La nascetta: dall’antica Persia all’Azienda Le Strette

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Questa volta, per presentare la simpatica e vivacissima Azienda Le Strette di Novello (CN), ho dovuto addirittura svolgere un pesante ed oneroso lavoro di ricerca indietro nei secoli. Ne sono molto lieto perché questo studio eno-astronomico mi ha permesso molto probabilmente di risolvere il mistero dell’origine e del nome del sempre più famoso ed intrigante vino bianco di questa parte di Langa. I fratelli DanieleMauro e Savio non sono solo simpaticissimi ed allegri, ma producono baroli emozionanti e complessi, provenienti da quel territorio di Novello che, per lungo tempo considerato di serie B, ora sta riprendendo giustamente la fama che gli compete.

Non solo Barolo, però, ma anche Barbera, Dolcetto e poi lei, la ormai celebre nascetta, che i due dinamici fratelli amano profondamente e per cui stanno battendosi come antichi cavalieri. Non voglio dilungarmi ulteriormente sull’azienda (meglio andare direttamente sul posto, ne vale la pena!), ma dare spazio all’articolo che sintetizza la mia ricerca. Solo lo spazio per un bacione caloroso alla mia “fidanzata” Ludovica, la splendida bimba di Savio, che solo una tragica differenza di età mi vieta di corteggiare più assiduamente.

Un vino millenario di origine quasi divina.

La nas’cetta
o nascetta o anascetta, il vitigno a bacca bianca che sta rivaleggiando con il timorasso nel conquistarsi un ruolo di primo piano tra gli autoctoni piemontesi e non solo, rimane circondato dal mistero. Non se ne sa la provenienza, né tantomeno l’origine del nome. Le analisi storiche non hanno finora fornito alcun aiuto e si sono un po’ frettolosamente concluse circoscrivendo l’area di estensione della varietà alla zona di Novello. Vitigno autoctono per antonomasia allora? Analogo mistero avvolge anche l’origine del nome di questo vino così pretenzioso nel scegliere la stagione della sua vendemmia. Le sua uve non devono essere raccolte troppo presto perché la non perfetta maturazione arginerebbe di molto la rosa dei profumi semi-aromatici di frutta tropicale che tanto lo caratterizzano, né troppo tardi in quanto la surmaturazione lederebbero di molto le sue indubbie doti di invecchiamento. Inoltre la vendemmia è tardiva per definizione ed il gelo incombente rimane una “spada di Damocle” per una riuscita ottimale. Queste sue caratteristiche peculiari che riducono di molto il periodo della raccolta, rendendola di difficile gestibilità, potrebbero però essere la chiave di svolta sia riguardo all’origine del vitigno che riguardo dell’etimologia misteriosa del nome.

Ho affrontato allora il problema partendo da lontano, addirittura tornando indietro ai monti della Fenicia. In tempi remoti, il commercio fiorente di questa civiltà marinara aveva trasportato in patria viti prestigiose e celebri vini, originari della Persia. Viti però abituate ai notevoli sbalzi termici delle catene montuose, spesso innevate per mesi, dei territori a sud del Mar Caspio che scendevano dolcemente verso l’immenso lago. Tra questi si ricorda il mitico sciaros, il vino dello scia, del re.

A questo punto giova fare una breve parentesi. I documenti riguardanti questo mitico vino mi sono pervenuti mentre analizzavo analiticamente le conquiste astronomiche dell’antica civiltà persiana. In particolare stavo affrontando i problemi dell’orientamento basato su alcune gruppi di stelle. Un’iscrizione alquanta vaga faceva riferimento al trasporto di un certo vino ed auspicava che le condizioni climatiche fossero perfette durante la lunga marcia carovaniera. Stuzzicato da questo argomento, feci ulteriori ricerche e trovai indicazioni chiare di un vino considerato reale od addirittura divino. Tutte le precauzioni dovevano essere prese per una sua consegna priva di intoppi o sorprese. Il vino era ovviamente lo sciaros, la bevanda dedicata allo scia, al capo assoluto. In realtà, tracce della sua coltivazione si sono rinvenute nei versanti a nord delle alture fenicie. Il sacro vitigno non riuscì però mai a trovare in quelle zone troppo temperate le condizioni climatologiche adatte ad una fruttuosa coltivazione. Niente o quasi rimane dei documenti del’epoca.

Ma un aiuto tanto insperato quanto fondamentale per queste ricerche “proto-storiche” è venuto dalle descrizioni incise sulle celebri “tabulae vinifere” rinvenute nella nave fenicia naufragata al largo di Capo Teulada in Sardegna intorno al 920 a.C. Ritrovata con il suo prezioso carico solo nel 1998, la nave era probabilmente diretta verso la ricca città di Nora, ma una tempesta la fece naufragare sugli scogli scoscesi del capo.

