Diario di Bordò. Bordeaux Primeurs 2010 experience. Prima giornata: misto griglia

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Lunedì 4 aprile 2011

Temi: Canon la Gaffelière – Galassia Derenoncourt – L’altalena di Yquem – Miraggio Arcachon

Canon La Gaffelière

BORDEAUX (FRANCIA) – Pioggia leggera ed inconcludente stamattina, ché ha voglia di smettere, lo senti. La terra rinnova volentieri i suoi profumi ma ci vorrebbe più luce per incorniciare l’incanto architettonico di Saint Emilion, di gran lunga il borgo più affascinante che ho incontrato in questa trasferta d’Aquitania. Oggi, lunedì, non è giorno di degustazioni ufficiali da queste parti (si inizia, ma solo dal pomeriggio, a Sauternes), eppure il fermento attorno alle cantine e ai vari punti di “raccolta” per stampa e buyers è palpabile. Noi arriviamo presto – non sono ancora le 9 – a Château Canon La Gaffelière, una delle chicche enologiche della “scuderia” Von Neipperg, dove sono state radunate le varie etichette appartenenti ai “tenimenti”.

E’ qui che è avvenuto il mio battesimo bordolese. Mi ero preparato all’appuntamento con un palato simil-vergine, bonificato attentamente dai rigurgiti gastrici delle ultime bisbocce serali, lasciate opportunamente a distanza. Dentro di me una bramosia nervosa ma propositiva, come ai vecchi tempi, quando l’adrenalina mi rendeva bellamente insonni le vigilie di degustazione (in questo caso ci ha messo del suo anche l’improbabile Hotel Bonsai, ma lasciamo perdere). Ho realizzato anche sul perché esteriormente non la dia più a vedere tutta ‘sta bramosia: da qualche tempo i fatti e le emozioni mi vien meglio interiorizzarli. Il turbinio sta tutto dentro. Fuori, una scorza pressoché inespressiva, quella di un volto ahimè più vecchio e meno “elastico” di un tempo.

L’esperienza Canon comunque non è stata tanto prodiga di “vibrazioni”, perciò la scorza inespressiva del volto men che meno ha sofferto la tentazione di piegarsi ad un “turbamento” emotivo. Perciò, come del resto farò sempre e comunque anche nelle prossime puntate, non di tutti i vini vi parlerò, per riservare il ricordo ai migliori, che vanno dai simpatici ai dialettici, fino agli empatici. Alla prima categoria appartiene sicuramente il leggiadro, peperino Château Cap de Faugères 2010 (Côtes de Castillon), con il suo naso carnoso di violetta e inchiostro e le sue movenze gentili, proporzionate in un corpo tutto meno che maestoso, a cui soltanto un finale più dispersivo e svogliato toglie ulteriori motivi di attrattiva. Ciò che non accade a Château de Chambrun 2010 (Lalande de Pomerol), un merlottone (o quasi) dolce e sinuoso che aldilà della coltre boisé ti vuol far capire che qualcosa di buono sotto cova (e per poco non ci riesce davvero).

Fra gli assaggi più interessanti della mattinata annoto Château d’Aiguilhe 2010 (Côtes de Castillon), per via del timbro ferroso, del coté floreale e del buon melange di grinta e candore. Meno convincente – ma come fai a non parlarne? – Clos de l’Oratoire 2010 (St. Emilion GC), per la sua doppia velocità: (sur)maturità fruttata ad appesantire i profumi e palato orgogliosamente ma faticosamente reattivo. Il celebre premier vin della casa invece, Château Canon La Gaffelière 2010 (St. Emilion GCC), se da un lato non nasconde una certa vena vegetale, dall’altro non disperde grinta e volontà. Il centro bocca si muove sulle ali dell’equilibrio, più amaricante e contratto il finale. Ma senza dubbio l’assaggio più esaltante qui a Canon ha un nome solo: La Mondotte 2010 (St. Emilion GCC). Sia pur ancora ovviamente indietro nello sviluppo aromatico (ma senti che è un naso serrato e non slabbrato) ti coinvolge per dinamica e sapore, e per un tannino sapido e réfrechissant da farti drizzare tutte le papille che hai!

