L’identità italiana in cucina, di Massimo Montanari

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Con l’avvicinarsi del centocinquantenario dell’unità, particolarmente intensi sono gli sforzi per capire se esiste davvero una identità italiana. Sforzi assai faticosi dato anche il momento politico, sociale e civile che stiamo vivendo, e per la verità viviamo da un po’. E ci mancava l’Unesco che inserendo la dieta mediterranea fra i “patrimoni immateriali dell’umanità”, è riuscito a scatenare una vivace scambio di idee fra cuochi del nord e del sud, come riferiva Il Sole 24 Ore del 18 novembre scorso, per capire se tale insieme di pratiche alimentari si debba attribuire più ad una parte del nostro Paese o alla sua interezza.

Ma non è che, sembra lecito sospettare, invece di fungere da elemento unificante la cucina al contrario può configurarsi come ennesimo fattore disgregante? Effettivamente una impresa di sintesi parrebbe disperata, anche perché l’idea generale è che le diversità, come le differenze che appaiono in ricette dello stesso piatto codificate magari a pochi chilometri di distanza, vadano considerate come ricchezze anti-omologazione. E del resto, si sente spesso dire, la cucina italiana non esiste, ma esistono tante cucine italiane (vero), o esistono cucine regionali (meno vero, visto che le regioni sono entità politiche).

Ci vuole perciò lo spessore intellettuale e culturale di uno studioso come Massimo Montanari, docente di Storia medievale e di Storia dell’alimentazione presso l’Università di Bologna ed autore di numerosi titoli sull’argomento, per dipanare la matassa e cercare, volando alto come le aquile, la chiave per stabilire se esiste una identità specifica della cucina italiana, come recita il titolo di questo ultimo libro da poco uscito da Laterza, ed eventualmente in quali termini essa si possa estrinsecare.

Il punto iniziale sono i mattoni costitutivi, gli ingredienti. La pasta, che ha molteplici provenienze: quella piatta ed ampia arriva dall’antica Roma, quella di forma allungata dal mondo arabo e sbarcherà inizialmente in Sicilia. Poi ci sono le torte ripiene, geniale invenzione per il trasporto di generi alimentari, e a Napoli se ne diffonderà una aperta che verrà chiamata “pizza”. Poi ancora un elenco di cibi non certo italiani ma importati: il mais dall’America che gradualmente sostituì i romani farro, panico e serego come cereali non panificabili, la patata (dal Perù) il cui successo ha una impressionante corrispondenza con i periodi di carestia, il peperone e peperoncino (dal messico), e così via.

Questi cibi, fossero di provenienze diverse o anche (naturalmente) prodotti localmente, vennero poi però immessi in un circuito di conoscenze comuni alla cui circolazione provvidero le città, che più degli Stati svolsero la funzione di gangli culturali. Punto di centrale secondo l’autore è dunque quello di interpretare la identità gastronomica del nostro Paese come realizzata da una rete di città che si sono incaricate di ratificare la validità di un prodotto sia esso “alloctono” o proveniente dalle vicine campagne.Per esempio, il formaggio Parmigiano, pur originario del contado e quindi “parmense” diventa degno di attenzione quando la città ne fa un prodotto che solo essa possiede l’autorevolezza di mettere in circolazione in un network nazionale. Diventa così appannaggio della città e dunque, appunto, Parmigiano.

E quindi, “non c’è, non esiste una ‘torta italiana’. Italiana è la torta come ‘genere’”. Italiana è la rete di consuetudini, saperi, gusti che di volta in volta qualificano concretamente, e diversamente, l’oggetto comune. E se non esiste una cucina italiana, esiste una “rete” di saperi e pratiche, e di prodotti (banalmente, l’olio d’oliva per i cuochi del nord) che definisce un sapere culinario italiano, insomma una cultura nazionale. Gli stessi Scappi e Artusi, i principali codificatori della nostra cucina, non fecero prevalere un dialetto sugli altri come accadde con Dante e Petrarca, ma seppero individuare e rappresentare questa rete di saperi.

E alla fine, sono proprio le parole di Massimo Bottura a confermare le tesi di Montanari quando, a proposito del riconoscimento Unesco, dichiara al Sole 24 Ore che “pur essendo radicati nella terra del burro e del formaggio, ricorriamo in maniera costante all’olio di oliva ed utilizziamo materie prime del sud”.

Alla fine del volume, interessanti indicazioni per un percorso di lettura.

Massimo Montanari
L’identità italiana in cucina
Laterza, 2010
97 pagine, 9 euro

Riccardo Farchioni

2 COMMENTS

  1. Certo che esiste una cucina italiana. Non avrà la consolidata codificazione e condivisione di quella francese (ma ricordiamoci che la cucina francese deriva in buona parte da quella portata via matrimonio a Parigi dai Medici fiorentini). Non avrà questo nè quello, perchè noi italiani tendiamo a vedere le nostre cose prima col negativo, ma pensiamo a quello che “HA”: una inimitabile varietà, anche all’interno di un territorio un’infinità di modulazioni; una gamma di prodotti che tutto il mondo c’invidia. L’insieme delle nostre produzioni e culture forma un “corpus” enogastronomico inimitabile e inesauribile. Per fare un solo esempio, questo si è estrinsecato in maniera travolgente in occasione della recente Expo mondiale di Shanghai. In mezzo a un mare di padiglioni, tanto ben fatti, attrattivi e rutilanti all’esterno quanto, la stragrande maggioranza, miseri in proposte e fantasia all’interno, tra i primi quello francese, che mi ha tanto deluso per l’inconsistenza della sua rappresentazione quanto rallegrato nel confronto col nostro padiglione, dove si rappresentava in maniera coinvolgante tutta la varietà e ricchezza della nostra storia, dell’arte. dell’architettura, ecc., ecc., ecc. Un’impresa tanto ben realizzata da inorgoglire e farci venire le lacrime agli occhi. In Italia, di fronte a questa prova di creatività messa al servizio della nostra immagine nel mondo, siamo stati solo capaci di cavillare su chi c’era e chi non c’era. E quindi non chiediamoci se esista un’identità italiana in cucina, in tutto il mondo la o le cucine italiane stanno facendo proseliti e noi ci lambicchiamo sulla sua o loro esistenza.
    Valorizziamo la cucina, i vini, i prodotti del territorio e saremo vincenti nel mondo, promuovendo in maniera consistente anche il nostro turismo. Se ho davanti a me una bella donna la ammiro, magari mi piace anche “gustarla” se possibile, non m’interessa guardarla attraverso una macchina per radiografie.
    Spero di aver sapèuto comunicare il mio pensiero, che vuol essere positivo e propositivo.
    Grazie dell’ospitalità.
    Mauro Marelli

  2. Caro Mauro, altro che ringraziare per l’ospitalità, siamo noi che ringraziamo te per questo piccolo reportage dell’Expo! Detto questo, l’autore del libro non si pone il dubbio se esista o no una identità italiana in cucina, anzi ci scrive un libro sopra, è la nostra (anzi mia) recensione che inizia con un (piuttosto retorico) dubbio. Vale la pena però, pur senza lambiccarcisi troppo, definirla questa identità, come c’è chi si sforza per codificare i tratti della pittura impressionista o della musica romantica, senza negare naturalmente che il piacere maggiore, o il piacere vero, lo danno un quadro di Monet o una sinfonia di Schubert.
    Dopo tutto questo, tanti auguri da tutti noi, e se vorrai mandarci altre testimonianze…. Un caro saluto.

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