L’aglianico del Vulture secondo Cantine del Notaio

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Ho conosciuto Gerardo Giuratrabocchetti ad una degustazione organizzata dalla Wine Academy di Roma qualche tempo fa. Al di là dei vini (in costante crescita qualitativa) ciò che mi resta più impressa è la passione di quest’uomo, che per oltre due ore è stato lì a parlare di aglianico e di territorio a una ventina di persone, illustrando con una didattica semplice ma estremamente efficace  alcuni concetti base di vitivinicoltura, noncurante dei quasi 400 km che a tarda notte lo avrebbero riportato da Roma nel cuore della sua Basilicata. In queste occasioni ti rendi conto che dentro il vetro della bottiglia c’è veramente tanto di più di un liquido odoroso ottenuto da uva fermentata: c’è il cuore e  l’anima di un produttore che crede in quello che fa e che ama la sua terra e il suo vino con tutto se stesso.

Assecondando una passione per la viticoltura radicata in famiglia da generazioni, poco più di 10 anni fa Gerardo, insieme alla moglie Marcella, decidono di avviare un ambizioso progetto imperniato su una ferma convinzione:  l’aglianico coltivato sulle pendici del vulcano Vulture può raggiungere livelli di complessità e piacevolezza di valore assoluto, non avendo nulla da invidiare ai più blasonati vitigni del mondo. Quello di Cantine del Notaio è un progetto viticolo prima che enologico, finalizzato quindi ad esplorare tutte le potenzialità enologiche di questo vitigno, che in queste zone (come nella vicina Irpinia) riesce forse ad offrire il meglio di sé.

Il primo passo è stato la selezione del clone più adatto alle particolari condizioni climatiche della zona, caratterizzata da inverni lunghi e umidi, ed estati calde e siccitose, con forti escursioni termiche. Qui l’aglianico ha un ciclo vegetativo molto lungo: germoglia presto e matura tardi, talvolta anche a metà novembre! Serve un clone capace di portare in vendemmia uve sane in condizioni che possono essere anche meteorologicamente assai complicate: e quindi grappolo allungato per far scorrere bene l’acqua, tanta pruina sulla buccia a formare un consistente strato protettivo, dimensioni ridotte in modo da garantire una maturazione omogenea anche al cuore del grappolo, acini spargoli per far passare l’aria e asciugarsi rapidamente.

Una volta scelto il clone più adatto, sono stati individuati 5 vigneti diversi in 5 contrade storiche della viticoltura del Vulture: Rionero, Barile, Ripacandida, Maschito e Ginestra. In questi terreni di matrice ovviamente vulcanica, fertili e ricchi di sostanze minerali, alcuni strati tufacei in profondità immagazzinano l’acqua restituendola durante i periodi più siccitosi dell’anno (i contadini del posto parlano del “tufo che allatta”). Per indagare gli effetti delle della composizione del terreno sull’uva, i vigneti sono stati coltivati tutti nello stesso modo, ispirato a tecniche biologiche e biodinamiche che hanno alla base un rispetto assoluto per la vita del terreno e della pianta.

Alla fine, nonostante le differenze pedologiche tra un appezzamento e l’altro, i risultati dal punto di vista qualitativo delle uve non sono stati molto differenti. Un’uniformità che Gerardo spiega col fatto che l’effetto del terroir, a suo parere, si attenua man mano che ci si allontana dalle condizioni critiche per lo sviluppo vegetativo della vite. In Francia, dove a causa della latitudine e del clima la pianta può avere estreme difficoltà a completare  il proprio ciclo vitale, stare su una collina piuttosto che un’altra, con un’esposizione di un certo tipo e a una certa altitudine, può essere (e in effetti è) determinante. Nelle 5 contrade sperimentate da Cantine del Notaio, tutte comunque accomunate da una consolidata vocazione viticola e con microclimi abbastanza simili, evidentemente la composizione fisico/chimica del terreno non riesce a incidere in maniera significativa sul carattere del prodotto finale. O per lo meno questa è l’impressione di Gerardo e del suo staff, convinti fermamente che alla fine a fare veramente la differenza sia il fattore umano, il modo diverso di operare in vigna, figlio di tradizioni e pratiche antiche, tutte condensate in quella che Gerardo ha chiamato “la cultura della coltura”.

Oggi nelle Cantine del Notaio le etichette si sono moltiplicate. Tutti i vini hanno un nome che rimanda ad attività notarili (un omaggio alla professione del padre di Gerardo) e quelle più importanti sono ovviamente 100% aglianico. Tra tutte mi piace segnalare Il Rogito, un rosato di grande personalità, ricco di sapore, molto lungo e salino, con una lieve tannicità e una struttura che lo rende un ottimo vino a tutto pasto; La Stipula, interessante esperimento di spumante rosè brut metodo classico millesimato, molto secco, minerale, salato, austero; infine tra i rossi importanti la mia preferenza va a La Firma, vino elegante e profondo, equilibrato, succoso e avvolgente, caratterizzato da un frutto maturo e da tannini molto levigati, con un finale appena un po’ troppo segnato dal legno, che ha bisogno di tempo per fondersi al meglio col resto del liquido.

Franco Santini

Franco Santini (santini@acquabuona.it), abruzzese, ingegnere per mestiere, giornalista per passione, ha iniziato a scrivere nel 1998 per L’Ente Editoriale dell’Arma dei Carabinieri. Pian piano, da argomenti tecnico-scientifici è passato al vino e all’enogastronomia, e ora non vuol sentire parlare d’altro! Grande conoscitore della realtà vitivinicola abruzzese, sta allargando sempre più i suoi “confini” al resto dell’Italia enoica. Sceglie le sue mète di viaggio a partire dalla superficie vitata del luogo, e costringe la sua povera compagna ad aiutarlo nella missione di tenere alto il consumo medio di vino pro-capite del paese!

1 COMMENT

  1. Questo Aglianico,non ho provato nessun che arriva ao sapore.Il migliore vino d’ Italia securamente!

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