinere che non ha timore di intraprendere strade inusuali. Per esempio ci stanno i singolari tank da 1000 litri in materiale plastico dove, senza controlli di temperatura e senza aggiunta di lieviti selezionati, si procede alla fermentazione e alla macerazione dei vari lotti. Non è raro che per certi grappoli di sangiovese si provveda alla macerazione dei raspi (quelli meglio lignificati), pratica questa ancor oggi usata, in onore alla tradizione, in Borgogna. Dopodiché ecco i legni piccoli – di vari passaggi- offrire lunghissime permanenze ai vini ( la Riserva della mia immedesimazione vi ha sostato 24 mesi, la Riserva 2005, attualmente in gestazione, ben 30!); infine, altrettanto lunghi periodi di affinamento in vetro prima della commercializzazione, fase quest’ultima considerata fondamentale per decretare armonie ed equilibri.

I vini pensati ed elaborati in fattoria sono 4: il vino “base” prende il nome dal luogo (Collina 21) ed è un blend di cabernet sauvignon, merlot e sangiovese, mentre il vino più ambizioso di impronta internazionale, a base prepotente di merlot, si chiama Rosie. Poi c’è il sangiovese, cuore del progetto, con il quale si produce Chianti Classico, declinato qui nella versione annata, chiamata Bilaccio, e nella versione Riserva, il cui esordio è avvenuto con la vendemmia 2004. E proprio dai Chianti Classico ricavo oggi le suggestioni più intriganti, da quando mi accorgo che questi metodi singolari non hanno per niente sortito effetti stranianti sulla materia, come a dire colori saturi e massicci, ingombranti “volumetrie”, inutili scorie boisé, forzature varie e assortite: nossignori, il vino qui se ne esce con una silhouette sfumata e individua, carnosa e fremente, rotonda ma non molle, dolce ma non stucchevole, soprattutto sensuale, in cui spesso convivono equilibrio e garbo espositivo. Prendi il Chianti Classico Riserva 2004 per esempio: voluttuoso e profumato, cangiante e propositivo, è un tappeto aromatico di gelatina di fragole e amarene sotto spirito, è un soffio di mineralità e un mazzetto odoroso. Ti conquista con una bocca setosa, delineata, personale, continua; non una prepotenza, non un calcare di mano, solo un intrìco caldo e morbido di seducente complessità, dalle cui maglie traspira un’anima quasi borgognona.

E gli assaggi delle annate nuove (2006), spillate dai vari carati, non hanno fatto altro che confermare i presupposti: diversi cloni di sangiovese, poi cabernet e merlot, con la costante di una desinenza minerale nel tratto gustativo che si fa chiara e avvincente; una fisionomia austera quanto elegante, realmente ispiratrice per ognuno dei bicchieri che ho bevuto, ché quasi non lo diresti della gioventù di quelle vigne. Unica pecca, una produzione che per adesso prende spesso e volentieri la via delle americhe. Su questo aspetto, confido in qualche ripensamento. Soprattutto però confido che i giovani segni di questa piccola realtà contadina scavino tracce più profonde, e che si continui con perseveranza a produrre vini nei quali credere, senza inseguire mode precostituite e senza disperdere la naturalezza espressiva sull’altare della tecnologia o dell’abuso boisé. Quei segni potrebbero allora davvero partorire certezze tutte nuove, con il conforto di un futuro amico.

Azienda Agricola Il Borghetto
Via Collina 21
50020 Montefiridolfi
San Casciano Val di Pesa (FI)
Tel – Fax  055 8244253
agricola@ilborghetto.org

