Luce, vento, terra… semplicemente Carso!

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Il Carso è uno di quei luoghi dove la parola “terroir” non è retorica. Da quelle parti i vini trasudano territorialità e memoria. Rifuggono banalità ed omologazione, e, nelle interpretazioni virtuose, l’azione combinata di natura, terreno, clima e uomo gli conferisce davvero un carattere chiaro e identificabile. E’ come se la roccia, il vento, la luce, tutti quegli elementi naturali cioè che da sempre hanno segnato il profilo di questa terra ostica e della gente tosta che la abita, conferisse al vino un’energia sotterranea. È per questo che, nell’immaginario dell’appassionato enoico, questa terra rappresenta una delle più interessanti frontiere enologiche degli ultimi anni.

Partiamo dalla luce. Ho conosciuto il Carso e i suoi vini in un seminario di Sandro Sangiorgi, nella sede romana di Porthos. Il titolo della serata, evocativo ed azzeccato come sempre, era: “La supremazia della luce”. Da quelle parti, l’inclinazione dei raggi del sole colpisce le foglie e i grappoli in maniera molto particolare: <<[…] è come se l’atmosfera sull’altopiano non avesse filtro>>, disse Sangiorgi, <<permettendo alla luce di arrivare alla pianta in maniera più diretta e fresca>>. In genere, siamo un po’ tutti portati a ritenere che l’uva maturi grazie al calore, ovvero all’energia termica, mentre è forse più corretto asserire che il frutto della vite si sviluppa e matura grazie soprattutto alla luce. Il calore è si importante, perché è il responsabile dell’aumento della concentrazione degli zuccheri (e quindi dell’alcol). Però ha un effetto degradante sull’acidità. <<La luce invece agisce sulla “qualità” dell’acidità, sia dal punto di vista “sensoriale”, con una sensazione più prolungata e vibrante, sia “biochimica”, con effetti positivi sulla conservazione del vino e sulla sua capacità di evoluzione nel tempo>> . C’è infatti una stretta relazione tra l’inclinazione dei raggi solari e l’escursione termica quotidiana, così preziosa nelle ultime settimane di maturazione dell’uva: con escursioni termiche maggiori aumenta il periodo attivo di fotosintesi, l’attività vitale della pianta, e con essa  migliora la composizione fenolica e si sviluppa la complessità aromatica. A patto però che si protegga il grappolo dalla eccessiva “cottura”, utilizzando il giusto sistema di allevamento (ciò spiega come mai nel Carso, ad esempio, sia ancora molto diffusa la pergola, capace di limitare gli eccessi di luminosità e calore).

Il secondo elemento naturale, onnipresente, è il vento. Faccio ricorso stavolta alle parole di Franco Franciosi,   cuoco-designer abruzzese, che così ha presentato una recente serata di degustazione nel restaurant-bar La Conca D’Oro di Avezzano (avrò modo nel finale di parlare dei vini proposti): <<La Bora è un vento per soli audaci e nel Carso la Bora spira forte, spesso. Qui il vento disegna i tratti di una terra dura, sospesa tra la Slovenia e l’Adriatico, tra il ricordo di cruente battaglie e un presente che è esempio di moderna integrazione. Nel Carso il vento disegna le rocce ed i volti, a la luce illumina uomini audaci che danno vita ad autentici miracoli del saper fare. Una terra dove, se chiudi gli occhi, il vento ti porta il suo odore>>.  Un vento incessante che spazza via qualsiasi forma di vita che non sia profondamente ancorata al luogo, compresi, per fortuna, funghi e batteri patogeni (di conseguenza si hanno vigne più sane e naturali).