E a proposito di freschezza, assai istruttivi nel merito gli ultimi due assaggi in bianco, alle prese con Château Guiraud, celebre maison di Sauternes (peraltro l’unica cantina certificata biologica fra quelle storiche del classement 1855). Il bianco secco Le G de Guiraud 2010 (80% sauvignon;20% sémillon) è un vino gioioso, delicatamente fruttato (stimoli esotici) e calibratamente aromatico, che ispira una beva per la beva, senza troppi pensieri. Così come nato per la beva appare Château Guiraud 2010 (Sauternes 1er GCC), in cui l’impronta linfatico-floreale del sauvignon si fa sentire e la snellezza di un millesimo non proprio monumentale anche. Non il grasso e l’opulenza quindi, ma un umore ben dosato di botrite per un gusto dinamico, senza ridondanze o sdolcinate dolcezze. Insomma, da una annata probabilmente minore il pregio del ritmo e del garbo espositivo. Nel frattempo, là fuori, l’esile pioggia ha deciso di smettere. D’ora in poi sarà il sole ad alzare la voce e a dire la sua, prepotentemente, per tutta la settimana. Tanto che un inizio d’aprile così caldo, qui a Bordeaux, non se lo ricordavano da un pezzo.

Galassia Derenoncourt

Pioggia o sole che sia, andare a trovare uno degli enologi guru di Bordeaux è solo questione di passi. Nel palazzo di fronte Canon, con tanto di tendone e banchetti di assaggio (ma la presse veniva fatta accomodare in apposita sala e servita direttamente al tavolo dallo staff), Stéphane Derenoncourt sta presiedendo da par suo una kermesse, denominata L’A- grappe, che riunisce circa 50 aziende “dei paraggi” che si avvalgono della sua collaborazione (molte altre ne ha in giro per il mondo), consentendo all’avventore di poter spaziare random fra denominazioni celebri e meno celebri dell’universo bordolese. E magari realizzare che di normalità in giro ce n’è parecchia, che la manifattura “imposta” dal nostro -in genere- non è così aggressiva da tarpare le ali all’annata e ai vari cru di provenienza, che a Castillon ci nascono dei vini proprio simpatici, che certi classici sanno assestare zampate d’autore che non dimentichi e che per altri primattori liquidi à la page la somiglianza con un “classico” supertuscan (più o meno banalizzato dalla confezione) salta agli occhi.

In stretto ordine di apparizione, partendo dalle denominazioni meno note, ricordo con piacere il ritmo e la verve speziata di Château La Prade 2010 (Francs-Côtes de Bordeaux) e l’ispirato trio proveniente da Castillon, accomunato da una freschezza encomiabile e da una bevibilità istintiva, soprattutto per quanto riguarda Château Côte Montpezat Cuvée Compostelle 2010, floreale e dinamico, e Domaine de l’A (fra l’altro proprietà della stessa famiglia Derenoncourt), succoso ed elegante. Château La Croix Lartigue 2010 è più polposo e meno agile dei precedenti, ma non meno intenso e carnoso. Il primo brivido lungo la schiena però lo senti quando assaggi Domaine de Chevalier (Pessac-Leognan), storica proprietà delle Graves condotta da una ventina d’anni a questa parte dalla famiglia Bernard. La finezza, il savoir faire, l’assenza di forzature, il velluto di questo rosso ne fanno un vino infiltrante e di grande suggestione. Dopo i vini della scuderia Haut Brion (ne parleremo), il migliore assaggio della appelation. E se il celebre Smith Haute Lafitte, tanto per rimanere in zona, forse ha risentito di una campionatura farlocca, da un’altra denominazione poco chiacchierata ci arriva un buon conseguimento: Chateau Poujeux 2010 (Moulis). Perché è vino nitido, snello, sicuramente “crudino” ma fresco e scattante. Non è difficile pronosticargli un felice connubio con la tavola.  Ma il piatto forte della compagnia, il più atteso, ci parla invariabilmente di rive droite. E in particolare di Saint Emilion. Ebbene, tanto per andare al sodo, in un caso soltanto ho visto la luce: Château Larcis Ducasse 2010 (St. Emilion GCC). Grazie alla estrema eleganza, al dettaglio, alla sensuale sua pienezza, è questo un vino emblematico da non mancare. Per il resto, tanta normalità (leggi buona tecnica e poco cuore) da cui spunta un trio ambizioso, molto celebre (e celebrato) ma forse fin troppo eroso dalla ambizione di apparire. Clos Fourtet 2010 (St. Emilion 1er GCC) è “invaso da un oceano indiano di rovere” (Fabio Rizzari, inarrivabile funambolo della parola, mi perdonerà la citazione), Château Beausejour Heritiers Duffau-Lagarrosse 2010 (St. Emilion 1er GCC) ha consistenza materica e difficoltà nei movimenti (anche se la sensazione di freschezza acida in fondo non manca), Château Pavie Maquin (St. Emilion GCC) ricalca solo in parte le caratteristiche dei precedenti, con il timbro tostato (il Masna(ghetti) forse lo definirebbe “ferriniano”) a veicolare un naso compresso e presenzialista, e un salvifico pertugio in fondo al palato nel quale riporre la residua tua fiducia di intravvederci un giorno quel movimento, quello scarto di lato, quello sprazzo di originalità capace di riallacciare un dialogo più stretto con il buonissimo terroir di provenienza.