VECCHIE TERRE DI MONTEFILI – settembre 2007

Parlare di Montefili non è come parlare di un posto qualsiasi. Almeno per quanto mi riguarda. Troppi i ricordi, che poi sono ricordi di viaggiatore. A quel crocicchio d’alta collina infatti, una trentina d’anni fa, e per diversi anni a seguire, la 127 rossa di mio padre arrivava regolarmente arrancando, per via del viaggio che cominciava a farsi sentire e per via di quell’ultimo strappo in salita – fatto di curve, bosco e polvere bianca- che ti toccava fare se ti prefiggevi, come noi ci prefiggevamo, di raggiungere Montefili arrivandoci dalla Badia a Passignano. A quel crocicchio la sosta era inevitabile, sia per far riposare il motore dopo le fatiche della ennesima gita fuori porta, sia per far riprendere i passeggeri (soprattutto il sottoscritto, immancabile sul sedile posteriore) dalle conseguenze del perdurante sballottamento, sia soprattutto per prendere la decisione fatidica della giornata: ” dove si va?”. Eh sì, perché dalla Versilia partivamo alla buon’ora con destinazione Chianti Classico, ma dove andare in particolare spesso lo decidevamo lì per lì, a Montefili, consueto crocevia di un passaggio pressoché obbligato. Capitava così a volte di proseguire a diritto e planare su Greve dal colle ripido di Montefioralle, e allora la sosta mangereccia al Verrazzano (con risultati alterni a dire il vero) non era cosa rara, oppure di girare a destra per inoltrarsi nella Conca d’Oro panzanese ed azzardare persino le terre senesi. In quel caso, sosta obbligata (e mangereccia) da Montagliari. Quasi sempre, alla sera, eravamo spossati; la 127, più rossa del solito. Nello stesso tempo, e me ne accorgo oggi più che allora, i ricordi si stavano riempiendo di qualche cosa di incancellabile.

A un passo da quel crocicchio di collina, fra Greve e Panzano, ecco che l’azienda agricola Vecchie Terre di Montefili fece la sua timida comparsa ( quanto meno nell’immaginario mio) agli inizi degli anni ’80. Ce ne accorgemmo non tanto dai segnali stradali quanto da un inatteso (per quanto ci colpì) Chianti Classico 1982, probabilmente acquistato da mio padre all’Enoteca di Greve durante una di quelle trasferte là. Quella bottiglia ci informò di una presenza nuova nel panorama chiantigiano. Di più, quel vino segnò come uno spartiacque nella mia acerba consapevolezza enoica: non so perché ma mi piacque molto più di altri (che so, al pari di un Savignola Paolina degli anni ’70, o di un Riecine) al punto da ricordarne ancora la sensazione di corpo e finezza finalmente fuse, e quella fisionomia compiuta, perfetta, “senza grinze”, davvero inusuale per un Chianti di allora. Quel vino pareva avesse il dono di una maggiore consapevolezza di sè, ecco cos’era. Da semplici appassionati quali eravamo, non ci azzardammo mai a bussare a quell’indirizzo, ma i nostri passaggi da Montefili, da lì in poi, furono ravvivati da una certezza in più e da un vino nuovo di nostro gradimento . Ebbene, se quel Chianti ha segnato il mio tempo di bevitore in erba, quasi certamente ha segnato anche quello di Roccaldo Acuti, il proprietario della novella impresa, perché da quel vino cominciò una avventura nuova, che ha portato una famiglia di imprenditori pratesi ad innamorarsi del Chianti. Un amore per la vita. Di più, se un imprenditore che investe nel mondo del vino può considerarsi cosa ovvia (a quei tempi forse lo era un po’ meno), non possono di certo considerarsi cosa ovvia i vini che a Montefili sono nati. Perché fin dai primi loro passi qualcuno intuì che alla loro riuscita andava contribuendo in maniera decisiva un alleato insostituibile: il suo nome era terroir.

Roccaldo Acuti acquistò la proprietà nel 1979, con l’idea in testa di produrre vino importante da potersi vendere bene. Obiettivo centrato, potremmo dire alla luce dei fatti. Fu così che, grazie all’ausilio professionale e umano di Vittorio Fiore, la stoffa di quei solidi rossi dallo squillante spirito chiantigiano iniziò a far parlare di sé. Non una flessione degna di nota, non una defaillance lungo il percorso. Anzi, semmai, oggi che ne apprendo gli sviluppi e i nuovi entusiasmi, mi pare che il tutto si stia traducendo in carattere e personalità ancor più manifesti. Sono vini rossi intriganti questi qua, caratteriali, longevi, figli legittimi di un terroir diverso ed eccezionale, dove l’altitudine sostenuta (siamo a 500 metri slm!) e l’anima galestrosa dei suoli giocano da par loro sulle fisionomie e le attitudini, qualunque sia il vitigno in questione. Qui, è inutile girarci attorno, sono nati due fra i vini più emblematici del Chianti: Bruno di Rocca ed Anfiteatro; con il primo (blend di cabernet sauvignon e sangiovese) che ha cavalcato e vinto la sfida apportata alla stagnante situazione di un tempo dai Supertuscan, distinguendosi puntualmente dal sempre più nutrito novero dei vini di fantasia (non esenti da anonimato) per via del carattere fiero e della rara intensità gustativa; e con il secondo, nato per onorare le potenzialità del sangiovese “d’altura”, che ha annoverato prestazioni di rilievo anno via anno, messe in luce anche da recenti verticali, e dove pienezza, tessitura e charme appartengono di diritto all’aristocrazia vinosa regionale. Qui, in piena corrispondenza euritmica con le condizioni microclimatiche dei luoghi, i vini se ne escono lenti, “progressivi”, tannicamente incisivi in gioventù, ma con una profondità d’intenti ed una propensione all’invecchiamento che trovano pochi eguali. Sono vini che vogliono tempo. Se glielo concederete quel tempo, sapranno ripagarvi.