L’ultimo elemento è la terra. Il Carso è una sorta di enorme ammasso calcareo emerso dal mare decine di milioni di anni fa. Al piano più antico del fondale marino si sono poi aggiunti strati e strati di calcare di origine organica (gusci e scheletri degli animali) che i movimenti della terra hanno poi portato in superficie. Qui, sotto l’aziona lenta e incessante degli agenti atmosferici, è iniziato un fenomeno inverso:  le rocce calcaree, formate prevalentemente da carbonato di calcio, sotto l’azione di acqua piovana e anidride carbonica si trasformano in bicarbonato, assai più solubile. Nel tempo sono state così modellate, disegnate, scavate,  dando origine alle tristemente note foibe (che sono vere e proprie voragini più o meno profonde), alle doline (depressioni  del terreno a forma di imbuto) e a tutta una serie di grotte sotterranee. Nel complesso si tratta di una terra arida, congenitamente incapace di trattenere l’acqua, dove la roccia madre affiora ovunque: le piante devono fare una fatica terribile per nutrirsi ed hanno sviluppato un apparato radicale fuori dal comune. Solo nel fondo delle doline la vite trova un ambiente più favorevole: qui infatti l’acqua accumula tutti i residui di argilla, non sottoposti ai processi di corrosione chimica, dando origine a una terra rossa molto fertile, ricca di microelementi (soprattutto ossidi di ferro), meno permeabile e in definitiva assai adatta alla coltivazione (almeno nelle parti meglio esposte,  laddove sono contenuti i fenomeni di inversione termica,che porta la temperatura a scendere anche di 10-15 C° in pochi metri di dislivello).

Luce, vento e composizione del terreno caratterizzano quindi in maniera decisa i profili dei vini. A ciò si aggiunge, come in tutti gli altri casi, il fattore umano. Quella del Carso è una vitivinicoltura a carattere prettamente familiare, artigianale, che confida molto più nella sensibilità e nel saper fare dell’uomo piuttosto che nella tecnologia nell’intervento tecnologico. Un tempo la viticoltura riguardava essenzialmente il “costone carsico” di roccia bianca a ridosso di Trieste, dove trovavano spazio vigneti terrazzati di malvasia e glera (da uno di questi paesini trae origine il nome “prosecco”). Ne derivavano vini semplici, profumati, molto adatti alle preparazioni di mare tipiche della costa. Solo negli ultimi 20-30 anni, con la progressiva urbanizzazione di queste “terrazze” sul mare, la coltivazione della vite si è spinta verso l’interno, andando a caccia di terreni adatti sull’altipiano. Oggi la denominazione Carso si estende per circa 100 ettari, in provincia di Trieste e nella parte più orientale di Gorizia. Il Carso sloveno è invece assai più esteso, e conta su circa 600 ettari suddivisi in 4 distretti produttivi.

I vitigni più rappresentativi sono tre: malvasia, terrano e vitovska.

La malvasia (sempre per dirla alla Sangiorgi) è un vitigno di talento, con una forte connotazione territoriale, capace di dar vita a vini fini e ricchi allo stesso tempo. Quella “istriana” – pur appartenendo alla famiglia delle malvasie diffuse in Italia centrale – è tuttavia un vitigno a sé: coniuga un’anima mediterranea alle vibrazioni di un’acidità più “nordica”. Pur conservando un corredo odoroso importante, è meno dolce ed aromatica delle malvasie classiche, e al profilo floreale e speziato aggiunge di solito una nota minerale salina, marina, tratto comune a molti vini di queste zone. Predilige il “costone carsico” oppure i terreni calcarei dell’altopiano, dove da vita a bianchi di profonda sapidità, energia, e presenza gustativa.

Il terrano è il rosso autoctono della zona, anche noto come “sangue di lepre” o “sangue del carso”, a causa del colore particolarmente concentrato. Imparentato da vicino con il refosco dal peduncolo rosso, è un vitigno abbastanza esuberante, che sembra prediligere i terreni rossi e ferrosi delle doline. Il vino che ne deriva è piuttosto asciutto, essenziale, con pochi tannini, grande carica acida e una mineralità ferrosa molto netta (in passato, ad esempio, era consigliato come “integratore” alle puerpere). E’ sempre stato concepito come un vino fresco da bere giovane, per cui ancora non ne sono state esplorate a sufficienza le potenzialità evolutive.

La vitovska, infine, è l’uva più caratteristica della zona. Prodotta solo nel Carso, resiste bene alla bora e alla siccità, e si trova a suo agio sia sui terreni calcarei che su quelli di terra rossa. Sempre Sangiorgi la descrive come <<un’uva neutra, la cui principale caratteristica è la minuziosa abilità nel leggere i dettagli dei luoghi che abita, restituendone la sintesi minerale, senza lasciarsi sfuggire le condizioni dell’annata>>. Vini quindi molto minerali, rocciosi, di grande vigore, sovente con un discreto patrimonio tannico dovuto alla frequente macerazione sulle bucce.

