Il “seawine” di Tokelau

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Il mondo del vino sta forse per assistere a una svolta epocale, i cui confini sono ancora inimmaginabili. Nell’atollo di Tokelau (Nuova Zelanda) si sta sperimentando un nuovo sistema di coltivazione che potrebbe rivoluzionare le gerarchie del vino bianco. E pensare che tutto ha, forse, avuto origine da un gruppo di turisti domenicali…

Tokelau è un bellissimo atollo situato a est dell’Australia, appartenente politicamente alla Nuova Zelanda, situata molto più a sud. Le sue acque smeraldine e la sua fauna ittica dai colori fantastici ne fanno meta di molti turisti che vi trascorrono spesso i fine settimana. La nazione agli antipodi dell’Italia è ormai celebre per i suoi vini, soprattutto bianchi, che hanno raggiunto livelli estremamente interessanti, primeggiando spesso in degustazioni di carattere internazionale. Qual è il nesso tra queste due constatazioni? Sembrerebbero notizie slegate e invece…

Fino a poco tempo fa si pensava che la vite fosse stata importata in Nuova Zelanda e che non esistessero vitigni autoctoni. Questa convinzione è rimasta assodata fino al 1995, quando nei territori vicini alle spiagge di Hawke’s Bay fu scoperta una varietà autoctona di vite nana, a cui è stato dato nome di Kiwifera. In realtà le tradizioni maori raccontavano di un liquido afrodisiaco, il cui ricordo si perdeva nella notte dei tempi, ma di esso si era cancellata ogni memoria dopo l’occupazione europea. Probabilmente, veniva ottenuto proprio dalla pigiatura e dalla fermentazione della Kiwifera. Il nome si riferisce all’abitudine alimentare del famoso uccello corridore delle isole, il Kiwi, che nella zona è stato visto cibarsi degli acini dell’uva.

La varietà, a bacca bianca, è estremamente particolare. La mancanza di alberi ad alto fusto nelle vicinanze ha modificato lentamente le caratteristiche originarie della pianta che da rampicante è diventata strisciante e crea ciuffi verdeggianti sulle dune di sabbia vulcanica che circondano la baia neozelandese, spingendosi a volte estremamente vicino alla superficie marina. Gli acini sono relativamente piccoli e di sapore dolce e penetrante, con un che di acidulo che le ha subito rese estremamente stuzzicanti come frutto. Un modesto utilizzo si è avuto all’inizio del nuovo secolo, ma il consumo è restato essenzialmente locale e saltuario. Niente faceva supporre lo straordinario sviluppo che avrebbe avuto da lì a pochi anni. Tuttavia, solo il caso ha dato il via all’insperabile successo di cui si parlava all’inizio.

Qualche abitante del luogo, in gita all’atollo di Tokelau, deve avere portato con sé alcuni grappoli per un picnic in riva alle spiagge bianchissime dell’isola e deve avere lasciato alcuni acini sull’arenile, dove poi le onde li avrebbero trascinati in acqua. Anche se si tratta solo di ipotesi, il fatto è che pochi anni dopo è stata notata la presenza di una strana alga che rivestiva i bassi fondali costieri (Fig. 1). Le prime ricerche sul vegetale marino sono state eseguite nel 2004 e i ricercatori si sono trovati davanti a una straordinaria scoperta: l’alga non era un’alga, ma la Kiwifera che aveva attecchito e si era sviluppata benissimo nell’acqua salina (Fig. 2). Gli acini avevano assunto una forma più piatta del solito, simile in qualche modo alla testa di piccoli funghi, ma avevano mantenuto comunque la propria commestibilità. Anzi… Il loro sapore era ancora più intenso e pervaso di sentori salmastri e salini.

Le analisi chimiche hanno subito dimostrato l’esistenza di composti organici che contenevano nella loro catena atomi di iodio e di sodio, ma soprattutto di un alcol altamente stabile, rivelatosi come alcol etil-cloro-iodico. La scoperta venne alle orecchie di Jeffrey Salmerin, uno dei più noti enologi della Nuova Zelanda, che decise di tentare una vinificazione sperimentale. I risultati ebbero dell’incredibile. Tutti sanno che una delle caratteristiche essenziali dei grandi vini bianchi è data dalla loro mineralità e dalla loro salinità. Ebbene, il vino della Kiwifera marina sembrava la quintessenza di queste proprietà: tagliente, leggermente e giustamente asprigno, salino e salmastro, di una lunghezza stupefacente. Una vera meraviglia. Le prime degustazioni ufficiali hanno fatto coniare tutta una nuova serie di profumi e di sapori, dall’anemone alla spugna, dalla poseidonia alla madrepora e al corallo. Un vero caleidoscopio di sensazioni raffinate e avvolgenti.

Nel 2006 sono state messe a dimora le prime coltivazioni controllate, vere e proprie vigne sottomarine, segnate come siti A, B, C e D nella Fig. 3. Il prossimo anno i primi vini dovrebbero uscire sul mercato e si è già iniziata una capillare campagna pubblicitaria per il lancio internazionale. Al vino è stato dato il nome di seawine e presto ne sentiremo parlare sempre più diffusamente.

Esistono comunque un paio di problemi ancora da superare che sicuramente saranno risolti al più presto. Il primo riguarda la vendemmia. Non può certo seguire le regole universalmente conosciute e applicate, ma deve essere effettuata solo attraverso reti da pesca a strascico. All’uopo sta nascendo una nuova figura operativa, quella del grapefisher, del “pescatore d’uva”. Sembra che i discendenti degli antichi maori siano estremamente abili in questa delicata e paziente occupazione (Fig. 4 e 5)

La seconda e più grave difficoltà salta invece all’occhio, anzi al … dente, durante la degustazione: non è infatti impossibile trovarsi incastrata in un canino o in un molare o addirittura nel palato, qualche piccola, trasparente ma fastidiosissima spina di pesce. E’ ovvio che per il successo del seawine, una filtrazione accurata e attenta sia un requisito fondamentale.

Vincenzo Zappalà

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