L’altalena di Yquem

Oggi, Ernesto ed io, abbiamo deciso di affidare le sorti del pranzo alla eventualità di incontrare lungo la strada quantomeno un proto-bar (speranza ben presto risultata vana), durante la traversata automobilistica che da Saint Emilion ci condurrà -campagna dopo campagna-  nel Sauternais, prima tappa di avvicinamento verso Bordeaux (a una cert’ora arriverà Fabio Rizzari par avion, e dobbiamo prenderlo su all’aeroporto) e quindi verso il Médoc propriamente detto, dove hanno sede i nostri rifugi notturni. A Sauternes città (eufemismo) tentiamo pure la ricerca di una mangiatoia (sono le due passate). Nessuna traccia di cibo. E nessuna traccia di un bar, ovviamente. La calura sale con decisione. Per fortuna, al bisogno, puoi ottemperare nei campi alle impellenze vescicali. E’ già qualcosa. Per ovviare invece ai reclami stizziti dello stomaco, decido di confondermi, guardandomi attorno e annusando un po’ di territorio, a zonzo per l’amena campagna sauternaise. I contorni netti delle cose, il bianco bagliore riflesso dai bellissimi muretti a secco, la via degli châteaux, l’incanto delle vigne, il silenzio assordante: un universo visivo di pregnante e bucolica consistenza, questo è. Poche case nei dintorni, mentre su piccole collinette spuntano i profili emblematici delle dimore storiche e dei castelli. Mi sarei atteso un territorio lussuoso, tirato a lucido. Non è del tutto così. I rumori, pochissimi, sono quelli della campagna reale, gli orologi sono quelli con le lancette rimesse regolarmente all’indietro, come per ogni campagna che si rispetti.

Passeggio nei vigneti di Yquem, al centro del mondo. Unica presenza discreta, alcuni cavalli a ruminare l’erba. Mi guardo attorno e noto una cosa che mi colpisce immediatamente. Di fronte all’ingresso dello château, laddove senti il peso della Storia calare dall’alto la sua solenne sentenza di unicità, proprio aldilà della strada, ci stanno un paio di casette NORMALI, con i loro piccoli disordinati giardini NORMALI, i loro cancelli (mal funzionanti) NORMALI, le loro mura bisognose di una rinfrescata, NORMALI pure quelle. Un paio di casette semplicemente vissute, quotidianamente vissute. Sparsi nel giardinetto, insieme al barbecue, i giochi di un bimbo: una macchinina di plastica a gambe all’aria, l’immancabile duo secchiello & paletta, ma soprattutto un’altalena, che un timido refolo di vento si ostinava a far oscillare lievemente, quasi si trattasse di tenerla sempre e comunque in movimento. Quella visione ha assunto il nitore abbagliante di un segno: di fronte al mito c’è una piccola altalena, sparuto avamposto di una quotidianità silente che non sembra per niente toccata dall’aura di esclusività che respiri tutt’attorno. Non so se quella famiglia, che mi immagino umile, senta il privilegio (o il peso) di avere un dirimpettaio tanto famoso. Eppure tutto mi porta a credere che i pensieri di quella gente siano altri. Doverosamente altri. Obbligatoriamente altri. Fortunatamente altri. Ed è così che ho sognato una campagna piena di altalene.