Le anfore colme di vino, soprattutto bianco, e le tavole che li descrivevano accuratamente sono state illuminanti per lo studio dell’origine dei principali vitigni sardi quali il vermentino ed il nuragus, che sembrerebbero essere entrambi di derivazione mediorientale. Nelle iscrizioni però viene chiaramente citato anche lo sciaros, che alcuni studiosi hanno subito cercato di collegare al nasco. Risulta però lampante, da una più attenta lettura delle suddette tavole, che la reputazione di questo vino, così celebre in tempi molto più antichi, era di molto diminuita, a causa dell’infelice riuscita in terra fenicia. La necessaria durezza del clima persiano era troppo stemperata dai tepori del mediterraneo e il vitigno non raggiunse mai i fasti che lo avevano reso celebre.

Forse gli stessi mercanti fenici, la cui abilità commerciale era ben nota, cercarono di esportarlo, in particolare in Sardegna. Tuttavia la descrizione dello sciaros non sembra avere alcun collegamento con il nasco. Né si trova altro vitigno sardo che possa ricordarlo. Si può immaginare che anche nell’isola le condizioni microclimatiche non si mostrarono adatte ad un vino tanto esigente. Lo sciaros e la sua fama si persero quindi del tutto nel periodo romano. O almeno così si credette fino a pochi anni fa. Ma eccolo probabilmente rispuntare nelle cronache dell’alto medioevo in relazione ai traffici tra Liguria e Piemonte lungo le “vie del sale”. Alcuni documenti ricordano infatti il trasporto di un vino, la sciaretta, che veniva commerciato nell’alta Langa. Un vino bianco, leggero, senza pretese e dal sapore asprigno. Un’attenta analisi delle sue caratteristiche sembravano però riportarlo proprio allo sciaros persiano. Ho quindi ipotizzato che a causa dello scarso successo ottenuto in Sardegna il vitigno ed il vino avessero presero la via della Liguria, dove però nuovamente il clima mite delle alture a picco sul mediterraneo non favorirono le giuste condizioni per l’esplosioni delle indubbie qualità di una bevanda abituata al più rigido e variegato clima persiano. Si può a questo punto pensare che una sua limitata produzione iniziò nelle più alte terre di Langa, dove sono state effettivamente ritrovate steli votive (Mombaruzzo e Prunetto) con riferimenti ad un vino “dei re” venuto dall’oriente. Durante la piccola era glaciale del 1600 la produzione cessò quasi del tutto e probabilmente resistettero solo piccoli appezzamenti nei territori più bassi, a dominio del Tanaro.

In quella terra di rossi, non era comunque facile la sopravvivenza di un vino bianco, anche se di così illustri natali, ma tristemente accompagnato da sfortunate vicende nel suo girovagare attraverso il Mediterraneo. In quell’epoca si intuì però, finalmente, la sua caratteristica fondamentale: la brevità del periodo di giusta maturazione e quindi la “ristrettezza” del tempo utile per la vendemmia. La posizione geografica era in realtà perfetta. La pianura tra il Tanaro e le Alpi riversava ancora verso le colline della Langa una tiepida e salmastra aria marina, permettendo al vino di esprimere quelle note di frutta esotica di origine orientale. D’altra parte il rigido vento alpino giungeva prematuro, proprio al limite della maturazione, bloccando in qualche modo la tendenza a scivolare verso aromaticità troppo spinte. Nel contempo gli conferiva una sapidità, una mineralità e capacità di tenuta veramente fuori dal comune, malgrado l’acidità non fosse troppo elevata. Bisognava però essere rapidi, sapienti nel non anticipare o rallentare la vendemmia. Una specie di vino “stregato”, che pochi giorni di anticipo o di ritardo potevano trasformare in una mielosa marmellata di fiori o in un aspro, tagliente e banale vinello. Documenti di difficile interpretazione, trovati recentemente su antichi reperti recuperati nei comuni dell’Alta Langa hanno indicato nel comune di Novello il territorio che meglio permise allo sfortunato vitigno di superare in qualche modo i gelidi inverni del 1600. Le dure condizioni riuscirono ad evidenziare al meglio le potenzialità del vino, etichettando però i pochi ostinati viticoltori come veri e propri “stregoni” in possesso di arti magiche. Si tramanda che alcuni rischiarono di essere condannati per stregoneria durante l’inquisizione, probabilmente per la gelosia di chi non riusciva a cogliere “l’attimo fuggente” dello scontroso vitigno. Non risulta quindi strano che in qualche modo il vino venne collegato alla magia, alla stregoneria e quindi alle figure tipiche delle tradizioni locale: le “masche”. Ma la masca di questo vino così pretenzioso e sfuggente doveva essere estremamente astuta, rapida ed elusiva. Ed ecco allora un mescolanza di nomi che potrebbero portare facilmente all’attuale e misteriosa nas’cetta. Sicuramente non manca l’etimo originale sciaros divenuto poi sciaretta. Ma è indubbio anche il riferimento alla masca, alla strega elusiva, la cui comparsa era breve, legata al limitato periodo della giusta maturazione. Solo chi era nelle sue grazie sapeva quando e come vendemmiare. Una masca, limitata e “stretta” nella sua apparizione, masca streita, di ricordo ligure-piemontese, nata e raccontata nelle lunghe e fredde notti lungo le vie del sale. Oppure più semplicemente masca della sciaretta. Quale due etimologie sia la più vicina al vero non è dato ancora sapere. Da un alto la masca della sciaretta, divenuta masciaretta. Dall’altro la masca quasi invisibile e rapida la mascastreita. Come normale in molte trascrizioni antiche, spesso e volentieri, la M la N si sono identificate a causa della difficoltà nello scrivere la M, una delle lettere più ostiche per i semplici abitanti delle alte colline o della montagna. E quindi ecco la trasformazione in nasciaretta o in nascastreita. Se per assonanza la prima sembrerebbe più vicina all’attuale nas’cetta, la seconda ha a suo favore un’indubbia ed importante presenza nel comune di Novello: la Cascina Stretta, o delle Strette, o se ancora volete della Masca Stretta, risalente proprio al 1700, periodo di maggior fulgore del magico vino. La presenza dell’Azienda Le Strette, estremamente legata a questa intrigante riscoperta vinicola, potrebbe non essere casuale. E ci piace pensare che proprio presso di essa si concluda la lunga e faticosa strada fatta da questo scorbutico, ma meraviglioso vino, nato all’alba della civiltà nelle alture persiane. Sono poi particolarmente lieto perché la probabile soluzione ad un annoso problema come questo è arrivata proprio da un attento collegamento tra cultura astronomica ed interesse enologico. Proprio lo spirito e la passione del celebre Circolo Tirso, alla cui attenta indagine si deve la straordinaria scoperta.

