Diario di Bordò. Bordeaux Primeurs 2010 experience. Premesse (o conclusioni)

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O delle cinque giornate di Bordeaux. E di come una intensa trasferta d’Aquitania, a tratti persino trafelata (e non solo per il gran caldo), possa rinfrescare pensieri enoici precostituiti per tracciare rotte nuove, dubbi inclusi. Di come ci si possa sentire di fronte al mito bordolese e alla sua inarrivabile grandeur (ma sarà proprio così?). In fondo, del bianco e del nero che c’è in ogni cosa, in ogni pensiero e in ogni mondo.

I pezzulli che seguiranno saranno pagine di diario, la forma narrativa che ho ritenuto più consona. Lungi da me lo sciorinare forbito di 250 note di degustazione “tutteinfila”, tante quante i vini assaggiati in quei giorni là (alla salute psichica dei due o tre affezionati lettori ci teniamo); e non mi soffermerò neppure su digressioni comparative fra annate diverse, esercizio professionalmente sensato ma per quanto mi riguarda assolutamente irrealizzabile, vista la mancanza di raffronti. Quelle pagine però scandiranno le tappe e i pensieri di un degustatore ingenuo catapultato dentro una realtà poco conosciuta (dal sottoscritto, ovviamente) e per questo, ritengo, vissuta senza preclusioni o preconcetti. Dedicherò parole ai vini che mi hanno strappato il ricordo, quello sì (e non sono pochi). Dedicherò parole ai volti e ai luoghi. Però, prima di iniziare  il racconto, voglio fare due o tre premesse propedeutiche, che poi non sono altro che conclusioni. Per inquadrare l’inquadrabile, per tirar le somme. Se non altro, per immaginarle ad ipotetica guida delle suggestioni che seguiranno.

a)      SIGNORI E CONTADINI – E’ vero. La caterva di château dai nomi altisonanti e dalla storia prestigiosa potrebbe indurti a pensare di trovarti di fronte a una sorta di Taj Mahal, un Taj Mahal consacrato e prezioso, inarrivabile ai più, geloso dei suoi riti e dei suoi miti. Lo scarto fisico ed emozionale che provi nel vedere la normalità operosa della gente del posto e quella immensa campagna sonnacchiosa tutt’attorno è violento, tanto da farmi stare bene, tanto da ridare una misura al tutto. A fronte della vetrina luccicante di uno château, della griffe e dello splendore di una dimora storica, ci pensa la proverbiale, inamovibile provincia francese a riportarti al mondo, capace com’è di inghiottire il Médoc in un imbuto di tempo lento e indolente quasi restio a rinnovarsi. E’ un tempo suo, questo è. Dietro le cancellate altezzose e i giardini immacolati, dietro i tendaggi pesanti di stanze ovattate, subodori uno scrigno di unicità alto borghese e très chic. Là fuori invece la faccenda complicata che si chiama vita. Con una analogia curiosa: sia gli abitanti del Taj Mahal che quelli delle case attorno sono più un sentore che una fisicità. Comprendi che le case sono abitate, ne intuisci l’uso, ma vedere gente in giro è evento raro. Le nostre alzatacce mattiniere, per fortuna, ci hanno restituito il conforto di una visione diffusa: i ragazzi e le ragazze di ogni età -tanti- in attesa alla fermata dell’autobus, nel bel mezzo del niente, per andare a scuola. Il futuro del Médoc, ho pensato, prende il bus delle sette.

b)      I NUMERI DEL VINO – Sapevo dell’estensione (enorme) del vigneto bordolese – che comprende Médoc, Libourne, Sauternais ma anche uno spicinio di denominazioni satellite –  ma quando ti ci trovi in mezzo il dato numerico (135 mila ettari) assume una dimensione ancor più imbarazzante. Perché la vedi! Capisci che lì, nel distretto enoico più importante del mondo, prendono forma e vita milioni di bottiglie di migliaia di château differenti, piccoli e grandi, conosciuti e sconosciuti. E ti chiedi: ma dove lo piazzano tutto ‘sto vino? E poi, alla luce dei fatti, realizzi che sì, è vero, le punte dell’eccellenza assoluta, per certi versi ineguagliabile, stanno di casa lì. Ma è vero altresì che vi dimorano un marea di vini di normale amministrazione, perlopiù corretti e vagamente piacevoli, lontani mille miglia dai lidi della individualità, spesso e volentieri con prezzi che non scherzano. Perciò, alla fine della fiera, la domanda è: ma dove lo venderanno, se lo venderanno, tutto ‘sto vino?