Miraggio Arcachon

Questa prima giornata, lo avrete capito, non è stata  – come lo saranno le altre a venire- completamente votata alle degustazioni e alle visite negli châteaux. Si è trattato della tipica giornata di avvicinamento, con il pomeriggio in parte dedicato al prelievo del terzo alfiere, Fabio Rizzari, all’aeroporto di Bordeaux e quindi al raggiungimento delle rispettive sedi (nei pressi di Margaux) che ci avrebbero ospitato nei giorni successivi (a tal proposito, difficile per me smettere di ringraziare lo staff di Château Giscours, nostra dimora privilegiata per cinque giorni). E se ho capito immediatamente che spostarsi dalla riva destra alla riva sinistra significa farsi un’ora e passa di macchina, cioè che le distanze qui a Bordeaux sono distanze per davvero, ho pure capito che uno dei propositi messi in cantiere fin dalla partenza, quello di vedere l’oceano con la scusa di mangiare ostriche e pesce ad Arcachon (ma potrebbe valere anche il viceversa), sarebbe ben presto crollato sotto il perentorio decisionismo dei “chiusi per turno”. Contrariamente ad altre parti della regione, e della Francia in generale, dove solitamente fai fatica a trovare un ristorante aperto alla domenica sera, nella località marinara e turistica di Arcachon, in faccia all’oceano Atlantico, funziona un po’ come da noi nella Toscana costiera: il lunedì non c’è un ristorante aperto neanche a pagarlo. Avevamo otto referenze otto, minuziosamente appuntate sul taccuino, e tutte si sono manifestate con la voce definitiva di una segreteria telefonica. Arcachon, o meglio l’oceano, è stato solo un miraggio. Un miraggio disatteso. E devo dire che quel mare là, che non avevo mai visto, mi è mancato. E pure le ostriche.

Così, una telefonata al Cicerone dei Ciceroni di Bordeaux, ovvero al signor Persichetti (alias Alessandro Masnaghetti, stimato amico e collega, frequentatore di lungo corso di questi lidi), ci ha tolto le castagne dal fuoco, anche se non il piede dall’acceleratore. Quella sera non avevamo previsto di ritornare a Bordeaux (mercoledì sarebbe stato il giorno deputato) ma non avevamo altre opportunità, perché nello sterminato Médoc non ci sono che tre o quattro ristoranti dispersi a una distanza siderale l’uno dall’altro, peraltro non sempre assistiti da una nomea tranquillizante. L’ora di cena d’altro canto incombeva, e la grande città metteva sul piatto, letteralmente e non, tutto il suo fascino di sirena gastronomica. Così ci siamo ritrovati sul tardi avanzato a testare un bistrot nuovo di zecca, Le Comptoir Cuisine, ubicato nella centralissima Place de la Comedie, un locale sullo stile “downtown Manhattan” dalla ambientazione minimal chic, gli scranni curiosi, la mise en place carina ed essenziale, la cucina a vista, le luci studiate, il personale a metà strada fra professione e understatement. Quando hai fame hai fame, lo sai, e il cibo è entrato in circolo senza infamia e senza lode. Da lì a poco lo avrei dimenticato. Così come non avrei dimenticato le luci della città, il brusio pieno di aspettative di una gioventù fremente e smaliziata, lo splendore aureo di certi palazzoni e la bottiglia di Doisy-Daene 2007 sul nostro tavolo, elegante, sfizioso bianco del sauternais (ovviamente a base sauvignon e semillon) fra i più regolari e affidabili della regione.

Dopo cena, il peso di una giornata intensa, fitta di vini e di trasferimenti, non ha tardato a farsi sentire sulle gambe. Un’oretta dopo, un sonno irrefrenabile avrebbe ben presto chiuso gli occhi e i giochi sulla notte esageratamente stellata di Margaux, non omettendo di condurmi sul crinale agitato di certi sogni frequentati da cavalli ed altalene. L’indomani sarebbe stato un giorno ancor più impegnativo, con un inizio folgorante: ore 8,00 da Haut Brion, nientepopodimenoche. Come a dire sveglia alle 6.

Ma vuoi mettere lo sfizio di poter raccontare ai posteri: “colazione da Tiffany? No, da Haut Brion!!”

FERNANDO PARDINI

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