Oggi, giornata calda e settembrina, con un sangiovese promettente ancora da vendemmiare, mi ritrovo a Montefili in compagnia dell’autentico “factotum” della tenuta: Tommaso Paglione, enologo di casa nonché genero di Roccaldo. Da qualche tempo ha preso in mano le redini della conduzione enologica, non disperdendo affatto le conquiste di una storia venticinquennale ad alta dignità, ma apportando semmai entusiasmo (autentico) e reale sensibilità interpretativa verso una materia difficile come il sangiovese, soprattutto se stiamo alle non così infrequenti bizzarrie climatiche degli ultimi anni. Ebbene, negli anni 2000 la produzione di Montefili ha partorito una serie di vini di rara compattezza qualitativa. Oggi, insieme a Tommaso, visito gli impianti di sangiovese messi a dimora recentemente e assaggio gli acini nel famoso anfiteatro. Ho l’onore poi di fare un piccolo ripasso delle annate nuove, per sorprendermi ancora di fronte alla seducente personalità del Chianti Classico 2004, in cui freschezza, sfumature e una struggente aulicità ne esaltano l’invidiabile profilo (e reclamano la dignità di una Riserva); oppure di fronte alla profondità del Bruno di Rocca 2004, come sempre volitivo, infiltrante, balsamico, caratteriale; o alla incredibile nobiltà d’animo dell’Anfiteatro 2004, un conseguimento raro in cui la freschezza acida si fa pervasiva e la classe tannica sopraffina, a decretare una delle prestazioni migliori di sempre. E dopo essermi piacevolmente dissetato con il simpatico e profumato Vigna Regis 2005, unico bianco della casa, curioso blend di chardonnay e sauvignon, con un pizzico di gewurz, rimango di sasso di fronte alla prova di botte (botte grande) del Chianti Classico 2006, perché nettezza, equilibri e qualità di frutto sono quelli del vino superiore. Il campione di botte (piccola) destinato all’Anfiteatro 2006 possiede invece materia più concentrata e bocca volumica (c’era da attenderselo), e sfodera un finale di sontuosa dolcezza tannica. Infine, a pochi giorni dall’imbottigliamento, raccogliamo dalla vasca un campione di Chianti Classico 2005: rubino senza forzature, naso freschissimo e minerale, speziato, elegante, aggraziato; beva reiterata, ritmo, sentimento, tipicità…

… E’ stato un lampo, un barlume, sicuramente appannato dal tempo, ma quest’ultimo bicchiere mi ha fatto tornare alla mente la silhouette di quel Chianti 1982 che fu della mia gioventù. Con in testa questo tarlo curioso, sulla via del ritorno mi son ritrovato -una volta ancora- al crocicchio di Montefili. Una piccola incrinatura emozionale si è fatta sentire. L’ho lasciata fare. Era giusto così. Perché nonostante stavolta sapessi bene quale strada prendere, avrei tanto desiderato che mio padre fosse lì.

Azienda Agricola Vecchie Terre di Montefili
Via San Cresci 45 – Panzano
50022 Greve (FI)
Tel. 055 853739
info@vecchieterredimontefili.it

Le foto:

Corzano e Paterno: vigneti e magioni; Aljosha Goldsmith; Arianna Gelpke; vigneto.

Il Borghetto: Antonio Cavallini (a destra) e Tim Manning (a sinistra); vigneti; la Riserva; Antonio Cavallini in primo piano (estratta dal sito aziendale)

Vecchie Terre di Montefili: ingresso fattoria; piede di vigna; i coniugi Acuti; Tommaso Paglione; bottiglie.

FERNANDO PARDINI

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