Nel corso della serata in Abruzzo ho assaggiato i vini di Beniamino Zidarich, come rappresentante del carso italiano, e di Marko Fon e Marko Tavcar, per la Slovenia. Chiudo allora questo excursus con alcune note su queste aziende e sui loro prodotti.

Zidarich
Produttore dinamico e appassionato. Da qualche tempo sono finiti i lavori nella sua nuova cantina. Non ho avuto il piacere di visitarla, ma amici che lo hanno fatto mi hanno raccontato di un’opera pazzesca, bellissima, tutta scavata nella roccia e che da sola merita il viaggio (le foto che si trovano su web lo confermano). I suoi vini sono originali e vibranti, ed incarnano la migliori qualità di questo terroir. Ho provato la Vitovska 2008 e il Terrano 2006. Tra i due le mie preferenze vanno a quest’ultimo. Vino dritto, senza fronzoli, ma di gran temperamento. Il profilo olfattivo è piuttosto scuro, cupo, con una florealità appassita all’inizio un po’ segnata dal rovere, che poi lascia spazio ad una decisa sbuffata di spezie. In bocca ha un’acidità viva ma equilibrata, e poi tantissima salinità. Chiude lungo e netto. Da carne alla griglia.

Marko Fon
E’ considerato il fuoriclasse della denominazione slovena. Uno sperimentatore giovane, deciso, intraprendente, sempre disponibile. Per lui i concetti chiave sono armonia nel vigneto e nel vino, e non ha mai dato troppo peso ai protocolli di cantina, che cambiano di anno in anno. Ci ha mandato due vini: la Malvasia 2008 e l’Insomnia 2009. Il primo è un suo classico, prodotto con uve da tre vigneti vicini, di cui uno a pergola. Frutto di una vendemmia tardiva, al colore è di un dorato leggermente velato. Al naso è un’esplosione di profumi, che coniugano la dolcezza della malvasia, con note agrumate e di erbe mediterranee. Stesso gioco anche in bocca, con la morbidezza contrastata dall’acidità e dalla salinità marina, in un profilo di altissimo equilibrio. Noi lo abbiamo provato su dei Tortelli di Baccalà in zuppetta di patate con pomodorini confit e lime: risultato fantastico! L’Insomnia  è un uvaggio da 7 vitigni, con prevalenza di malvasia da una piccola vigna di 60 anni a piede franco. E un vino molto preciso, territoriale, in cui Fon crede molto anche in ottica di evoluzione, che, in momenti diversi, potrà veder prevalere ognuno dei vitigni utilizzati (in questa fase giovanile è netto il timbro della malvasia). <<Un vino vivo,come Dio comanda>> (dalla mail che Fon mi ha inviato).

Marko Tavcar
Non conoscevo Tavcar e i suoi vini, ma vista la “raccomandazione” spontanea e sincera del collega Fon mi sono fidato ciecamente ed ho inserito molto volentieri il suo Terrano 2006 come contraltare a quello di Zidarich. Rispetto a quest’ultimo il vino di Tavcar parte con qualche incertezza sotto il profilo olfattivo, con note di riduzione che coprono un po’ i profumi. Poi però esce alla grande e rivela tutta la sua territorialità: sangue, terra, ferro, odori che rimandano al 100% al Carso! Asciutto, essenziale, in bocca ha un’acidità netta, che lo rende molto fresco. Lo abbiamo provato su un classico gulasch ed ha funzionato alla grande!

(P.S.- Le immagini utilizzate nell’articolo sono tratte da Google Maps, fotografieitalia.it, lastanzadelvino, ambienteepaesaggio2000)

Franco Santini

Franco Santini (santini@acquabuona.it), abruzzese, ingegnere per mestiere, giornalista per passione, ha iniziato a scrivere nel 1998 per L’Ente Editoriale dell’Arma dei Carabinieri. Pian piano, da argomenti tecnico-scientifici è passato al vino e all’enogastronomia, e ora non vuol sentire parlare d’altro! Grande conoscitore della realtà vitivinicola abruzzese, sta allargando sempre più i suoi “confini” al resto dell’Italia enoica. Sceglie le sue mète di viaggio a partire dalla superficie vitata del luogo, e costringe la sua povera compagna ad aiutarlo nella missione di tenere alto il consumo medio di vino pro-capite del paese!

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