PS1: devo ammettere, per sincerità culturale, che ciò che viene descritto nell’articolo è stato a volte solo “leggermente” esagerato dalla smania di scoperta del sottoscritto … ma dov’è sta veramente la verità al giorno d’oggi?
PS2: devo anche ricordare che un’altra azienda di Novello (Elvio Cogno) ha avuto un ruolo di primo piano nella valorizzazione di questo splendido vitigno e che in esso ha sempre creduto fortemente. Oggi anche al di fuori del territorio di partenza  vi sono produttori (ad esempio Sergio Germano) che si stanno avvicinando con convinzione alla Nascetta.

Azienda Agricola Le Strette
Via Le Strette 1f, NOVELLO (CN)
Tel. 0173 744002
Email: lestrette@lestrette.com
Sito web: http://www.lestrette.com/

Vincenzo Zappalà

9 COMMENTS

  1. Ciao, Enzo. Sei sempre più incredibile.
    La pensione ti ha fatto molto bene.
    Ciao
    Giancarlo

  2. Di etimo in etimo non posso non far caso che nella Toscana settentrionale (in quella Toscana che è già un po’ ligure), viene vinificata la Massaretta… ma è un’uva rossa, e quindi almeno di una cosa siamo sicuri: non c’entra nulla!

    Luca

  3. @Luca,
    accidenti è vero !!! Il fatto di essere rossa non è poi un gran problema…in qualche modo si potrebbe raggirare sicuramente … fammi pensare ….
    @Giancarlo,
    e questo è solo l’inizio …. ma poi sembra quasi che tu non ci creda …. tanta fatica per niente?

  4. caro Enzo,
    lavoro suggestivo.
    ma consentimi di non essere daccordo con l’uso del termine “autoctono” riservato come se fosse un’esclusiva ai due vitigni bianchi timorasso e nas-cetta.

    autoctono significa indigeno, radicato sul territorio, non è affatto sinonimo di “raro e di piccola produzione”

    pertanto altro è dire “rari” altro è dire “autoctoni”

    la grande ricchezza ampelografica del nostro Piemonte vede molti vitigni autoctoni a bacca bianca vitigni altrettanto seri, e anche più importanti per produzione e ritorno economico, a partire dal Moscato e dal Cortese, per arrivare a Arneis, Erbaluce e Favorita…

    un caro saluto agli amici della nas-cetta

  5. chiedo scusa caro Maurizio,
    in realtà conosco il significato di autoctono e penso che Timorasso e Nascetta rappresentino per i bianchi del Piemonte qualcosa un gradino sopra gli altri. Ma è una personale e poco significativa considerazione. Rimane la mia colpa, anche perchè dall’articolo risulta che la nascetta non è in fondo un “vero” autoctono ….

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