c)       TEORIA DELLA RELATIVITA’ – Quando ti capita di assaggiare a stretto giro 250 etichette diverse fra Médoc e Libournais  la necessità di relativizzare i concetti enoici diventa un’urgenza. Anche lì, mi dicono, si cerca di assecondare le “tentazioni” modaiole – di importazione americana –  e di “rinfrescare” la fisionomia classica dei vini verso colori più profondi, concentrazioni più marcate, morbidezze tanniche più accentuate, magari nel nome della fatidica maturità fenolica. Da più parti, mi dicono, si cerca di “pigiare il piede sull’acceleratore dell’estrazione”. Ecco, le parole sono le stesse che si sentono qua da noi. Con una differenza però: ma di cosa stiamo parlando? Perché se parliamo di peso, dimensione, attributi per i vini di Bordeaux bisogna spiegare bene che  ci stiamo riferendo allo STANDARD DELLA DENOMINAZIONE. Perché una capacità di dettaglio, un equilibrio e una freschezza così dalle nostre parti sono merce rara, ché quasi sembra di avere a che fare (esagero) con vini rarefatti!

d)     IL PARADOSSO BORDOLESE – Riva destra contro riva sinistra: eterno confronto. Sempre stimolante. Riva destra (Pomerol, Saint Emilion): dimensioni medie delle exploitations agricoles a misura d’uomo (la butto lì, 15-20 ettari); l’oenophile drizza le papille. Riva sinistra (Graves e Medoc): dimensioni medie molto più importanti (chessò, 90 ettari); l’oenophile pensa “storto”. Risultato? Nella riva destra il tasso di omologazione dei vini è altissimo. Nella riva sinistra no, i vini sono più caratterizzati, sebbene siano prodotti in decine di migliaia di esemplari in più (che spesso significano 100.000 bottiglie e passa per singolo cru). L’oenophile dovrà ricredersi. Come mai questo paradosso? Colpa del merlot? Colpa del terroir? Eppure come ispirano Pomerol e Saint Emilion…..  Ecco allora che c’è chi mormora che la spartizione della rive droite da parte di 3-4 enologi di grido abbia condotto a questo. Una serie di protocolli produttivi da seguire fin troppo pedissequamente, pochi scarti di lato, poca personalizzazione. Di contro, nel Médoc, châteaux provvisti di un loro staff tecnico, agronomico ed enologico, assicurano una maggiore caratterizzazione e una maggiore coerenza interpretativa, in linea con le potenzialità del singolo cru. Dell’erba, beninteso, non conviene fare un unico fascio. Ché quando avrai a che fare con l’incanto sospeso di Vieux Château Certan (Pomerol) o assaporerai la razza di Ausone (Saint Emilion) ti farà un piacere immenso avere conosciuto alcune delle eccezioni alla regola. Anche se di regola, purtroppo, sempre si tratta.

e)      IL PROFUMO DEI SOLDI – Tasto dolente: i prezzi. Non voglio soffermarmi sulle ragioni di una scelta, ma i prezzi che “staccano” oggi i cru più prestigiosi sono inarrivabili. Ed è un peccato. Perché di rimando l’innalzamento ha coinvolto tutta la produzione bordolese, portando decisamente fuori prezzo un gran numero di etichette. Peccato pure questo. La sensazione di essere impotenti e meri spettatori di uno spettacolo che poi si godono altri brucia. E’ come fare un lavoro a metà. Se ci aggiungi la sensazione che in fondo qui sia già stato tutto scritto in fatto di vini (primogeniture, privilegi, blasone, potenzialità, prima classe e seconda classe) e non ci si inventi più niente, beh, tutto questo non stimola davvero una good vibration. Sapevate che il 70% del mercato del vino bordolese oggi significa Cina? “La Cina è vicina”, ci diceva Bellocchio una quarantina di anni fa. Per la piega che ha preso la Storia, mi vien da pensare che quell’atto di preveggenza intendesse riferirsi al futuro commerciale di Bordeaux e dintorni!

