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Uguali ma diversi. Assaggi e discorsi sul sangiovese

Suvereto, 4 dicembre 2009. La barriccaia della bella cantina progettata da Mario Botta non ospitava solo “vini in divenire” in questo piovoso venerdì dicembrino. Curati dalla sempre bella ospitalità della famiglia Moretti, un centinaio tra giornalisti, produttori e operatori erano arrivati per discutere, prima in convegno e poi di fronte a una ristretta selezione di vini toscani, di sangiovese. “Uguali perché diversi. Il sangiovese che verrà”, questo il titolo del convegno che ha visto vari e interessanti interventi, a partire da quello di apertura, del sempre presente Attilio Scienza, sicuro punto di riferimento quando si debba parlare di vitigni. Qui Scienza affrontava lo studio delle origini del sangiovese, e le ragioni legate alla sua diffusione. Un vitigno che studi scientifici, simili a quelli di Luca Cavalli Sforza sul genoma umano, hanno dimostrato essere nato tra Campania e Calabria, da un incrocio tra ciliegiolo (aglianicone) e un vitigno praticamente sconosciuto, portato in zona probabilmente da un albanese di Calabria, a cui è stato dato il nome di “calabrese di Montenuovo.”

Ma tra i mille e mille incroci avvenuti in passato, perché proprio questo ha avuto un successo tale da fare ritrovare sangiovese in gran parte della penisola e tracce del suo corredo genetico anche in molti altri vitigni quali frappato, gaglioppo, nerello? Per Scienza non ci sono dubbi, la particolarità di quest’uva non era tanto quella di dare un prodotto eccellente dal punto di vista organolettico, ma piuttosto quella di dare un vino che ben si adattava alla ritualità del sacrificio, col suo colore poco concentrato e presto virante all’arancio, che facilmente ricordava il sangue. Ecco così che la diffusione antica del vitigno fu legata alla sua valenza mistica, al culto di Dionisio, alla pratica del simposio e, se è facile trovare un’origine latina del nome in Sanguis Jovis (il sangue del Dio Giove), non mancano possibili derivazioni etimologiche etrusche, e anzi sembra molto probabile che proprio gli etruschi abbiano favorito la diffusione del vitigno in Toscana.

Passando dalle origini ai problemi moderni, Scienza si lancia in una confutazione della possibilità di riconoscere la composizione di un vino dallo studio del profilo antocianico, un dato troppo variabile, anche in funzione delle caratteristiche climatiche e dei terreni, per poter essere preso come metro oggettivo di paragone. Un chiaro accenno a Brunellopoli a cui fa seguire anche una critica tout court al dogma della purezza (intesa nel senso del monovitigno) che a suo dire sottintende una inconscia adesione alle idee steineriane se non ancora una reminescenza del significato mistico del vino da sangiovese: un vino necessariamente puro così come puro deve rimanere il sangue, senza contaminazioni.

Dalla ricerca storica a quella filosofica, con Massimo Venturi Ferriolo, docente di estetica che, dopo aver avvalorato le ipotesi di Scienza sulla valenza mistica del vino e del sangiovese in particolare, passa alla celebrazione della vite come simbolo dell’ingegno umano in quanto prodotto certamente antropico (la vite che conosciamo deriva dalla domesticazione di ceppi selvatici). Porta di collegamento tra uomo e natura, simbolo di bellezza nella cultura classica e ancora oggi coltivazione dal grande valore estetico e paesaggistico.

E’ poi Piermario Meletti Cavallari a riportare il discorso su piani empirici con la sua concreta testimonianza legata alla storia della viticoltura costiera. Viticoltura che dai fasti etruschi piombò nel nulla in seguito all’impaludamente delle pianure e all’impoverimento delle popolazioni. Una sorte risollevata episodicamente nel 19esimo secolo ad opera dei Gherardesca, ma sempre contrastata nella sua crescita qualitativa dalla pressione verso ceppi più produttivi dettata dalla povertà e finanche dall’istituto della mezzadria. Bisogna attendere gli anni ’80 del secolo scorso, e l’ingresso in campo di quelli che Cavallari chiama i purosangue, per una vera ripresa della viticoltura costiera.  Una rinascita che comunque non privilegia il sangiovese, vitigno difficile che richiede terroir particolari e che storicamente in zona è sempre stato utilizzato in uvaggio. Ed eccoci alla sua esperienza a Grattamacco, dove trovò vigne piene di sangiovese e che decise comunque di mantenere, anche quando intraprese la via tracciata dai purosangue bolgheresi. Una scelta non tecnica, ci confessa, ma piuttosto tradizionalista, un atto di fedeltà verso il luogo, e anche una sua convinzione personale sulla dote del vitigno in fatto di portare eleganza e bevibilità ai vini. Una dote che oggi si sente di confermare, dopo aver riassaggiato annate vecchie in cui il sangiovese era predominante (il 50%). Vini che inizialmente erano marcati essenzialmente dal cabernet e che oggi mostrano una nuova eleganza certamente attribuibile al sangiovese. Una convinzione quindi ribadita, in favore dell’utilizzo del sangiovese anche in piccole quantità e particolarmente per i vini che si vogliono da invecchiamento.

