

La terra è nera, e nere sono le viti, piccole, contorte, quasi simboli pietrificati di un remoto passato di magia, vecchie streghe dormienti di linfa e corteccia. Siamo sul più basso cono eruttivo del vulcano, un cono fossile, quesciente da tre millenni ormai, in uno dei numerosi vigneti centenari o quasi che la famiglia Benanti ha cercato, acquistato, recuperato, con in mente un’idea ben precisa, un’idea che mentre scriviamo nessuno mette più in dubbio, anche se forse qualche anno fa non molti ci avrebbero scommesso: l’Etna, i suoi terreni lavici, i forti sbalzi climatici (poco sopra di noi intravediamo la neve), le sue contorte viti centenarie, avvezze a campare su queste erte non proprio ospitali, questo è il luogo cruciale (il “cru”) per la vitivinicoltura siciliana.
Giuseppe Benanti festeggia ormai i venti anni dalla sua intuizione, con cui ha fatto rivivere una tradizione centenaria di famiglia, e lo fa con una gamma di vini varia e celebrata, prodotta in numerosi appezzamenti sparsi sulle pendici etnee e prevalentemente coltivati con le varietà tradizionali della zona: nerello cappuccio e nerello mascalese, minnella, carricante. Vigne vecchie o reimpiantate, tramite selezione massale sulle viti già presenti in azienda, ed il fascino, che pochi possono permettersi, della possibilità di coltivare a piede franco, visto che nei terreni vulcanici la fillossera non si diffonde. Una fortuna che facilita anche il rimpiazzo delle fallanze, che si può ottenere tramite propaggine, ovvero interrando un tralcio della vite più vicina e attendendo che radichi. E, d’altra parte, le streghe non si riproducono anch’esse per partenogenesi?
Ma se le si guardano da vicino queste forme contorte, è facile scoprire la vita che c`è dentro: la primavera non è poi lontana, è le gemme carnose rompono la corteccia e ci fanno intravedere la prossima esplosione di verde, e immaginare l’uva e, infine, il vino. E che vino! Pozione distillata da questi legni a partire dai sali di millenarie eruzioni, dalla luminosità delle estati mediterranee, dall’aria carica degli umori del mare vicino. No, certo, qui non è per nulla difficile capire cosa significhi terroir!
Roccia ignea, salmastro, flora mediterranea… ecco già detto cosa si trova in questi vini, insieme alle particolarità dei vitigni, che creano le differenze. E così assaggiammo la Minella 2005, da uva minella, appunto, che deve il nome alla forma degli anici, reminescente un seno femminile. Vino semplice franco, floreale e immediato, che sfuma in una leggera scia minerale. Poi il Bianco di Caselle 2004, tutto da carricante (vite che si “carica” d’uva, per continuare con l’etimologia), che profuma di anice, salmastro, foglia d’agrume, bilanciando la netta mineralità con fini note vegetali. La bocca è asciutta e godibilmente scorrevole, mandorlato il finale.
Il Pietramarina è il bianco simbolo dell’azienda, la sfida (una delle molte, finalmente, in Italia) allo stereotipo del bianco pronto e semplice, da bere in annata. Prodotto da una piccola vigna di carricante coltivata a quasi mille metri di altitudine, ci meraviglia nell’annata 2001, dal colore paglierino intenso e dai profumi di pane, roccia e agrume, nitidi e impositivi. Una bocca di tesa eleganza quadra il cerchio di questo piccolo gioiello. A riprova segue il Pietramarina 1995, cui l’evoluzione ha donato sentori di miele e chiodo di garofano. Non lo preferiamo al precedente, ma certo dimostra la longevità di questo bianco.
Apriamo la serie dei rossi col Rovittello 2001, da nerello mascalese e nerello cappuccio, di color rubino limpido, bello, invitante nelle sue trasparenze. Di incipit vinoso si allarga in frutta rossa e screziature mediterrane. Vinificato con lunga macerazione e affinato in piccole botti, è fresco, ben dinamico e sa di mora. Fine, pur evidenziando ancora qualche appesantimento da legni aromatici, da sfumare nel tempo.
Il Serra della Contessa 2001 è il vino le cui vigne abbiamo camminato, le piccole contorte piante centenarie dei due nerelli, tra le quali, qua e là, sopravvive ancora qualche ceppo d’uva bianca, antico lascito di viticolture non specializzate: quasi 11.000 ceppi per ettaro, perchè non c’era spazio da sprecare, e di certo neppure problemi di troppa forza vegetativa o di spazio per inesistenti trattori. Il vino è rubino, di media concentrazione, così da regalare in trasparenza tutti i riflessi del rosso. I profumi sono finemente floreali e di minerale eleganza, la bocca dona una beva emozionante, elegante, elegante… che dire di più?
Benanti produce anche altri vini, sia sull’Etna che più a sud, in Val di Noto, e a Pantelleria. Alcuni monovitigni e una serie di IGT in cui si cerca anche una piacevolezza più internazionale, con addolcimenti e utilizzo di legni più marcanti. Bei vini anche tra questi, ma mentre lasciamo questo antico cono vulcanico, dando un’occhiata allo storico Palmento (l’antico enorme torchio tipico della tradizione siciliana) che sarà da qui a poco restaturato, non vogliamo confonderci le idee, non dovessero mai, quelle antiche streghette abbarbicate sul vulcano, aversene a male.