f)       IL VOLTO UMANO DELLE COSE – D’accordo, mi direte, un evento come Bordeaux Primeurs non è l’ideale per allacciare contatti umani che possano reputarsi tali. D’altronde, la frequenza degli spostamenti da château a château per rispettare gli appuntamenti previsti assume i connotati di una linea di montaggio taylorista, e dalla batteria dei vini in degustazione nelle sessioni mattutine non puoi certo pretendere il miracolo della parola. In fondo, penso io, l’appuntamento ce l’hai proprio con il bicchiere, non con altri. Per questo forse non ricordo un volto che sia uno di quelli incontrati dietro a un banco d’assaggio o direttamente alla proprietà, escluso rari casi, di cui parlerò.  Né alla pregnanza di un rapporto umano può contribuire più di tanto un: “come è stata l’annata secondo lei?”, ché dopo la cinquantesima volta che lo chiedi ti accorgi che il silenzio è più dignitoso (e ha più risposte in merito). Un aspetto, quello dei rapporti umani che si intrecciano e delle esperienze che si raccontano, che mi è mancato. Da qui la scelta di tratteggiare un diario intimo. Ma non c’erano altre possibilità ed ero consapevole che sarebbe accaduto questo. Una domanda resta: mi sarò perso qualche cosa?

g)      I CONIGLI DI ARSAC – Spieghiamoci meglio, non ci sono stati contatti umani NUOVI. Quello che invece è accaduto con i miei compagni di viaggio, Ernesto Gentili e Fabio Rizzari, non è così distante dall’empatia. Due ciceroni incredibili, ma anche molto di più. Però un contatto “umano” nuovo e assai particolare, a ben vedere, c’è stato. Solo che non si è trattato di umanoidi, bensì di conigli. Sì, i conigli selvatici d’Arsac, che invariabilmente, durante i nostri rientri notturni, incontravamo nel silenzio magico della campagna di Margaux mentre cenavano ai margini delle vigne (erba fresca il piatto portante). Tanti conigli, disposti a piccoli gruppi, immortalati in posa guardinga dalla insistenza brutale dei nostri abbaglianti. Una serie di istantanee rimaste scolpite nella memoria. Un silenzio parlante il loro. E una intimità commovente, che vale più di mille parole. I conigli che si riprendono il Taj Mahal, pensa te, riconquistando la notte alla bellezza di una natura ancora capace di accogliere. Chi l’avrebbe mai detto!?

h)      BAR – Da quelle parti (Bordeaux ville esclusa) il bar è una chimera. Lo abbiamo capito ben presto. Più facile trovare abbandonata per strada una bottiglia di Valandraud. Chi soffrisse di prostatite nel Médoc deve sapersi arrangiare nei campi.  Se a Livorno si conta un bar ogni 50 metri lineari, in Aquitania la distanza si dilata:  10 chilometri per uno pseudo-bar, 20 chilometri per un bar propriamente detto. Checchennedicano alcuni nomi di paese propizi. Prendi Barsac per esempio: la immagineresti terra di bar, no? Beh, non è così (questa è una battura probabilmente ignobile, che ho in mente da quando son tornato e alla quale non volevo rinunciare. Se non verrà colta avrete tutta la mia comprensione).

i)       A VOLTE RITORNANO – In cinque giorni ci è mancato (si fa per dire) un rumore: quello dei clacson delle auto. Anche a Bordeaux città! Non ci potevo credere eppure è andata così. E’ stato un bel realizzare. A risvegliarti dal sogno è bastato atterrare a Fiumicino, al ritorno. Il tempo di salire sulla navetta che ci avrebbe condotto al parcheggio esterno e dopo circa 5 secondi un improbabile sgarro automobilistico di non son chi ha lanciato la navetta come una palla impazzita negli spazi angusti di una strada troppo ingolfata, all’inseguimento del malefico artefice, con il proposito di giustiziarlo là per là. Il nostro autista mulinava il braccio sinistro fuori dal finestrino per offendere chi non poteva vederlo (ma rigorosamente in silenzio, residuale forma di rispetto verso noi passeggeri), mentre il gomito dell’altro braccio premeva sul clacson con implacabile maniacalità. Non mi sovvengo con quale parte del corpo tenesse il volante. Lo “sgarratore” si è salvato al primo bivio. Lui a destra, noi a sinistra. Il clacson della navetta nel frattempo aveva imparato la parola vaffanculo, con eco incorporato. Di nuovo a casa.

FERNANDO PARDINI

6 COMMENTS

  1. Gran bel ritratto dell’evento e soprattutto del territorio che lo ospita…in pochi punti una chiara idea sul mondo del vino transalpino.
    Complimenti!

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