Dalla vigna alla sociologia con Francesco Morace di Future Concept Lab, che esordisce negando che ci si trovi nel mezzo di una crisi. Molto di più in effetti, siamo nel bel mezzo di un cambiamento di epoca! Un cambiamento per affrontare il quale Morace propone tre parole chiave, tre paradigmi. La memoria visionaria, ovvero l’uscita dalla contraddizione tra la conservazione del passato e lo slancio verso il futuro a spese del passato stesso. Bisogna far sì che tradizione e traduzione diventino sinonimi, uscendo dal localismo (“chi si arroca muore”) e avere il coraggio di pensare in grande. In grande e con virtuosismo, ecco il secondo paradigma, che ha le sue radici nella bottega rinascimentale. Un saper fare non autoreferenziale superando la verticalità degli specialismi che escludono l’accesso alla gran parte della società. Non un livellamento verso l’ignoranza di massa (una cosa che certamente sta accadendo ma che per Morace è solo frutto del periodo di passaggio), piuttosto un futuro di dilettanti che imparano e lo fanno dilettandosi. E infine l’emozione sostenibile, dove sostenibilità non va confusa con un ecologismo caratterizzato da ideologie di contrapposizione, ma come condizione sine qua non per vivere bene nel futuro, una volontà legata agli affetti, al volere il bene dei propri cari. E siccome noi italiani siamo deboli eticamente, ecco che dobbiamo potenziare la valenza estetica, produrre virtù felice sul territorio, una cosa diversa dal “lusso” (“la fuga verso le nicchie del lusso è già finita non avendo dato i risultati che ci si aspettava”) e che potremmo chiamare “gusto”, in pieno stile italiano.

Nuovamente in vigna con Marco Caprai, che ci parla di Montefalco, di una zona con una storia simile a quella della costa Toscana, già citata da Plinio il Vecchio e poi scomparsa per secoli. Ci palra della rinascita avvenuta puntando sul Sagrantino (ancora un legame col sacro!) e sulla ricostruzione del territorio alla ricerca della biodiversità perduta. Un lavoro istruito oggi da un nuovo triangolo virtuoso, dopo “uomo-vitigno-terroir” ecco “valore economico-valore etico-sostenibilità”.

Marco Mancini, infine, bioclimatologo, per ricordarci che i problemi non sono solo quelli economici, ma anche per affermare che se l’agricoltura è una delle cause dell’effetto serra (effetto già previsto da Arrhenius nel 1896 tra gli scherni dei contemporanei) è anche vero che solo l’agricoltura, tra le attività produttive, può essere anche uno strumento per combattere il riscaldamento climatico. Un riscaldamento ormai più che verificato e che presenta due aspetti diversi. Un aumento delle tendenze medie e un aumento degli eventi atmosferici estremi, aspetto quest’ultimo decisamente preoccupante per l’agricoltura e che sta già producendo notevoli danni. Eventi estremi che porteranno in breve anche a cambiamenti colturali, quali ad esempio un ritorno, se non ai terrazzamenti, ai piani raccordati, per limitare i danni delle piogge molto intense. Un quadro non così rassicurante a ben vedere, che ironicamente presenta qualche vantaggio proprio per il sangiovese, su cui sono stati eseguiti studi specifici che hanno dimostrato il miglioramento della qualità media dell’uva a causa dell’innalzamento delle temperature!

A tanti discorsi non poteva che seguire un pranzo ristoratore e, poi, un po’ di pratica: la degustazione alla cieca di 12 sangiovese toscani guidata da Daniele Cernilli. Una selezione decisamente azzeccata per conformarsi al titolo del convegno: “Uguali perché diversi…”. Dodici sangiovese in purezza, prevalentemente 2006, che spaziavano dallo stile archetipale del Pergole Torte, alla pienezza emozionale del Cepparello, alla placida eleganza del Nocio dei Boscarelli, al decadente bouquet del Poggio Valente de Le Pupille. Questi i campioni che mi sono piaciuti di più, certamente per un mio gusto personale, ma anche perché, nel mio immaginario, questo è il sangiovese.

Tra gli altri i due Montecucco, il Lombrone di Colle Massari e il Santa Marta di Salustri rivelavano l’anima sapida e piena, anche scorbutica, del sangiovese costiero, in maniera simile a Il Cavaliere 2005 di Michele Satta e al Principe Guerriero di Pagani de Marchi, forse il più strutturato tra questi. Più moderni il Sangiovese di Petra e il Sassontino di Casanova della Spinetta, un pisano. Due vini piacevoli e morbidi in cui l’abbondanza di frutto ci portava però lontani dagli spigoli sangiovesisti. Spigoli parzialmente ritrovati nel Brunello di Montalcino La Fuga 2004 di Folonari, vino dal buon equilibrio ma che non ho riconosciuto come ilcinese. Dubbi amletici invece per il Fontalloro di Felsina, in una versione inspiegabilmente irriconoscibile in cui il legno oscurava ognicosa.

Vini diversi e anche buoni nella maggior parte dei casi, non c’è che dire. La Toscana è grande e parrebbe poco credibile ottenere ovunque lo stesso sangiovese. Rimane piuttosto da chiedersi dove veramente valga la pena coltivarlo, tornando anche alle dichiarazioni di Scienza: “Il sangiovese è un vitigno problematico, per viticoltori esperti, come è possibile che venga la stessa qualità a Montalcino con tutti quei terroir diversi? Dobbiamo piantarlo nei posti giusti!”

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